lunedì 3 maggio 2010

Gli alberi da Frutto presenti nel 1905 nell'Orto Botanico di Lecce


Gli alberi da Frutto presenti nel 1905 nell'Orto Botanico di Lecce
di Antonio Bruno*

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La bella collezione di piante fruttifere impiantate dalla Società economica aveva lasciato nell'Orto nell'anno 1905 pochi fichi, dei melograni, dei mandorli e degli agrumi; il resto era scomparso distrutto dall'incuria e dalla mania devastatrice dell'uomo e dalla falce inesorabile del tempo.
La gestione del Comizio agrario tentava un rilancio dell'orto mettendo a dimora delle nuove piante.
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Il Prof. Ferdinando Vallese il 30 giugno del 1905 all'Assemblea dei Soci del Comizio Agrario nella sua relazione che aveva per oggetto la situazione dell'Orto Botanico continuò ad illustrare la situazione delle piante in esso coltivate. Parlò anche delle piante da frutto.
La bella collezione di piante fruttifere impiantate dalla Società economica aveva lasciato nell'Orto nell'anno 1905 pochi fichi, dei melograni, dei mandorli e degli agrumi; il resto era scomparso distrutto dall'incuria e dalla mania devastatrice dell'uomo e dalla falce inesorabile del tempo.
Comunque si erano raccolte numerose piantine selvatiche che erano nate e vegetavano qua e la tra le gramigne ed i rovi dell'orto, furono innestate e messe a fissa dimora. Si era provveduto a impiantare vivai di mandorli e peschi delle migliori varietà che unitamente a susini, albicocchi erano stati introdotti nell'orto nel 1905 dalla Regia Scuola di pomologia ed orticoltura di Firenze per dono del Ministero dell'Agricoltura.
Anche l'agrumeto fu ampliato e il Comizio aveva l'intenzione di attuare con il tempo il progetto della formazione di una collezione agrumaria.
In quel periodo l'orto ha ospitato 200 piantine di fichi di Smirne che la Cattedra aveva ricevuto dalla loro patria grazie all'interessamento del Marchese Raffaele Cappelli presidente della Società degli agricoltori italiani.
Le 200 piantine provenivano dai dintorni di Aidin ed appartenevano alla varietà “Lopia” la stessa che gli americani avevano introdotto in quegli anni in California sotto il nome di Commercial figues. Questa varietà di fico era la più rinomata per la produzione di fichi secchi di Smirne per l'esportazione aveva quattro sotto varietà denominate Elemés, Bejujanika, naturale ed Hardas. Moltissime le domande di avere le talee del fico di Smirne che giunsero al Prof. Ferdinando Vallese e tale circostanza fece decidere al professore che fosse meglio fare un grande vivaio delle piante ottenute per distribuirle poi nell'autunno successivo.
Il Professore Vallese rilevò che il melo anche impiantato in terreni discreti vegeta in maniera stentata e presenta il tronco ed i rami crivellati da gallerie di insetti e con i frutti colpiti quasi sempre dalla larva della Carpocapsa. Come noto la carpocapsa del melo (Cydia pomonella Linnaeus, 1758) è un Lepidottero Tortricide molto dannoso alle Pomacee ecco perchè il Prof. Vallese notava le larve che danneggiano i frutti scavando gallerie al loro interno. Le larve sono di colore biancastro, poi si inscuriscono diventando rosee. Gli adulti sono, invece, di piccole dimensioni; questi sono farfalle con le ali di colore grigiastro.
Il Prof. Vallese continua la sua dissertazione parlando del pero che notava essere una pianta che si adatta meglio al clima del Salento e cita le bellissime migliaia di piante di pero, innestate sul perastro spontaneo che è possibile notare in ogni dove nella gariga. I peri erano piantati da soli oppure consociati con gli oliveti a Castellaneta, Palagiano, Palagianello e Taranto. Invece nei dintorni di Lecce i peri erano rachitici perché, a detta del prof. Vallese, il suolo era poco profondo ed arido.
Il pesco, l'albicocco e il susino, dalle osservazioni fatte nel Salento leccese, si adattano bene e la frutta che veniva prodotta viene definita “deliziosa” unico difetto la durata brevissima della vita di questi alberi tormentata dalla bolla, dalla gomma e dai polipori (funghi polipori) nei terreni asciutti. La bolla del pesco (Taphrina deformans) è un fungo che presenta un legame molto stretto con il pesco ed è diffusa ovunque è coltivata la drupacea.
Il prof. Ferdinando Vallese continua la sua relazione parlando del mandorlo che nel Salento leccese “giganteggia” quasi ovunque. Le varietà erano a fioritura precoce e si era notata una cattiva allegagione dei fiori ecco perché l'orto aveva cominciato ad effettuare l'innesto con varietà tardive che consigliava a tutti i mandorlicoltori.
Nel 1905 nell'orto si erano impiantati peschi, albicocchi e susini scartando i meli e limitando a poche piante la coltivazione dei peri.
Una trattazione a parte merita il fico di Smirne che come già scritto si stava imponendo all'attenzione degli agricoltori del Salento leccese che chiedevano qualche gemma all'orto botanico. Secondo l'opinione del Prof. Vallese il fico di Smirne non è simile al nostro “fracazzano” . Dalle foglie germogliate dalle giovani piantine di fico di Smirne era chiaro che si trattasse di una pianta assai diversa e ciò era confermato anche dagli innesti eseguiti,
E' interessante notare che il Prof. Vallese spinge alla coltivazione prendendo in aiuto ciò che fecero Columella, Varrone soprattutto Catone che si serviva dei fichi anche come documenti di alta politica. Il Prof. Vallese scrive “ dovremmo tutti deplorare fortemente noi che siamo i discendenti che non abbiamo saputifare quel che da secoli fanno così bene i discendenti di Maometto”. Catone e poi Varrone raccontavano che i fichi secchi costituivano spesso l’alimento base dei contadini dell’epoca tanto da essere chiamato “pane dei poveri”, grazie all’abbondanza degli stessi e la facilità di conservazione mediante l’essiccazione. Fin dall’epoca romana venivano decantati per la bontà, considerati vere proprie leccornie, ricercatissime dai mercanti interessati a rifornire i più ricchi mercati del momento, divennero così una consistente fonte di reddito per i contadini. Per secoli la stessa manodopera agricola dedita alla coltura a alla raccolta dei frutti era anche impiegata nell’essiccazione.Il prof Vallese si riferisce al famoso l'aneddoto del cestino di fichi che Catone, al suo ritorno da Cartagine, mostrò in Senato; erano ancora tanto freschi da rendere evidente "quanto" Cartagine fosse vicina e tanto buoni da far toccare con mano la concorrenziale qualità dei suoi prodotti.
Un lonzino di fichi di venti secoli fa nella ricetta dello scrittore latino Columella (65 d.C.) trasmessa dalla tradizione contadina fino ai nostri giorni.
Alcuni, colti i fichi, tolgono il penduncolo e li stendono al sole. Quando si sono seccati un po’, prima che diventino duri, li ammassano dentro delle vasche di terracotta o di pietra.
Allora, lavatisi i piedi, li pestano allo stesso modo della farina e vi mescolano sesamo abbrