venerdì 25 maggio 2012

"Guadagnare salute a tavola"

Venerdì, 25 maggio - ore 18.00


c/o Officine Cantelmo - Lecce

"Guadagnare salute a tavola"







Talk show con la presenza di:



Roberto Copparoni

Ministero della Salute



Luigi De Bellis

Università del Salento



Laura Gennaro

INRAN



Andrea Ghiselli

INRAN



Pina Pacella

ASL Lecce / SIAN



Amedeo Serra

Nutrizionista



Modera:

Antonio Bruno

Agronomo



Un incontro con il pubblico, con le famiglie, una "chiaccherata" intorno al delicato, importante

e quanto mai attuale tema dell'alimentazione correlata alla salute e al benessere.

lunedì 21 maggio 2012

Le specie spontanee erbacee commestibili: tra sapori e saperi

Le specie spontanee erbacee commestibili: tra sapori e saperi


di Vito Bianco



In Puglia da oltre 40 anni sono state avviate ricerche sulle erbe spontanee eduli. Attualmente risultano censite circa 550 entità (pari al 24% delle specie annoverate sul territorio pugliese) che appartengono a circa 80 Famiglie e la più importante è quella delle Asteraceae (19%).

Vengono utilizzati tutti gli organi della pianta: al primo posto è la foglia (80% delle specie), seguita dallo stelo tenero (36%) e il fiore (20%). Il 75% delle erbe si consumano bollite, il 44% in insalata, mentre il 28% a minestra.

Tra le specie più frequentemente ricercate ed utilizzate in cucina si citano: asparago pungente, bietola comune, boccione maggiore e minore, borragine, cardogna, cicoriella, grattalingua, grespino, lampascione, orobanche, papavero, portulaca, ruchette, senape selvatica e silene rigonfia. Il territorio pugliese è ricchissimo di antichi piatti tipici a base di erbe spontanee che meritano di essere valorizzati; interessanti appaiono gli esempi di impiego delle erbe spontanee nella filiera alimentare artigianale. Degni di attenzione sono gli forzi compiuti da ricerche multidisciplinari, rivolte alla domesticazione di alcune specie come è come è accaduto per esempio per la ruchetta che, da specie spontanea, oggi in Italia, viene coltivata anche in serra su oltre 1.000ha.

Tra i motivi che spingono a cercare, caratterizzare, raccogliere, valorizzare, utilizzare e salvaguardare le erbe spontanee eduli si possono citare:

1) Rischio di estinzione di alcune specie;

2) Il contatto con la Natura, con i contadini anziani e gli ambienti rurali aiuta a recuperare l’etnobiodiversità, cioè quel vasto patrimonio di tradizioni gastronomiche, riti religiosi, ritualità conviviali, termini dialettali, credenze popolari, proverbi, filastrocche, modi di dire, poesie, feste e sagre popolari;

3) “Andar per erbe”, stimola sentimenti positivi, attenua il livello di ansia e di stress e contribuisce al benessere psicofisico;

4) Si impara ad accettare i ritmi della Natura e la ciclicità delle stagioni;

5) Si scoprono sapori, profumi, colori e forme quasi sconosciuti nella cucina di tutti i giorni;

6) La Natura le offre gratuitamente e pertanto contribuiscono al bilancio della famiglia;

7) Non si corre il rischio di ingerire prodotti antiparassitari;

8) Offrono la possibilità di diversificare la dieta;

9) Possono essere considerate strumenti di salute, “cibo medicina”, perché le ricerche stanno mettendo in luce la presenza di nutrienti e metaboliti secondari con attività biologiche che mostrano capacità protettive nei confronti di molte malattie.

Il Topinambur del Salento leccese (Helianthus annuus)


Il Topinambur del Salento leccese (Helianthus annuus)



Chiamato anche girasole del Canadà o girasole perenne

Helianthus tuberosus L.

Famiglia Compositae (Asteraceae)



Etimologia

dal greco helios, sole ed anthos, fiore, ovvero “fiore del sole”, per la somiglianza dei fiori del girasole (Helianthus annuus) alle immagini del sole.



Somiglia ad una patata molto mal riuscita ma il suo sapore è più simile a quello di un cuore di carciofo (da qui il suo nome comune carciofo di Gerusalemme), il topinambur è un tubero infestante e una specie finita nella lista nera nel nostro paese delle "specie aliene", essendo nativa del nord America. Vedendo la pianta, però, non possiamo fare a meno di dire che è davvero deliziosa: infatti il topinambur (conosciuta anche come Rapa tedesca) cresce facendo delle fantastiche e molto alte margherite gialle (cosa che si può ben capire dal suo nome scientifico Heliantus tuberosus) e come non innamorarsi di questi fantastici fiori? E allora perché non coltivarle sul proprio balcone?



Insomma non hanno bisogno di alcuna cura, hanno bisogno di pieno sole, non necessitano di troppa acqua e producono una quantità enorme di cibo se coltivati.



Basta che vi procuriate i tuberi dal vostro fruttivendolo e li seppelliate proprio in questo periodo (da gennaio a marzo) appena sotto la terra in un bel vaso o nel vostro giardino ponendo al di sopra anche un po' di foglie secche o di paglia, ciò che in gergo si chiama pacciamatura per proteggere i futuri germogli. Poi passate all'annaffiatura e null'altro, come detto non hanno bisogno di troppe cure.

Una volta raccolti questi tuberi vanno conservati in frigo e mangiati entro 4-5 giorni dalla raccolta.I tuberi del topinambur non contengono glucosio e quindi sono perfetti per chi è diabetico, inoltre lo zucchero complesso di riserva non è l'amido (come per le patate), ma l'inulina per questo non esagerate con il suo consumo altrimenti la formazione di gas da parte del vostro intestino sarà inevitabile.


Il topinambur può essere consumato sia crudo che cotto, in insalata, a vapore condito con un filo di olio evo ed una spolverata di pepe nero.



Descrizione

Pianta perenne pubescente e scabra, con fusti alti mediamente 1,5 - 2 m, ramosi, con rizoma strisciante ingrossato in tuberi terminali nodoso-irregolari che ricordano piccole pere allungate, esternamente biancastri (var. albus) fino al rosso-violaceo (var. purpurascens).

Foglie opposte, verticillate a tre o sparse, le inferiori ovato-cordate, le altre ovate o lanceolate attenuate alla base, tutte con piccioli cigliati in basso.

Fiori giallo-dorati, compaiono da agosto ad ottobre, riuniti in capolini disposti quasi in corimbi su lunghi peduncoli gracili, quelli esterni forniti in media di 15-16 ligule (petali) lunghe 2-3,5 cm.

I frutti sono acheni lunghi 5 mm, con 1-4 reste cigliate, da noi molto di rado giungono a maturazione e quindi per lo più questa pianta si diffonde per via vegetativa grazie ai suoi tuberi.

Le foglie e i fiori si usano in tintoria per colorare la lana e la seta.



Ecologia: argini dei fiumi, sponde, incolti.



Distribuzione e habitat

Coltivata e in molti luoghi largamente naturalizzata, comune nella pianura Padana, più rara nell’Italia centro-meridionale, indicata per la Sardegna e la Sicilia. Dal piano fino a 800 m di quota.



Il topinambur è una specie americana, originaria del Canada e delle praterie nord-orientali degli Stati Uniti; fu portata in Europa dall’esploratore S. de Champlain e coltivata in Italia già nel 1606 in un orto a Roma. Cresce lungo gli argini e le golene dei fiumi, le rive dei fossi, campi e incolti.



Parti utili: i tuberi



Proprieta’ medicinali e curiosita’

I tuberi del topinambur sono ricchi di inulina, un polisaccaride o zucchero complesso, e sono quindi adatti anche all’alimentazione dei diabetici. Possiedono inoltre azione lassativa e stimolante sulla produzione del latte. Alcuni ricercatori li hanno recentemente rivalutati anche come possibile fonte di etanolo, in particolare, grazie alla rusticità di questa pianta, per zone aride o difficili per altre colture adatte allo scopo.



Periodo di raccolta: da ottobre a dicembre



Impieghi: i tuberi, noti come topinambùr, tartufi di canna, tartufo del Canada, trifole bastarde,

carciofi di Gerusalemme, patate del Canada, ecc., che non vanno confusi con quelli della patata

dolce, patata americana o batata (Ipomoea batatas) che appartiene alla famiglia delle Convolvulaceae, vanno raccolti quando la pianta si è seccata (da fine novembre a febbraio). Dopo una accurata lavatura si sbucciano e sono pronti da preparare. Si lessano come le patate, cucinati

in teglia “al funghetto”, gratinati in forno con panna e besciamella, fritti, oppure crudi tagliati a

fettine sottili nelle insalate miste o intinti nella “bagna caoda” piemontese. La polpa ha un sapore

che ricorda i fondi di carciofo ed in genere è gradita, solo qualche palato non avvezzo alle

novità la giudica un po’ stucchevole. Bisogna dire tuttavia che in alcune varietà orticole il sapore

e le dimensioni sono migliorate; già più di 60 anni orsono un selezionatore, il cav. D. Fasan,

isolò un ceppo di questa specie chiamandolo “eliànto italico” che ebbe notevole diffusione nell’

agro romano e pontino. Le foglie sono usate come alimento in elicicoltura (allevamento delle

chiocciole).



Ricette:



Topinambur al latte e prezzemolo

Pelate i tuberi (800 gr), laveteli e tagliateli a piccoli tocchetti, versateli in una casseruola con un

litro di latte. Portate ad ebollizione, salate, unite 20 gr. di burro e lasciate bollire a fiamma media

fino a cottura completa. Il liquido dovrebbe avere a questo punto una consistenza cremosa,

aggiungete prezzemolo tritato e lasciate insaporire ancora 5 minuti. Sono un ottimo e delicato

contorno da consumare caldo, volendo con una bella spruzzata di formaggio grana.



Gnocchi di Topinambur.

Ingredienti: 600 g. di topinambur, 250 g. di farina bianca, uova q.b., 400 g. di pomodorini,

prezzemolo, alcuni cucchiai di olio d’oliva, sale q.b.. Cuocere in acqua i topinambur, scolarli

e trasformarli in purea. Addensare la purea sul fuoco in una padella, lasciare raffreddare, aggiungere

la farina e le uova e ottenere un impasto morbido, lavorando poi su una spianatoia

come per gli gnocchi di patate. Cuocere gli gnocchi e scolare come d’uso, facendoli saltare poi

velocemente in una padella con l’olio, i pomodorini tagliati e un trito di prezzemolo, aggiustare

di sapore con sale.



Topinambur alla besciamella.

Ingredienti: topinambur, besciamella, burro, limone e sale q.b. . Cuocere in acqua salata a fuoco

basso e con qualche goccia di limone i topinambur tagliati a grosse fette. Scolarli e rosolati nel

burro. Preparare nel frattempo la besciamella. Disporre i topinambur su un piatto di portata e

versarci sopra la besciamella calda.

domenica 20 maggio 2012

Foje reste: diversità nel piatto.

Foje reste: diversità nel piatto.


E’ ancora tempo di raccolta, impariamo a riconoscerle.

Foje reste a minestra, detta anche “foja ‘misca”, è forse tra le più antiche pietanze popolari. Nella tradizione salentina, più di dieci diverse specie vegetali spontanee trovano un incontro armonioso ed esaltante nella loro mescolanza. Un intreccio di sapori che non ha paragoni nelle comuni ricette di verdure, perché costruito sull’ equilibrio delle componenti, tutte selvatiche, per niente uniformate ai gusti prevalenti e sempre meno attenti a cogliere le differenze e le piccole leccornie che la terra può ancora offrire.

Non vi è dubbio che una simile mescolanza abbia un’ origine antica ed una diffussione certamente molto ampia; in altre parti della Puglia è conosciuta con nomi diversi e, soprattutto, con composizione e proporzioni diverse a seconda della tradizione. A Fasano è conosciuta come Fògghe de fure, a Brindisi come Fogghie ‘mbiscàte, Misculànza a Taranto, Foje maddhate a Maglie, Jèrave scerse a Ceglie Messapica ecc…

Se è vero che queste erbe, prese singolarmente, non possono competere con le qualità culinarie delle varietà coltivate, è anche vero che la foja ‘misca è un piatto altro, da non intendersi come succedaneo di qualcosa ma degno di un proprio posto all’interno di una cultura culinaria e botanica che è ancora patrimonio di molte persone; certo tutte anziane, più spesso donne, le cui conoscenze rischiano di essere perdute per sempre.

Le piante che entrano in questa mescolanza vengono raccolte sempre prima della fioritura, quindi sottoforma di foglie (foje reste); con la fioritura diventano fibrose molto amare e quindi non più commestibili; come dice un proverbio salentino: “quannu ‘rriva a ‘nnunziata ogni erva sa ‘licenziata”. La Madonna Annunziata, che ricorre il 25 marzo, segna simbolicamente la fine della raccolta delle erbe selvatiche e, fatta eccezione per alcune, il detto popolare risponde alla norma.

Con il termine foje reste, tuttavia, non si indica tutto l’insieme delle piante selvatiche commestibili ed utilizzate in cucina ma, solamente, quelle che entrano nella pietanza che prende il nome di “foja ‘misca”. Quelle, cioè, che con le loro affinità e con le loro differenze possono mescolarsi conferendo al piatto una sua precisa identità. Scopo di questo lavoro è proprio quello di porre risalto non ad un generico elenco di vegetali selvatici bensì a quel particolare gruppo di specie che la tradizione fonde in un unico piatto.

Naturalmente la raccolta presuppone la capacità di riconoscere queste piante, cosa non sempre facile se si considera che molte di esse sono simili ad altre non commestibili o di alcun valore culinario. Gli stessi raccoglitori (più spesso raccoglitrici) non conoscono sempre tutte le specie ed è proprio da questa maggiore o minore conoscenza che dipende la ricchezza floristica di quello che va a finire nella pentola.

La minestra base può essere costituita da due, tre specie ma le persone più esperte preparano mescolanze con tutte le specie di seguito descritte, facendo mancare solo quelle non rinvenibili in un dato momento o in un dato luogo.

Da un punto di vista botanico, la maggior parte delle specie appartiene alle famiglie delle Compositae e delle Umbelliferae. In particolare la prima famiglia contribuisce a dare sostanza e sapore alla minestra mentre la seconda porta un contributo più forte in aroma e fragranza.

Sono tutte comuni nel territorio pugliese presenti, spesso, negli ecosistemi agricoli e quindi a stretto contatto con i contadini. L’uso dei pesticidi rende la pratica della raccolta più pericolosa che in passato, ma i raccoglitori esperti conoscono le zone e stanno attenti.

Le schede che seguono, pur segnalando alcuni caratteri essenziali delle singole specie, non sono sufficienti al riconoscimento; questo lavoro è più complesso e va affrontato con gli strumenti idonei (Chiavi analitiche, lente ecc..) e con le competenze che ne permettano l’utilizzo. Esse, però, possono essere da stimolo a due approcci possibili ed entrambi auspicabili: chi ha già una buona conoscenza delle piante e dell’utilizzo delle guide floristiche può identificare le erbe della mescolanza grazie alla corrispondenza tra nome dialettale e nome scientifico che è stato rigorosamente riportato; il dilettante può, invece, affidarsi ad un raccoglitore esperto/a e farsi insegnare a riconoscere le specie più importanti recuperando, oralmente e sul campo, un sapere che altrimenti andrebbe perduto.

Il recupero della memoria storica e del senso di una cultura passa sempre attraverso il rapporto diretto con chi ancora la mantiene in vita.

Un contributo, sia scientifico che culturale, alla conoscenza di queste piante è venuto, inoltre, da una interessante pubblicazione, a cura di Vico Maglie, dal titolo “Le piante spontanee commestibili nella tradizione del Capo di Leuca”, ed. Salentina – Galatina 1999, che presenta le schede descrittive di molte delle specie utilizzate nell’antica ricetta.

Quanto alla preparazione della minestra di foje reste (Foja ‘misca) bisogna avere un po’ di pazienza nella mondatura, pulizia e lavaggio delle verdure; la ricetta, in compenso, è molto semplice e senza particolari elaborazioni.

Le erbe raccolte, con taglio netto appena sotto le prime foglie, pulite e lavate sono messe nella pentola con acqua fredda che si porta ad ebollizione. Dopo averle sbollentate, si scolano e si riversano in una pentola dove si è provveduto a soffriggere aglio e cipolla. Si copre con il coperchio e si lascia cuocere a fuoco lento. A metà cottura si può aggiungere formaggio grattugiato oppure in scaglie dure prese dalla parte esterna della forma.

Una variante più saporita e quella che si prepara con pezzi di carne di maiale, precedentemente soffritti con aglio e cipolla, e l’aggiunta di peperoncino piccante.

In ogni caso quello che ne viene fuori è una grande opportunità per il gusto di recuperare sapori e aromi, non perdere l’allenamento con la diversità, di apprezzare la genuinità di piante ancora esenti da qualsiasi tentativo di manipolazione.

Francesco Minonne

“Foje reste”. Schede delle specie costituenti.

* I nomi dialettali sono quelli più in uso nel basso Salento.

*Cicureddha

Cicoria selvatica

Cichorium intybus L. – Fam. Compositae

E’ quasi sempre questa specie l’ingrediente principale della minestra di foje reste, e spesso entra in

altre ricette della cucina tradizionale ( cicureddhe a minestra, fave nette e cicureddhe ecc…).

E’ anche frequente l’accoppiata cicuredde e zanguni, in quanto specie molto comuni, facilmente

riconoscibili e con possibilità di raccolta per quasi tutto l’anno.

Una volta vicina alla fioritura, come tutte le foje reste, perde il suo valore culinario ma acquista

grande valore estetico grazie ai suoi bellissimi capolini azzurri, numerosi e distribuiti sulle molte

ramificazioni del fusto. Il capolino rappresenta l’infiorescenza caratteristica della famiglia delle

compositae.

La cicoria selvatica si presenta come specie annuale, oppure perenne o, più spesso ancora, da

bienne.

La sua coltivazione, risalente al XVII sec., ha portato alla selezione delle molte varietà di cicoria

oggi conosciute.

La forma spontanea ha, però, conservato tutta la sua dignità ed il suo sapore selvatico,

piacevolmente amarognolo, e oggi molto ricercato dai palati più fini.

Tra le molte virtù che vengono riconosciute a questa pianta, oltre a quelle medicinali, va ricordato il

contenuto in vitamine B, C, P e K.

Zangune

Grespino

Sonchus oleraceus L. – Fam. Compositae

Come la lattuseddha e le cicureddhe può essere raccolta già a partire da gennaio e fino all’inizio

dell’estate ed è al secondo posto in questa lista di erbe, sia come presenza nella minestra che come

diffusione e conoscenza nel territorio.

E’ una specie annuale oppure bienne.

Le foglie sono inciso-lobate con i margini dentati apparentemente spinulusi ma molli, con due

orecchiette alla base acuminate che avvolgono il fusto. I fiori sono riuniti in capolini di colore giallo

intenso.

Al taglio emette latice, soprattutto dal fusto e dalle nervature centrali delle foglie. E’ pianta comune

ovunque ma in particolar modo tra le colture concimate e quindi all’interno di ambienti molto

antropizzati.

Nella cultura popolare, lo “zangune” è, insieme ad un’altra pianta la “zivirnia” (Smirnium

olusatrum) mangereccia ma non compresa tra le Foje reste, simbolica dello stato di povertà perché

ultima possibilità di rimediare una minestra di verdure anche in tempi molti duri.

Cànnulu vacante

Ambretta annuale, Vedovina marittima

Knautia integrifolia (L.) Bertol., Scabiosa maritima L. - Fam. Dipsacaceae

Con lo stesso termine dialettale vengono indicate e raccolte almeno le due specie citate, che

soprattutto allo stato di foglie in rosetta basali presentano solo leggere differenze.

Annuale la prima specie, bienne la seconda sono entrambe caratterizzate da foglie inferiori

spatolate, più o meno profondamente divise. A fioritura presentano un’infiorescenza violetta simile

al capolino delle compositae.

Arricchisce la minestra con il suo sapore dolce ma non è molto profumata come invece recita il

proverbio popolare: “ci voi la foja odorante, carcarìscinu e cànnulu vacante”. Il periodo migliore

di raccolta va da febbraio ai primi di aprile.

Carcarìscinu

Ombrellini pugliesi

Tordylium apulum L. - Fam. Umbelliferae

E’ una pianta annuale caratterizzata da peli molli e foglie divise in segmenti molto simili tra di loro

e, a loro volta, divisi in cinque lobi con margine crenato.

I fiori sono riuniti in una bella ombrella a 6, 8 raggi ed i fiori esterni hanno un petalo più vistoso

(vessillare) bianco o roseo.

Qui il proverbio non si sbaglia perché questa pianta è tra le più aromatiche delle foje reste, come

altre Umbelliferae è inserita nella mescolanza proprio per il suo profumo, che nel caso specifico è

delicato quindi con caratteri selvatici poco accentuati.

Si raccoglie preferibilmente nel periodo febbraio – marzo.

Sprùscinu

Aspraggine

Picris echioides L. - Fam. Compositae

E’ una pianta annuale caratterizzata da una pelosità quasi pungente caratteristica richiamata da tutti

e tre i nomi.

Le foglie basali sono spatolate e presentano verruche biancastre. I fiori sono riuniti in capolini

gialli, le ligule esterne sono venate di violetto al di sotto.

Nonostante l’aspetto è un’erba molto dolce e quindi ottima per attutire il sapore amaro di altre

specie ingredienti.

E’ diffusamente conosciuta e quindi rientra, insieme a cicureddha e zangune tra le componenti di

base della mescolanza.

E’ una specie molto comune ai bordi delle strade, nei pascoli aridi e negli incolti. Il periodo

migliore per la raccolta va da gennaio a maggio.

Lattuseddha

Caccialepre

Reichardia picroides (L.) Roth - Fam. Compositae

E’ una pianta perenne, molto comune che vive in svariati ambienti, in particolare su terreni poveri o

con roccia affiorante.

All’interno dei fusti circola una linfa lattescente (latice) e da questo ne deriva il nome dialettale, le

foglie sono di forma molto variabile ed i fiori, riuniti in capolino sono di colore giallo quelli interni

e bruno – purpurei quelli all’esterno.

Il sapore è dolciastro ma molto selvatico, si raccoglie da gennaio fino ad aprile.

Pistinaca resta

Carota selvatica

Daucus carota L. - Fam. Umbelliferae

Erbacea bienne con fusto eretto che si ramifica in alto, piuttosto ispido. I fiori sono riuniti in una

ricca e vistosa ombrella bianca. La radica è un fittone succedaneo della carota coltivata.

Nella minestra delle foje ‘mische vengono utilizzate le giovani foglie molto prima dell’emissione

dello scapo fiorale,.

Conferisce alla pietanza un caratteristico aroma

Marìula

Radicchio tubuloso

Hedypnois cretica (L.) Will. - Fam. Compositae

E’ una pianta annuale, piuttosto robusta, con numerose foglie che prima della fioritura risultano

schiacciate al suolo.

Il capolino, giallo, è sorretto da un fusto ingrossato a clava.

Non sono sempre presenti nella mescolanza sia perché poco comuni sia perché sono note a poche

esperte raccoglitrici.

Buone da raccogliere nel periodo febbraio – marzo apportano alla minestra sostanza e un sapore

dolce.

Socra

Boccione minore

Urospermum picroides (L.) Shmidt – Fam Compositae

Meno appariscente del bellissimo Boccione maggiore, questa erba annuale ha però maggiori

riconoscimento nella nostra pietanza.

Il richiamo alla suocera può venire dal margine dentato e ruvido delle foglie oppure dal suo sapore

amarognolo.

I fiori sono riuniti in un capolino giallo ma, come per le altre specie, non bisogna aspettare di

vederli per poterla raccogliere. Le giovani piante possono essere raccolte da febbraio ad aprile in

incolti, vigne, oliveti.

Finucchiu restu

Finocchio selvatico

Foeniculum vulgare Miller - Fam. Umbelliferae

E’ sicuramente tra le piante più conosciute delle nostre campagne, per le sue caratteristiche foglie

divise in segmenti lineari, il cui picciolo viene mangiato anche crudo come avviene per le varietà di

finocchi coltivato.

I fiori sono giallognoli e riuniti in ombrelle all’apice di fusti eretti e molto allungati.

E’ una pianta perenne che sopravvive anche a condizioni di incendio e pascolamento.

Nella minestra apporta soprattutto il suo inconfondibile profumo. Le massaie esperte sanno che non

devono esagerare con le quantità di “finucchiu restu” nella minestra per non coprire i sapori delle

altre specie.

Culacchiu de porcu

Costolina annuale

Hypochoeris achyrophorus L. – Fam. Compositae

Piccola pianta con le foglie a rosetta basale, appiattite al suolo, leggermente pelose e con denti

appena accennati.

Il fusto è densamente peloso specie al di sotto del capolino che è di colore giallo.

E’ comunissima soprattutto nei terreni molto pascolati e incolti.

Le foglie, utilizzate nella minestra, hanno una certa carnosità e sono di sapore dolce.

Il periodo migliore per la raccolta è febbraio – marzo.

Foja duce, Foja Lucia

Radicchiella minore

Crepis neglecta L. Fam. Compositae

Sono due piante molto simili appartenenti a due subspecie della Radicchiella minore.

Il ciclo della specie è annuale e, al momento della raccolta si presenta con foglie in rosetta,

spatolate, intere e dentate.

Nello stadio che precede la fioritura, invece, risulta caratterizzata da un fusto ramificato le cui

diramazioni sono ispide alla base e più o meno glabre in alto.

I capolini sono numerosi, piccoli e gialli.

Il sapore è dolce ed il periodo migliore per la raccolta va da febbraio a fine marzo.

Murlu

Visnaga maggiore

Amni majus L. Fam. Umbelliferae

Questa ombrellifera annuale e caratterizzata da foglie divise in 3, 4 segmenti terminati in un dente

cartilagineo subspinoso.

Giunta a fioritura presenta ombrelle fiorali composte da 15-30 raggi. I singoli fiori sono di colore

bianco-giallastro.

Molto profumato, ha un sapore amarognolo. Se cucinato da solo può provocare diarrea.

Il periodo migliore per la raccolta è sempre tra l’inizio di febbraio e la fine di marzo.

‘Lapazzu

Ròmice o Lapazio

Rumex obtusifolius L., Rumex pulcher L., Rumex crispus - Fam. Polygonaceae.

Con lo stesso termine dialettale vengono indicate più specie del genere Rumex tutte raccolte e

pienamente inserite nell’elenco delle specie che costituiscono le “foje reste”.

Rumex obtusifolius è una pianta perenne, con fusto eretto e rigido alto fino ad un metro; le foglie

hanno forma da lanceolata a ovale, quelle basali hanno lamina con base troncata ed apice

arrotondato. I fiori, poco appariscenti, sono riuniti in spighe o pannocchie lineari allungate e sono

anch’essi rossastri.

È molto comune, soprattutto in terreni freschi e ricchi, viene raccolta da gennaio a marzo.

Conferisce alla minestra un sapore debolmente acidulo.

Francesco Minonne

Articolo pubblicato su Orecchiette e dintorni supplemento di Nuovo Corriere Barisera .Leccesera

venerdì 18 maggio 2012

Caratteristiche della Terra d'Otranto

Caratteristiche della Terra d'Otranto

Giuseppe Bonaparte, fratello maggiore di Napoleone, divise il Regno di Napoli in 15 Province, tra cui Terra d’Otranto, che si articola in 4 distretti: Taranto, Brindisi, Gallipoli e Lecce.

La popolazione iniziò ad aumentare, ma la superficie abitata era poca, quindi era necessario ESEGUIRE delle bonifiche, che vennero effettuate in seguito dallo Stato, a Brindisi.

Una volta bonificate le terre, le più importanti erano quelle con le coltivazioni di olive, olio e uva, quest’ultima subì una crisi di esportazione per via della chiusura dei trattati con la Francia e per l’esportazione dei parassiti. Per quanto riguarda l’olio, il porto più importante era quello di Gallipoli, dal quale veniva esportato ovunque.

Mentre per quanto riguarda il vino, a Gallipoli si produceva vino da taglio, nel circondariato di Brindisi vino raffinato, e a Taranto la produzione veniva suddivisa in:

- Vini da taglio

- Primitivo di gioia (Martina Franca)

Si ebbero difficoltà economiche dal punto di vista della conservazione della merce, di dazi doganali ed altre tariffe, soprattutto per quanto riguarda il trasporto della merce che provocava gravi danni al momento della consegna. Grande importanza ebbe nell’800 la cerealicoltura (grano, orzo, avena, mais). Queste attività subirono una crisi dovuta ai prodotti americani, importati ad un prezzo più basso, tanto da portare alla coltivazione di nuovi prodotti come il tabacco e il gelso (importante ----- per il frutto da baco da seta).

Un altro frutto molto coltivato era il fico, per cui era facile reperire manodopera. Altre coltivazioni furono la catalogna e la patata:

- yuly, diversa da quella di Avezzano che era la più diffusa nel Salento

- primitiva

- patata zuccherina

- trombetta detta “cocomazzo”



Altre colture erano quelle del lino della seta, usate per la tessicoltura.

Le principali industrie erano riferite all’agricoltura, ed erano piccole industrie comunemente dette opifici.

Collegati alla coltura del vino e dell’olivo erano le industrie delle botti, (molto famose quelle gallipoline). Ma anche fabbriche di distillazione di vino o vinaccio. Ci furono delle opere di bonifiche per migliorare il territorio, queste opere erano molto costose, per questo lo Stato decise di non intervenire. Le poche opere di bonifica in terra d’Otranto, si devono ai privati (Libertini).

Lecce era una città importante perché era la capitale della provincia.

Taranto, invece era una città secondaria diventata importante grazie all’arsenale ----- marittimo.

Brindisi, con l’apertura del canale di Suez e il passaggio della valigia delle Indie, aumentò la sua importanza.

Gallipoli aveva il centro dell’esportazione dell’olio.



Viticoltura ed enti vinicoli nella Terra d'Otranto



Abbiamo detto che il territorio di Otranto garantiva nell’800 la coltivazione di viti e ulivi. Nella zona di lecce, vi erano 3 zone:

- In una era difficile produrre per via del terreno argilloso e calcareo

- In un’altra si ebbe l’incremento del vino che superò sia quello dell’olio che dei cereali

- In un’altra ancora vi erano molti vini ricercati e differenziati

Mentre a Gallipoli c’erano invece: vini robusti alcolici, ed era prodotto il “vino del capo”.

Iniziarono ad esserci dei problemi quando si produssero dei parassiti: “zigena della vite”, “erniosi” che erano parassiti animali che attaccavano le foglie, in particolare c’era il malbianco che poteva essere ucciso con la solforazione, la fillossera (il parassita più importante) che comparve in Francia con un’importazione americana, dannoso tanto da far costituire a Lecce un consorzio anti-fillosserico.

Per quanto riguarda l’aumento della produzione di vino, si ebbero problemi per lo sbarco commerciale, data per la chiusura del trattato Francese, tanto da far vedere vino pregiato come vino cattivo. Un altro problema relativo all’esportazione fu la politica protezionista dello Stato, successivamente interrotta con l’apertura di un nuovo trattato con la Francia.

Il vino della Terra d’Otranto aveva problemi relativi alla sua produzione, con tecniche obsolete e molto lente. Infatti erano ancora utilizzati i palamenti (usati anche oggi) e la classica pigiatura. Questo problemi si riscontrarono anche a Parigi dove si evidenziò ancor di più la nostra lacuna, all’esposizione internazionale di Parigi nel ‘900, dove furono presentati 12 vini, e per colpa di bottiglie non adatte, etichette sbagliate, e troppo fermentate; furono ammesse solo 5 tipologie di vino al concorso.

Nel 1883, il consorzio agrario di Lecce, istituì un laboratorio di assaggio dei vini che inoltre consigliava nuove tecniche di produzione e di conservazione e un museo che aveva lo scopo di promuovere le tecniche di coltura.



Federico Libertini e la bonifica di Fricule



Le opere di bonifica di Terra d’Otranto erano ritenute necessarie per il miglioramento dell’agricoltura e della situazione sanitaria delle zone palustri, dove c’era la malaria. Solo nel 1872 lo stato prese in considerazione qualche richiesta giunta dal Salento.

Nel circondario di Lecce molte erano le zone che necessitavano lavori urgenti di bonifica (Leverano, Copertino, S.Pietro Vernotico, Torre Chianca, San Cataldo). In base alla legge Baccarini del 1882 possiamo parlare di opere di bonifica di:

Federico Libertini di Lecce, ricco e nobile proprietario terriero, fece il primo tentativo di operare delle bonifiche, interessandosi, in particolar modo, al fondo macchioso “Frigoli”.

Situazione pre- bonifica

Il fondo era privo di strade, privo di alberi, soggetto a “forti uragani” vista la sua posizione vicina al mare.

Opere di bonifica

Libertini preparò un piano che prevedeva, in ordine:

-prosciugamento;

-canalizzazione;

-eliminazione terre macchiose;

-dissodamento del terreno.

Situazione post-bonifica

- Il Libertini fece costruire una villa,

- furono aperte strade principali e secondarie fiancheggiate da muri a secco,

- le pietre erano utilizzate per creare mucchi o per costruire i cosiddetti “Truddi” (piccole costruzioni di forma tronco conica),

- miglioramento agrario, produzione di ottimo frumento, avena e granturco,

- coltivazione del cotone,

- allevamento di pecore per la produzione di lana e latticini,

- utilizzo dei migliori strumenti rurali.

Il Libertini era stato nominato Cavaliere dal Governo e riconosciuto come bonificatore dalla Provincia e dalle istituzioni. Ma negli anni 90 la sua situazione economica cambiò tanto da chiedere un sussidio allo Stato per la bonifica di altre zone, sussidio che non fu mai dato. Fu costretto dunque a vendere alcune sue proprietà e ad abbandonare anche la tenuta di Frigole al Credito Fondiario della Banca d’Italia.


di Marco D'andrea


Presentazione della Guida agli extravergini 2012 di SLOW FOOD Editore

Sabato 19 maggio 2012 alle ore 18.00


presso la Sala Conferenze ART Hotel di Lecce

Via Giorgio De Chirico, 1

(tangenziale Est/Ovest uscita 10 per Lizzanello)

Slow Food Puglia e l’Assessorato alle Risorse Agroalimentari della Regione Puglia

Vi invitano

alla presentazione della Guida agli extravergini 2012 di SLOW FOOD Editore

All’evento interverranno:

Diego SORACCO, Curatore della Guida E.v.

Marcello LONGO, Coordinatore della Guida per la Puglia

Franco MATARRESE, relatore e degustatore guida oli e.v. Slow Food.

Roberto BURDESE, Presidente Slow Food Italia

Conclude

Dario STEFANO, Assessore alle Risorse Agroalimentari della Regione Puglia;

Modererà l’incontro il Governatore Slow Food Antonello DEL VECCHIO

Marcello Longo

Coord. guida Slow Food Puglia

A Gallipoli del Salento leccese con Enrico Groves - Aprile 1887

A Gallipoli del Salento leccese con Enrico Groves - Aprile 1887



Finite queste escursioni ci rimane a portare il nostro quartiere generale a Gallipoli, che si trova in comunicazione con Taranto ed Otranto per buonissime strade carrozzabili. Prima di arrivare a Gallipoli dalla parte di Maglie osserveremo dei segni del clima mite di questa parte di Japygia nelle Palme (Phoenix dactylifera) sparse qua e là nelle campagne, e nella coltivazione degli agrumi in vari paesi, specialmente ad Alessio (ALEZIO del Salento leccese n.d.r.) , ove i robusti Portogalli danno un prodotto meraviglioso tanto per la qualità quanto per la quantità.

Attraverseremo anche estesi vigneti ove si fa la coltivazione della vite bassa che minaccia rimpiazzare il grano, essendosi trovato che, grazie al suolo calcareo ed al clima favorevole, i vini di queste parti contengono da quindici a venti per cento di alcool, che li rende atti all'esportazione. Quando tutti gli aridi poggi saranno coperti di vigne il paese guadagnerà non solo in ricchezza ma anche in amenità, almeno durante i mesi caldi dell'anno, quando l'erba si trova bruciata e il solo segno di vita vegetale consiste in qualche Composita e Labiata imbiancate dalla polvere.

Anche in diversi punti delle arene marittime si è trovato che le viti riescono assai bene, a causa dell'elemento calcareo ivi esistente, di modo che si spera in un avvenire florido per questo lontano punto d' Italia. La campagna verso la costa offre all'esploratore una grande varietà di terreni ove si trovano delle aride roccie e verdeggianti paludi, dei dirupi marittimi ed arene estesissime, di modo che la flora presenta una varietà incantevole. Il paese di Gallipoli è costruito sopra un' isola rocciosa, ed è in comunicazione colla penisola per mezzo di un ponte di pietra. Le case sono di quella pietra calcarea adoperata dappertutto nella provincia di Lecce, e che dà un'aria cosi pulita e linda a molti paesi.

Alberghi non mancano ; quello all' insegna del « Gallo » è molto adattato al botanico a causa delle grandi terrazze convenienti per l'asciugamento della carta. Fra le industrie del paese quelle che interessano il botanico sono la fabbricazione dei gabbioni da pesca coll’Juncus acutus e di una corda molto forte e durevole con lo Shaenus nigricans . Poi è mestieri osservare che le scope del paese sono fatte coll’Anthyllis Hermanniae, il che, pensando alla rarità della pianta, sembrerebbe un sacrilegio agli occhi di un erborizzatore. Parlando delle nostre escursioni, quella più ricca e variata è senza dubbio la parte elevata e rocciosa compresa fra San Bruno, che dista circa un miglio dalla costa, e la Montagna Spaccata, dirupo imponente bagnato dal mare.

Principiando con colline basse e rocciose, questa serra cresce sempre in altezza in direzione verso il mare e la Torre dell'alto lido, ove si presentano vari dirupi in guisa di bastioni, separati qua e là da vallate scoscese che danno accesso alle sovrastanti Murgie o altipiani. Basterà l’enumerazione di alcune specie per dare una idea della ricchezza di questa passeggiata, che ad ogni stagione riesce assai interessante : Alyssum leucadeum, Carun multiflorum, Scrofularia lucida, Notholaena velica, Campanula Tenorei, Micromeria nervosa, Micromeria canescens, Micromeria microphilla, Satureja cuneifolia, Colchicum Bivone e moltissime altre.

Un' altra gita piacevole è di seguitare la costa verso l'oriente fino alle paludi, ora in processo di coltivazione. Qui troveremo Linaria Prestandreae , Ipomaea sagittata, Carex hispida var., Carex serrulata, Plantago albicans var. spicis apice albo-lanatis proliferis (Ten. siyl), Juncus multiflorus ecc.; mentre dalla parte dell' occidente incontreremo nelle fessure delle rupi la rigida Centaurea deusta var. tenacissima, l’ Ayithyllis Hermanniae, L’Aeluropus litoralis, l'Erica verticillata e molte altre buone specie già enumerate nelle gite precedenti.

Prima di lasciare Gallipoli non bisogna trascurare l' isola di S. Andrea, uno scoglio percorso dalle onde nell'inverno, e sopra il quale sorge un bellissimo fanale a luce intermittente che serve come sentinella del porto. Come ò facile immaginare quest'isola è un vero giardino di Chenopodiaceae, e nell'autunno è rallelegrata dalla graziosa fioritura di numerose Statici, sempre cosi accette nelle escursioni sul littorale alla fine dell'estate. Il nostro soggiorno nel simpatico paese di Gallipoli, ove si ha biancheria e camera allo stabilimento dei Bagni per venti centesimi !, essendo terminato, e volendo raggiungere Lecce in carrozza, si percorre una lunga e monotona strada attraverso interminabili pianure soventi volte senza traccie di alberi e quasi prive di abitazioni; ma grazie all'ultimazione della ferrovia ai futuri esploratori di questa parte d'Italia saranno risparmiate molte fatiche e non poca polvere.

mercoledì 16 maggio 2012

A Taranto con Enrico Groves - Aprile 1887

A Taranto con Enrico Groves - Aprile 1887


L' escursione al Capo di Leuca può farsi da Otranto passando per Maglie, Alessano e Santa Maria di Leuca ; e quelli che vogliono intraprendere questa gita alquanto lunga e faticosa saranno ricompensati nel vedere un magnifico panorama ed una flora diversa da quella fin allora incontrata nelle vicinanze di Otranto, e delle specie come Euphorbia dendroides, Convolvulus pentapetaloides e Convolvulus lineatus che imprimono un tipo affatto caratteristico del mezzogiorno d' Europa.

Finita la visita dei dintorni di Otranto, e volendo stabilirsi a Taranto, l' esploratore ha la scelta di due strade. La prima per via ferrata fino a Bari, per poi prendere la linea di Taranto ; e la seconda per diligenza dalla città di Lecce, che dista circa un'ora di ferrovia da Otranto. Tutte e due queste strade sono noiose, la prima per la soverchia distanza da percorrere in ferrovia, e l'altra per le dodici ore di strada polverosa da passare attraverso una contrada per lo più poco ridente. La gita fra Bari e Taranto è abbastanza interessante, perché si traversano le colline di Gioia e Castellaneta, che sono quelle che fanno riparo dai venti nordici al distretto che si avrà poi da esplorare. Poi si fa conoscenza delle serpeggianti gracine o spaccature nella terra che formano la meraviglia di questa regione, e molte sono le rare specie che abitano i pascoli all'intorno o si annicchiano nelle fessure dei dirupi che formano le pareti di questi fossi giganteschi. Fra le specie proprie alle gravine la più bella, senza dubbio, è la Campanula Tenorei. Con una robustezza superiore a tutte lo nostre Campanule, i suoi rami legnosi spuntano dalla roccia in grande profusione, formando dogli splendidi mazzi di fiori azzuri'i che sono proprio incantevoli, specialmente perchè sbocciano nell' autunno quando Flora ha pochi regali da distribuire. Seguendo il viaggio si arriva nei dintorni di Taranto, ove la ferrovia dista poco dal mare, ed il botanico si trova in balia di nuove emozioni, e guardando dalle finestre della sua prigione ambulante cerca di ravvisare qualche vecchia conoscenza fra le molte specie che sfilano davanti ai suoi occhi divoratori.

Per percorrere la seconda delle due strade indicate, cioè da Lecce a Taranto, ci vuole un coraggio piuttosto robusto, trattandosi di passare dodici ore in carrozza col pericolo di rimanere asfissiati da un momento all' altro per il sole e la polvere; ma con un buon poco di pazienza e molto zelo la cosa si fa. Per questa strada, come in diversi punti della nostra regione, si osserva qua e là la coltivazione del cotone, e nei campi dopo la messe si vedono numerose mandrie di pecore per lo più di colore nero o scuro, il solo bianco addosso essendo la polvere, che non manca nemmeno nei campi in questa stagione. Poi in certi punti la macchia abbonda, e estesissime masserie, come fortilizi, fissano lo sguardo che altrimenti girerebbe senza riposo intorno alle vaste pianure da roccia ad arbusto. Tali luoghi sembrano essere la patria della Scilla marìtima, che forma sovente delle lastre di bulbi, i quali, a causa della pressione fra di loro, prendono delle forme poligone di modo che sembrano un grossolano pavimento romano. Poi le spighe giovani di questa abbondante specie fanno rammentare una vasta coltivazione di asparagi, al quale legume hanno molta somiglianza, specialmente perchè lo foglie mancano in questa stagione. In un'altra parte della strada si osservano dei colli piuttosto elevati, che sono gli speroni bassi dell'Appennino; e si prova un sentimento di rammarico dovendo lasciarli inesplorati. Lungo le siepi e nella macchia in molti posti Acanthus spinosissimus fa mostra di sé, e vicino a Taranto il Cardopatium corymbosum è molto frequente. Finalmente si arriva a Taranto e non si pensa ad altro che al riposo, in verità meritato. All'indomani l'esploratore farà bene a girare intorno alle spiaggie occidentali e mettersi in ordine per le escursioni da farsi da questa città ; che sarebbero, prima alla Salina grande, detta anche di San Bruno ; poi a Leucaspide ed a San Pietro in Bevagna. La prima volta che mi trovai a Taranto nessuno mi poteva dire ove si trovasse la Salina grande, ma parlando col cocchiere che mi conduceva a Lecce egli mi disse che conosceva bene quel luogo, e pochi giorni dopo mi trovavo di nuovo sulla strada interminabile di Lecce-Taranto, avendo preso l'impegno dì procurare del seme della rara Halopeplis amplexicaulis che mancava ai nostri musei e che si trova abbondante in quel solo punto dell'Italia continentale. Nella Salina grande, che dista circa tre miglia dalla città verso l'oriente, oltre alla rara specie qui nominata ci sono diverse piante da cogliere, come sarebbero Arthrocnemum macrostachyum e la forma rigida di Slatìce vìrgata ; mentre intorno ai campi e negl'incolti l’Euphorbia aleppica fa buona mostra di sé, ed il Cynanchum acutum, come dappertutto nei pressi di Taranto, si trova abbondantissimo nelle macchie paludose.

La escursione a Leucaspide si fa in carrozza o da Taranto o da Massafra ; l' ultimo paese è situato pittorescamente sulle due parti di una gravina, con alcune abitazioni tagliate nella roccia viva ; e nei dintorni della masseria dell' egregio senatore Lacaita fra altre piante notevoli si possono trovare, secondo la stagione, l’Helìanthemum leptophyllum, la Lagoccia Cuminoides e la bella Campanula Tenorei nonché il Crocus Thomasii. Quest' ultima specie fu ritrovata nella seconda settimana di novembre 1879 dal senatore Lacaita, mentre passeggiava intorno alla gravina di Leucaspide. Pare che il nome di gravina sia stato confuso da Tenore col paese di Gravina nelle Murgie, e perciò il Crocus Thomasii è stato cercato inutilmente nelle vicinanze di quella città. Di queste gravine c' è una serie alla distanza da uno a quattro miglia da La Terza fino a Taranto, e quella sopraccennata ha una lunghezza di circa dieci miglia, e nel tempo delle pioggie è fornita di un piccolo torrente. Essa, come le altre gravine, cambia di nome secondo la masseria che traversa, cosicché quella di Leucaspide è conosciuta altrove dai nomi di Gennarini, di Accetta ecc. In questa escursione può visitare il Pozzo del Gendarme e l' imboccatura del Taro. Rimane una terza gita che è più formidabile, trattandosi di prendere la diligenza a Manduria, poi di là recarsi a San Pietro in Bevagna sulla spiaggia del golfo. Qui il Canale di S. Nicola, il fiume Chitro, le macchie ed un ricco littorale danno compenso delle fatiche sofferte.

Estratto dal Nuovo Giornale Botanico Italiano, Voi. XIX.

N. 2, Aprile 1887

FLORA DELLA COSTA MERIDIONALE DELLA TERRA D' 0TRANTO, PER ENRICO GROVES.

Le Piante di Otranto del Salento leccese descritte da Enrico Groves - Aprile 1887

Le Piante di Otranto del Salento leccese descritte da Enrico Groves - Aprile 1887




Seguitando l'idea sopraccennata principierò colla descrizione della contrada di Otranto.

Nei dintorni di questa città antica forse la parte più interessante è quella all'est del paese, perché vi si trovano i due laghi degli Alimini; il primo che è alimentato da sorgenti d' acqua dolce, supplisce in gran parte alla mancanza di fiumi perenni in questa regione, cosicché vi si trovano delle specie di piante e di animali che ordinariamente sono proprii soltanto dei fiumi grandi, come per esempio la Nymphwua alba che qui fiorisce abbondantemente, ed il Lutro che si nutrisce dei numerosi pesci dei due laghi. Il secondo lago, che riceve le acque del primo, essendo più vicino al mare rimane alquanto salato e per conseguenza possiede una flora diversa.

In questi ultimi anni una buona parte del terreno intorno ai laghi è stata ridotta a coltivazione, e macchie di Quercus pseudococcifera e paludi di Eryngium pusillum sono sparite davanti alla laboriosa energia dei bufali che sono qui adoperati per il lavoro dei campi ; però nelle sabbie marittime e nei posti paludosi dei laghi, il botanico può ben contentarsi di quello che rimane.

Dirigendo i nostri passi verso il settentrione di Otranto troveremo dei vasti ed ondeggianti terreni, variati qua e là di rocce tufose e cospersi di basse macchie. Qui crescono in gran copia il Thymus capitatus, il Rosmarinus officinalis e quella terribile pianta-istrice il Cytisus infestus, nonché la Phlomis ferruginea. Quest'ultima, benché sia una pianta di fusto tenero, prende uno sviluppo cosi robusto da essere tagliata per ardere parimente alle due prime specie, di modo che la buona gente di Otranto è fortunata di possedere dei combustibili cosi aromatici e cosi diversi da quelli adoperati in altre parti d'Italia.
Qua anche 1' Erodium Gussonel cresce in grande abbondanza, mantenendo la fioritura durante diversi mesi, le piante danneggiate dalle bestie ributtando forti getti fino all'estate inoltrata. A questa escursione si può associare quella delle cosi dette Paludi d' Otranto, che per la più parte sono coltivate. essendo bene irrigate dal fiumicello Idro che ha dato il nome al paese, anticamente chiamato Hydruntum.
Ora ci rimane la parte verso 1' occidente del paese, ove abbiamo molto da occuparci, sia nel terreno magro e sassoso, per lo più coltivato, sia sulla spiaggia e nei dirupi marittimi. Recentemente questi terreni hanno cambiato proprietari, ed una coltivazione migliore ha fatto sparire certe piante care al botanico.

Il famoso Ranunculus asiaticus, pubblicato per la prima volta nel 1877, è fortemente minacciato dalla recente coltivazione,ma fortunatamente la pianta possiede forti tubercoli che serviranno probabilmente a mantenere la specie nel nuovo terreno.
Sulla spiaggia, poco distante dal paese, e soventi volte annaffiata dalle onde di mare, si trova la simpatica Statice cancellata var. glabrata Guss., nonché delle forme di S. virgata; e camminando lungo i dirupi troveremo una bella varietà dì Plantago subbulata colla base delle foglie fornita di una lana candidissima, mentre sotto la Torre dell' Orto il robusto Hippomarathrum Bocconei forma una vera macchia. La parola « Orto » qui significa oriente, per distinguerla da un' altra Torre dell' « occaso » occidente.

Estratto dal Nuovo Giornale Botanico Italiano, Voi. XIX.

N. 2, Aprile 1887

FLORA DELLA COSTA MERIDIONALE DELLA TERRA D' 0TRANTO, PER ENRICO GROVES.

A mo' di introduzione


A mo' di introduzione

Livio Ruggiero

Nel primo di questi incontri si è detto come forse non sia possibile parlare di identità salentina e che, qualora si cercasse di definire un concetto di questo tipo, non lo si potrebbe ancorare solo al passato storico del territorio e della sua popolazione, ma lo si dovrebbe costruire dinamicamente, legandolo all'evoluzione in corso e alle prospettive future, verso le quali essi sembrano indirizzarsi nel quadro complesso della globalizzazione in atto.

In ogni caso, però, si è detto che i tentativi di definire in qualche modo questa identità non possono prescindere da una conoscenza di base del territorio in questione in ordine alle sue caratteristiche geomorfologiche, climatiche, biologiche e antropologiche, tenendo conto delle profonde trasformazioni da esse subite nel corso del tempo.

A questo proposito sembra ovvio notare come l'assenza di significative elevazioni del terreno, che sulle Serre nella zona di Alessano raggiungono la quota massima di circa 200 metri, e di cospicui corpi d'acqua, se si prescinde dai Laghi Alimini, abbia consentito un'antropizzazione diffusa del territorio, ostacolata soltanto dalla presenza di paludi costiere almeno fino al periodo delle grandi opere di bonifica, che ha relegato la cosiddetta naturalità essenzialmente sulle falesie rocciose costiere.

D'altro canto è proprio dalle parole di due naturalisti famosi, Oronzo Gabriele Costa e Giovan Battista Brocchi, che si può considerare come alla penisola salentina possano essere riconosciute delle peculiarità, per così dire ambientali, che ben potrebbero contribuire alla definizione di una identità salentina.

Il Costa, il grande naturalista nato ad Alessano, così conclude le sue Osservazioni meteorologiche fatte a Lecce, pubblicate nel 1834 negli "Annali Civili del Regno delle due Sicilie":

"Queste sono le principali osservazioni, che per il non breve spazio di 13 anni facemmo nella meteorologia di Terra d'Otranto. Sicché, per servirmi delle parole di profondo scrittore, potrebbe dirsi essere la natura in questa provincia in opposizione con sé stessa, imperrocchè riunisce tutte le stagioni nel medesimo istante e nel medesimo luogo."

Il Brocchi, una delle figure più eminenti della nascente Geologia italiana, così si esprime nelle sue Osservazioni geologiche fatte nella Terra d'Otranto del 1818: . . . nella Terra d'Otranto, gioverebbe bensì che per altri rami fosse quel suolo accuratamente esplorato dai geologi,... Nè i geologi solamente, ma i botanici ancora troverebbero colà ampio compenso alle loro fatiche, se fatica può essere l'aggirarsi per quelle popolate e deliziose pianure. Io non conosco di fatto verun altro luogo ove più comodamente si possano intraprendere siffatte peregrinazioni. Nè io so tampoco quale altra situazione in Italia possa meglio corrispondere a quanto i poeti ci narrano della felicissima Arcadia, che certo non mancano ivi nè il dolce clima e salubre, nè gli ubertosi pascoli, nè le campagne vestite di rosmarino, di timo e di mille altre piante odorose ...". È sulla base di queste considerazioni che si è deciso di dedicare uno degli incontri ad alcuni aspetti floristico-vegetazionali riguardanti non solo l'ambiente naturale ma anche quelli agrario e urbano. La relazione del dottor Francesco Minonne tratterà alcuni aspetti relativi alle specie arboree da frutto, con particolare riguardo alla storia dei loro nomi e delle loro varietà. Negli interventi programmati il professor Silvano Marchiori illustrerà gli aspetti particolari della flora salentina legati alle specie endemiche e subendemiche, la professoressa Gabriella Sava metterà in risalto l'importanza della figura di Martino Marinosci, cui si deve la prima e ancora unica opera generale sulla flora salentina, e, infine, la dottoressa Mirella Signore traccerà un profilo storico dell'Olivo, come albero caratterizzante in ogni epoca il paesaggio anche umano di questa terra. Si tratta di un'occasione preziosa per aprire una finestra sugli aspetti per così dire, anche se impropriamente, "scientifici" del patrimonio culturale e ambientale salentino, che troppo spesso sono stati ignorati in passato nelle descrizioni di un territorio che potrebbe essere un vero laboratorio in cui ricostruire quell'unitarietà della Cultura di cui tanto si sente la necessità.

lunedì 14 maggio 2012

FLORA DELLA COSTA MERIDIONALE DELLA TERRA D' 0TRANTO, PER ENRICO GROVES

Estratto dal Nuovo Giornale Botanico Italiano, Voi. XIX.


N. 2, Aprile 1887

FLORA DELLA COSTA MERIDIONALE DELLA TERRA D' 0TRANTO, PER ENRICO GROVES.

nella foto ENRICO GROVES

Alcuni anni fa ho pubblicato nel Nuovo Giornale Botanico Italiano un saggio della flora di questa regione, la quale essendo fuori della strada battuta è rimasta poco esplorata dai botanici moderni. Il giudizio che avevo formato allora intorno al clima di questa terra è stato pienamente confermato dall' esperienza degli anni successivi, di modo che non posso far di meglio che ripetere le parole già scritte su questo argomento, nel caso che alcuni dei miei lettori non avessero veduto il resoconto del 1877.

Botanicamente l' antica Japygia può essere divisa in due regioni, una che si può chiamare quella di Otranto, l'altra quella di Taranto, l' una e 1’ altra avendo un clima tutto suo proprio, col Capo di Leuca per linea di separazione. La parte orientale di questo distretto, ossia quella di Otranto, situata nello stretto di quel nome, è dominata per la più gran parte dell'anno da venti freschi, che prenderanno non poco della loro forza dalla configurazione della costa elevata e montuosa dell'Albania nell'altro lido dello stretto. Per conseguenza lo sviluppo primaverile della vegetazione presso Otranto non è più avanzato di quello dell'Italia Media, e gli abitanti non hanno mai a soffrire i forti calori che si fanno sentire in molti paesi settentrionali. In contrasto a questa temperatura moderata la regione verso Gallipoli e Taranto, essendo lontana dai venti nordici del Canale d' Otranto, e forse alquanto protetta dalle colline verso Gioia e Castellaneta, dà saggio di un clima atto allo sviluppo di forme meridionali ; e di fatti, al Capo di Leuca, e specialmente a Gallipoli, abbiamo una flora che ricorda la riviera di Genova o la costa del Gargano ; per conseguenza lo sviluppo della vegetazione è molto più precoce che nella parte orientale della provincia. Grazie a ripetute ricerche lungo il litorale, specialmente verso Gallipoli e San Pietro in Bevagna, nonché a Leucaspide presso Taranto, ove il valente botanico sig. C. C. Lacaita ha esplorato con molta intelligenza i terreni dell' egregio suo padre il senatore Lacaita, mi trovo in grado di presentare ai miei amici un resoconto più interessante di quello che non fu il mio primo tentativo, benché io senta pur troppo quanto sia rimasto da fare per rendere giustizia a questa ricca e simpatica regione. Essendo stato colpito dalla somiglianza di certi punti del littorale con quelli verso Siracusa in Sicilia, per mezzo del chiarissimo generale Annibale Ferrerò sono stato favorito dall' egregio coram. Giordani di un breve cenno sulla formazione geologica della Terra d' Otranto. « I terreni geologici di questa regione appartengono principalmente a formazioni delle epoche cretacee e dei tre piani del terziario (eocene, miocene e pliocene); altri poi alle panchine quaternarie. La formazione cretacea, che costituisce per lo più il nucleo delle colline più elevate, è di un calcare solido contenente fossili ippuritici ; le altre formazioni consistono essenzialmente di conglomerati, puddinghe, calcari granulari, argille e sabbie. Simili terreni hanno certamente molta analogia con la parte meridionale della Sicilia verso Siracusa, Modica e Terranova, però nella Terra di Otranto non vi sono punto roccie vulcaniche, come sono i basalti più meno antichi che si trovano in diverse parti della regione fra Siracusa e Catania. » Prima di occuparmi della lista delle piante che crescono nella nostra regione, sarebbe utile, mi pare, di indicare a chi possa visitare le singole località, i luoghi di osservazione ed il miglior modo di arrivare sul campo, onde dare al lettore Un' idea gènerale dei diversi paesi per il caso che non potesse esplorarli personalmente. I tre punti principali per uno che voglia stabilirsi per qualche giorno allo scopo di studiare la flora sono Otranto, Taranto e Gallipoli, tutti e tre trovandosi sulla rete delle strade ferrate meridionali.

domenica 13 maggio 2012

Nel corso dei secoli nel Salento leccese si è assistito a una trasformazione del paesaggio rurale.

Nel corso dei secoli nel Salento leccese si è assistito a una trasformazione del paesaggio rurale.


Ad un cumulo di pietre e di sassi, a malsane paludi e a distese macchiose è andato man mano a sostituirsi quell’originale disegno dei campi formato dall’intricato intrecciarsi dei muretti a secco, dalle argentate prospettive di ulivi millenari e dagli infiniti, svariati e spesso maestosi ricoveri temporanei che, con sorprendente perizia tecnica, puntualizzano e segnano le proprietà.

Pagghiari, trulli, furni, Furnieddhi,  caseddhe, liame, turri, chipuri, calavaci sono l’espressione multiforme dell’edilizia rustica e gratuita del territorio salentino.   Di forma circolare o quadrata, talora a piramide a gradoni, essi erano destinate al ricovero temporaneo di persone e cose, ed erano accompagnate da un pozzo per attingere l’acqua dal sottosuolo  o da vasche per raccogliere l’acqua piovana; in alcuni casi anche da  torri colombaie disperse nelle campagne, o da torri di avvistamento che svettavano isolate dai punti più in vista delle coste. L’architettura rurale a secco diventa così la narrazione delle tappe  che hanno segnato l’evoluzione storica di questo estremo lembo di Italia, dove l’uomo da sempre ha interagito e dialogato con la pietra.

Lu Zangune del Salento leccese (Sonchus Oleraceus)

Lu Zangune del Salento leccese (Sonchus Oleraceus)




Il Crespigno “Lu Zangune” è una pianta della famiglia delle Composite.

Secondo lo storico e naturalista latino Plinio il Vecchio, un piatto del corroborante Sonchus Oleraceus nutrì il leggendario eroe greco Teseo prima che egli affrontasse il Minotauro, la creatura, in parte uomo e in parte toro, che viveva nel labirinto di Creta.

Per secoli, le foglie di questa pianta sono state bollite come gli spinaci oppure consumate crude nell’insalata invernale.

Tutte le specie del genere Sonchus sono originarie dell’Europa Mediterranea e dell’Africa, ma l’uomo le ha introdotte involontariamente anche in America e in Australia. Nel passato, si riteneva che le foglie di questa pianta fossero in grado di rianimare e restituire le forze a uomini e animali in preda all’arsura.

Nel caso della lepre, alla quale – chissà perché? – si attribuiva un carattere malinconico, la Sonchus Oleraceus era efficace anche per combattere “tristezza”.

Il botanico inglese del secolo XVII William Coles sosteneva che le scrofe, a motivo di “un certo loro istinto naturale”, sapessero che il lattice presente nel fusto di questa pianta incrementava la loro produzione di latte.

Descrizione


Pianta erbacea annuale alta circa 50 cm (Fam. Asteraceae). Le foglie sono di colore verde scuro, con margine dentato e irregolare (da cui il nome “crespa”) e nervatura più chiara, amplessicauli e disposte lungo un fusto ramificato e cavo, contenete un latice bianco.

I capolini sono piccoli e gialli, simili a quelli del cardo.

Raccolta o coltivazione

Tipica pianta alimurgica esclusivamente raccolta allo stato spontaneo, è facile da rinvenire nelle aree ruderali e incolte tanto della pianura che della collina, al punto da comportarsi da infestante, resa difficile da eliminare a causa della profonda radice a fittone.

Proprio l’ampia disponibilità e la facilità con cui la si incontra nelle zone facilmente frequentate dall’uomo (i dintorni delle fattorie, dei campi coltivati e dei pascoli, i margini dei sentieri) sono tratti comuni a quasi tutte le specie spontanee commestibili.

Usi

Oltre che cosmopolita in senso botanicoecologico, lo è anche in senso culinario dato che il suo uso in gastronomia include tutti i continenti. Alcune varietà e specie affini possono essere particolarmente spinose e non trovano quindi impiego alimentare, per il quale si privilegiano le foglioline giovani in quanto meno amare e meno coriacee di quelle adulte. È considerato un eccellente succedaneo della cicoria, sia fresco sia cotto. Le foglie vengono utilizzate crude in insalate, tipicamente durante il periodo invernale quando le piante da insalata a foglia coltivate sono ancora quiescenti o non germogliate. Più frequentemente trovano uso per preparare ripieni di crescioni, frittate e paste, oppure all’interno di minestre/misticanze cotte tradizionali assieme a numerose altre specie spontanee. La cottura è importante dal punto di vista sensoriale, in quanto aumenta la palatabilità riducendo il gusto amaro e migliorando la consistenza.

Oltre all’uso alimentare, le farmacopee popolari riportano anche usi fitoterapici nella riduzione delle infiammazioni intestinali o dell’iperacidità gastrica. In passato la radice veniva torrefatta per essere impiegata come surrogato del caffè.

Componenti principali

Salvo rare eccezioni (i fichi, il genere Lactuca, la papaya), le piante che contengono latice non sono commestibili a causa della presenza di alcaloidi o di sostanze irritanti. Anche nel caso del crespigno (Zangune) la presenza di latice non va a detrimento della sua edibilità, resa ostica solo dall’accumulo nelle foglie adulte di sesquiterpeni lattonici estremamente amari e simili a quelli prodotti dalla cicoria.

Etimologia dei nomi italiani:


sonco: dal latino sonchu(m), a sua volta dal greco soncos o sonchos.



cicerbita: secondo alcuni dal latino cicer=cece, con riferimento alla forma dei suoi piccoli semi; secondo altri dal latino Cicharba, nome di una pianta, ricorrente isolato nel capitolo IV° del De medicamentis di Marcello Empirico (IV°-V° secolo d. C.), senza altra indicazione che consenta l’identificazione certa con la nostra.



Etimologia del nome scientifico: Sonchus dal latino sonchu(m), a sua volta dal greco soncos o sonchos; oleràceus significa erboso.



Etimologia del nome della famiglia: Compositae è il participio passato femminile plurale di compònere=comporre, formato da cum=insieme e pònere=porre; Asteraceae è forma aggettivale modellata sul classico aster=stella, con riferimento ai fiori a capolino.



Etimologia del nome dialettale: la stessa dell’italiano sonco, con aggiunta di un suffisso accrescitivo.

Testimonianze di due autori classici, il primo Plinio (latino), il secondo Discoride (greco)

Plinio (I° secolo d. C.): “Viene mangiato anche il sonco – sicché presso Callimaco Ecale lo mette sulla mensa per Teseo – , l’uno e l’altro, il bianco e il nero. Sarebbero entrambi simili alla lattuga se non fossero spinosi, col gambo lungo un braccio, pieno di angoli, all’interno vuoto, ma che emette se spezzato copioso latte. Il bianco, per il quale la bianchezza proviene dal latte, è utile a chi soffre di ortopnea messo come condimento nei cibi, al modo delle lattughe. Erasistrato afferma che con esso vengono eliminati i calcoli attraverso l’orina e che una volta mangiato elimina l’alito cattivo. Il succo nella misura di tre bicchieri riscaldato nel vino bianco e nell’olio facilita i parti così che subito dopo aver partorito la donna può camminare. Viene somministrato pure da bere. Lo stesso gambo cotto facilita nelle nutrici la produzione di latte e conferisce ai neonati un colorito migliore, è utilissimo alle donne che si sentono raddensare il latte. Il succo viene istillato nelle orecchie, caldo viene bevuto contro la stranguria nella misura di un bicchiere e in caso di ulcera allo stomaco insieme col seme del cocomero e con pinoli. Viene applicato pure negli ammassi [di grasso?] del sedere [cellulite?]. Viene bevuto contro il morso di serpenti e scorpioni, la radice viene applicata ad empiastro. La stessa cotta in olio e scorza di melagrana è presidio contro le malattie degli orecchi. Tutto questo vale per il sonco bianco. Cleemporo sconsiglia di mangiare il nero poiché fa male, non così per il bianco. Agatocle sostiene che il suo succo è efficace anche contro il sangue del toro [contro le ferite provocate dal toro?], tuttavia riconosce che il nero ha potere rinfrescante e che perciò va applicato con la polenta. Zenone consiglia la radice di quello bianco nella stranguria)”. “Riempie le mammelle di latte Il crescione col vin cotto, il brodo di sonco cotto nel farro” .

Dioscoride (I° secolo d. C.): De materia medica, II, 158 : “Il sonco: due sono le sue specie, una più selvatica e alquanto spinosa, l’altra più tenera e commestibile. Il gambo è angoloso, un po’ vuoto e subito dopo rosseggiante: le foglie sono tutte attorno ad intervalli regolari, frastagliate. Hanno proprietà rinfrescanti e moderatamente astringenti, per cui giovano applicate alle gastriti e alle infiammazioni. Il succo bevuto giova al bruciore di stomaco e stimola la produzione di latte. Posto poi in una pelle di pecora giova alle infiammazioni del sedere e della matrice. Tanto l’erba quanto la radice applicate in cataplasmo a turno sono un rimedio contro il morso degli scorpioni. L’altro sonco, pure lui tenero, diventa quasi un albero, con foglie larghe che abbracciano il gambo che non ha rami: pure questo ha gli stessi effetti”.

Cipuddhàzzu del Salento leccese ovvero Charybdis pancration (Stein) Speta = Urginea Maritima (L.) Baker - Hyacinthaceae - Scilla marina

Cipuddhàzzu del Salento leccese ovvero Charybdis pancration (Stein) Speta = Urginea Maritima (L.) Baker - Hyacinthaceae - Scilla marina



L'unica specie del genere Urginea coltivata con una certa frequenza soprattutto nelle vicinanze delle coste occidentali della penisola italiana, sulle isole del Mediterraneo ed in Puglia è la cosiddetta cipolla del mare, Urginea martima. Secondo la classificazione botanica più recente questo nome è un sinonimo del corretto nome Drimia maritima (L.) Stearn, (1978). La pianta è nota già dall'antichità con il nome Scilla. Quest'ultimo nome viene tuttora frequentemente usato, soprattutto in erboristeria. Infatti, la pianta era conosciuta come droga per le sue proprietà cardiotoniche e diuretiche già dagli egizi, greci e arabi ed è stata descritta da Dioscoride, Plinio e Galeno. L'attività è dovuta a glicosidi cardioattivi (vedi) con notevole tossicità per l'uomo. E' interessante notare che in Sardegna la pianta è considerata magica e per questo viene spesso coltivata negli orti come protezione dal malocchio. Le si attribuisce anche attività ratticida. Nel 2002 è stato pubblicato uno studio approfondito sugli effetti insetticidi degli estratti di Urginea maritima, il quale conferma la validità della prassi di usare la pianta come agente protettivo di alimenti e suggerisce l'opportunità di ulteriori indagini in questo campo.

L'Urginea maritima è caratterizzata da un pesante bulbo (fino 4 kg) di grande dimensione, frequentemente del diametro di 12-15 cm ed oltre. Le foglie verde scuro spuntano in tardo autunno o in primavera ed appassiscono prima della fioritura che avviene in tarda estate. Esse sono di forma lanceolata, larghe ca. 10 cm e lunghe fino a 50 cm. Lo stelo fiorale è verde biancastro e raggiunge normalmente l'altezza di più di 100 cm, in casi eccezionali fino a 2 m. L'infiorescenza è costituita da un grande numero di fiori (anche oltre 100) a forma stellare del diametro di poco più di 1 cm, con tepali bianchi con una costola mediana marroncina e con filamenti giallo-verdastri. La punta dell'infiorescenza a racemo denso (pannocchia) tende frequentemente ad incurvarsi a causa del peso dei fiori. La fioritura inizia dal basso, si protrae a lungo ed è molto decorativa. I fiori sono inodori.

La coltivazione della Urginea (Drimia) maritima non presenta problemi in zone temperate. Il bulbo deve essere piantato poco profondo, con la sua punta coperta solo da 2-3 cm di suolo in un posto esposto al pieno sole. Il substrato deve essere molto permeabile, preferibilmente sabbioso. Durante il periodo del ciclo vegetativo in cui sono presenti le foglie, può risultare vantaggioso somministrare due o tre volte un debole concime liquido per piante fiorite. Durante la piena estate i bulbi non dovrebbero essere mai annaffiati. L'Urginea maritima è ben adatta per la coltivazione in piena terra.

I bulbi venduti in primavera sono gli stessi che vengono già offerti nel periodo più adatto - in autunno. Essi sono stati conservati in maniera da contenere più possibile il desiderio della pianta di emettere il fogliame ed hanno dunque lo svantaggio, rispetto a quelli in vendita in autunno e piantati in quel periodo, di non aver potuto radicare prima del freddo invernale. Si deve però notare che in zone con freddi più intensi il fogliame sviluppato in autunno può essere danneggiato. Pertanto in tali zone può risultare più conveniente acquistare e piantare i bulbi in primavera. In tardo autunno sarà però comunque necessario proteggere il fogliame che spunterà in ottobre-novembre. Nelle zone fredde è pertanto consigliabile coltivare l'Urginea maritima in grandi vasi che potranno essere d'inverno collocati in zone dove non si verifica il gelo.

In Italia persone senza scrupoli offrono spesso ai giardinieri poco esperti bulbi di Urginea maritima raccolti in natura. Li chiamano spesso "amarillis" e cercano di spuntare prezzi esagerati, oppure usano il nome tradizionale "Scilla maritima", ma non danno informazioni sulla provenienza da zone costiere piuttosto calde. In zone fredde tali piante spesso non riescono a sopravvivere e l'unico risultato è il danno provocato alla natura. Infatti, questi bulbi sono stati prelevati dalle zone costiere sarde, liguri, campane o calabresi, recando un danno al patrimonio naturale di queste zone. Basterebbe respingere i mercanti clandestini e rivenditori irresponsabili dicendo loro che i bulbi non sono altro che Cipolle di mare, dette volgarmente anche Squille, Carpentarie, Scille rosse o Scille marittime, dunque piante di bassissimo valore commerciale.



Attenzione: Le applicazioni farmaceutiche sono indicate a solo scopo informativo. Devono essere consigliate e prescritte dal medico.



Plinio I° secolo d. C.

“Dalle piante che nascono nei giardini si ricava il vino dalla radice dell’asparago, dalla cunila, dall’origano, dal seme del sedano, dall’abrotono, dalla menta selvatica, dalla ruta, dalla nepitella, dal serpillo, dal marrobbio. Mettono due fascetti in un orcio pieno di mosto, un sestario di mosto cotto e mezza coppa di acqua marina. Col mosto cotto si fa aggiungendone due denari di mosto, allo stesso modo con la radice della scilla”;

“Si dice che se il fico viene piantato nella scilla -questa è un bulbo- rapidissimamente fruttifica e non è soggetto all’inverminamento, difetto da cui sono immuni anche gli altri alberi da frutto piantati allo stesso modo”;

“In verità nobilissima è la scilla, sebbene nata per i medicamenti e per rinforzare l’aceto. Non c’è bulbo più grande e che abbia maggior forza. Due sono le varietà della medicinale, il maschio dalle foglie bianche, la femmina dalle foglie nere. Ma la terza varietà è un cibo gradevole, si chiama Epimedio, dalle foglie piccole e meno aspro. Hanno tutte molto seme; tuttavia crescono abbastanza celermente con i bulbilli nati attorno e, perché crescano, le foglie, che hanno ampie, si sotterrano; così i bulbilli ne assumono le sostanze nutritive. Nascono spontaneamente numerosissime nelle isole Baleari e ad Ibiza e per tutta la Spagna. Il filosofo Pitagora scrisse un libro su di loro, compendiandone le proprietà medicamentose di cui parlerò nel prossimo libro”;

“ Tra le scille con proprietà medicinali la bianca è il maschio, la nera la femmina; la più bianca è la migliore. Tolta a questa la scorza secca, fatta a fette la parte verde restante, si pongono queste su un panno a piccola distanza l’una dall’altra. Poi i pezzi seccati vengono sospesi in un orcio pieno di aceto quanto più forte possibile in modo che non tocchino nessuna parte del vaso. Si fa questo quarantotto giorni prima del solstizio. Poi il vaso otturato con gesso viene posto sotto le tegole perché ricevano il sole dell’intera giornata. Dopo quel numero di giorni si tira fuori il vaso, si estrae la scilla e si cola l’aceto. Questo rischiara molto la vista, è salutare per lo stomaco, per i dolori al fianco assunto a digiuno ogni due giorni. Ma è tanto forte che assumendolo con troppa avidità per un momento sembra che uno sia morto. Giova pure alle gengive e ai denti anche solo masticandola. Assunta con aceto e miele elimina le tenie e gli altri parassiti del corpo. Messa fresca sotto la lingua fa che gli idropici non sentano sete. Si cucina in diversi modi: in una pentola che si mette nel forno spalmata di grasso o di fango o a pezzi in tegame. E cruda viene seccata, poi si taglia a pezzi e si cuoce nell’aceto, quando serve contro i morsi dei serpenti. Quando è arrostita si netta e la sua parte centrale viene cotta di nuovo in acqua. Così cotta viene somministrata agli idropici, per stimolare la diuresi bevuta nella dose di tre oboli con miele ed aceto, allo stesso modo ai sofferenti di milza e ai sofferenti di stomaco, se non avvertono i sintomi dell’ulcera, che abbiano problemi di digestione, per le coliche, per i sofferenti di bile, per la tosse cronica che toglie il respiro. In soluzione con le foglie per quattro giorni combatte la scrofolosi, cotta in olio ad empiastro la forfora e le ulcere che emettono liquido. Si cuoce pure nel miele per cibo, soprattutto per favorire la digestione. Così purifica anche l’intestino. Cotta in olio e mista ad acquaragia sana le screpolature dei piedi. Il suo seme viene applicato con miele nel caso di dolore dei fianchi. Pitagora tramanda che la scilla sospesa anche sulla porta è efficace a tenere lontani i malefici”.

“L’aceto di scilla quanto più è invecchiato tanto più è utile. Giova, oltre a quanto abbiamo detto, ai cibi inaciditi perché li rende più gradevoli al gusto; parimenti a quelli che vomitano a digiuno perché dà insensibilità alla gola e allo stomaco. Elimina l’alitosi, cicatrizza le gengive, rende saldi i denti, dà un colorito migliore. Gargarizzandolo elimina la durezza di orecchi e apre le vie dell’udito. In pari tempo acuisce la vista. È straordinariamente utile agli epilettici, ai biliosi, contro le vertigini, i restringimenti della matrice, gli urti, le cadute e gli ematomi che ne conseguono, i nervi ammalati, le malattie dei reni, da evitare in caso di ulcera”;

“Le rane cotte con la scilla curano la dissenteria, come dice Nicerato”.

venerdì 11 maggio 2012

Il Soffione del Salento leccese Taraxacum officinale (group) - Asteraceae - Tarassaco comune

Il Soffione del Salento leccese Taraxacum officinale (group) - Asteraceae - Tarassaco comune


Nel Salento leccese la temperatura e l’umidità di questo Maggio 2012 favorisce questa campagna verde riempita da queste 1.500 specie tra cui quelle tipiche dell’areale mediterraneo orientale. Io ormai sono di casa nel paesaggio del Salento leccese, lo esploro in compagnia dell’amico e collega Rory Muratore. Proprio in questi giorni è bellissimo vedere nelle campagne di questa penisola immersa nel grande lago salato il soffione.

Questo globo di piume e di semi che non aspetta che una folata di vento per spargesi prima nell’aria e cadere poi in qualche terreno lontano dove poter nascere, crescere e andare a seme di nuovo, fare un altro globo che non aspetta altro che il vento per raggiungere tutte le parti del pianeta.

Una pianta con le ali. Già le ali, quelle che ognuno di noi vorrebbe possedere per vedere da un’altra prospettiva questo pianeta che invece osserviamo dal basso, andando a piedi e per questo rischiando di non vedere il tutto di cui facciamo parte rimanendo imprigionati in un piccolo pezzetto di territorio che scambiamo per l’Universo.

Vedono più cose le piante anche se non si muovono. Le vedono nella prospettiva di dover espandere la loro presenza e colonizzare ogni parte del pianeta, le vedono nella consapevolezza che c’è spazio per tutti e che basta solo cercarlo per avere un piccolo pezzetto di paradiso.

Adesso leggete con me quello che si scrive del soffione per conoscerlo meglio, apprezzarlo e cavarne quello che di buono ci può donare in maniera assolutamente gratuita. Buona lettura.



Tarassaco

Nome scientifico-Taraxacum officinale Web.



Classe- Magnoliopsida

Sottoclasse- Asteridae

Ordine- Asterales

Famiglia- Asteraceae

Genere- Taraxacum



Descrizione

(Da Gualtiero Simonetti - Marta Watschinger : Guida al riconoscimento delle erbe di campi e prati - Illustrati Mondadori)

Tarassaco, soffione, dente di leone, piscialetto

Pianta perenne, di aspetto alquanto variabile, con foglie lobato-dentate (roncinate) raccolte in rosetta basale, con capoloni di 3 cm di diametro, portati singolarmente su scapi cavi e composti da fiori ligulati gialli. Gli acheni grigiastri presentano un sottile becco e il pappo peduncolato allargato a ombrello.

L'origine del nome generico non è ben nota,forse deriva dal persiano, erba amara, o dal greco, significando cura dei turbamenti, a causa delle proprietà medicinali.

Fioritura: da Febbraio a Giugno o, a seconda delle zone, tutto l'anno.

Comunissima nei prati falciati, campi, incolti e lungo i sentieri fino al piano alpino. Diffusa in tutta Europa.

(Da Roberto M. Suozzi : Dizionario delle erbe medicinali-Grandi Tascabili Economici Newton)

Inglese: Common dandelion.

Francese: Pissenlit vulgaire, Dent de lion.

Tedesco:Kuhblume, loewenzahn.

Spagnolo:Diente de leòn, Amargòn, Achicoria amarga.

E' una pianta erbacea comunissima in tutti i prati e nei campi incolti, e può raggiungere i 10 centimetri di altezza.

Le foglie, riunite a rosetta, sono lanceolate e con margine dentato, i fiori sono capolini di color giallo.

Il frutto è costituito da acheni di forma ovale. Si raccoglie in autunno.



Note storiche –

Verso la fine del Medioevo, gli Apoticari denominavano questa pianta Taraxacum, nome che secondo alcuni deriva dal greco taràsso/tarachè, ovvero turbamento. Altri lo fanno derivare dall'arabo Tarakchaken, nome che designava una cicoriacea. Razes e Avicenna menzionano il dente di leone che è in verità presente in tutti i trattati del Medioevo. Secondo il Supplemento al Dizionario di Sanità, 1784, tomo IV:Ha un gusto amaricante, il quale nella pleuritide, ed altri morbi scioglie ottimamente i grumi del sangue, ed esternamente chiarifica la vista e consuma la tunica cornea istillato negli occhi.

Il Comi (XIX secolo) scrive:Tessalo e Sorano lo usavano nelle idropsie varie come idrotorace, idropericardio, idrocele, idrocefalo, anasarca, edema delle estremità inferiori. Fu pure usata nella acataposi (difficoltà di inghiottire) facendone gargarismi con la decozione.

(Da Giorgio De Maria : le nostre Erbe e Piante Medicinali - Fratelli Melita Editori)

Nomi dialettali Susciùn, Radiciùn (Lig.) Virasoul (Piem.) Cicoria mata (Lomb.) Brusa-oci (Ven.) Pessalèt (Em.) Piscialletto (Tosc.) Girasole selvatico (Marc.) Pisciacane (Umb.) Cicoria selvaggia (Camp.) Cascigno (Abr.) Maroglia (Bas.) Macogliola (Pug.) Taràssacu (Sic.) Zicoria burda (Sard.)

Pianta tradizionalmente nota, al pari della sua copiosa presenza in tutti i periodi dell'anno nei luoghi prativi soleggiati di quasi tutta l'Italia. E' impossibile non notarla quando in primavera forma delle macchie gialle compatte nei campi verdeggianti di tenera erba, ed è facile isolarla in un prato fiorito all'inizio dell'estate, quando fruttifica in una palla rotondeggiante piumosa, con i semi che si staccano facilmente ad ogni colpo di vento, tipico esempio di disseminazione anemofila. E' il seme infatti che, sfruttando la forza motrice dell'aria e per la sua forma a "paracadute rovesciato", può assicurare la continuità della specie, disperdendosi anche molto lontano dalla pianta madre. Note e confermate anche le sue molteplici proprietà che si riassumono in azioni depurative, per l'impiego commestibile delle foglie, e stimolatrici delle funzioni epatiche sfruttando i principi attivi della radice. Tradizionali infine gli usi domestici dei boccioli fiorali che, posti sotto aceto, sostituiscono i capperi e delle radici tostate che costituiscono un buon surrogato del caffè. Habitat: Comune in tutta l'Italia, nei luoghi erbosi, negli incolti ed anche nei boschi.

Proprietà

(Da Gualtiero Simonetti - Marta Watschinger : Guida al riconoscimento delle erbe di campi e prati - Illustrati Mondadori)

Le rosette basali si consumano crude o cotte in insalata, per il sapore gradevole e leggermente amaro;ha proprietà diuretiche e stimolanti. E' buona mellifera.

(Da Roberto M. Suozzi : Dizionario delle erbe medicinali-Grandi Tascabili Economici Newton)

Parti usate - Foglie e rizoma. Componenti principali - Nelle radici e nelle foglie sono stati individuati alcoli triterpenici (beta-amirina, tarasserolo, tarassasterolo, beta-tarassasterolo), steroli (beta-sitosterina, stigmasterina, chitianolo), vitamine A, B, C, D, tiamina, acido nicotinico.

Altri componenti sono:inulina, acido palmitico, oleico, linoleico, levulosio, acido caffeico.Nelle foglie sono presenti alcuni flavonoidi.

Indicazioni terapeutiche –

Il tarassaco viene principalmente usato nell'insufficienza epatica, nelle epatopatie su varie basi (tossica, infettiva), negli itteri e nella litiasi biliare.

La droga ha azione diuretica e viene usata nella terapia per le iperlipidemie, delle ipercolesterolemie e delle ipertrigliceridemie.Per via orale è consigliato sotto forma di infuso, decotto.

(Da Giorgio De Maria : le nostre Erbe e Piante Medicinali - Fratelli Melita Editori)

Proprietà: Depurative, stimolatrici delle funzioni epatiche, diuretiche, lassative, anticellulitiche, coleretiche, vitaminizzanti.

Fioritura: Quasi tutto l'anno, ma in particolar modo in primavera.

Tempo balsamico: Settembre.

Parti usate: La radice (rizoma) da essiccare al sole.

Componenti principali: Carotenoidi, fitosteroli, colina, tannini, una sostanza amara, la taraxacina (nella radice).

Preparazioni Decotto (Depurativo, diuretico, per attivare le funzioni epatiche): Far bollire in un litro d'acqua per 5 minuti 80 grammi di radici.Filtrare, zuccherare a piacere e berne ogni giorno due-tre tazzine.

Succo (Diuretico, contro i calcoli renali): Raccogliere una buona quantità di foglie e di radici fresche, ripulirle bene, poi strizzarle con un tovagliolo pulito. Addolcire il succo con poco zucchero e prenderlo a cucchiaiate nella dose giornaliera di 20-30 grammi.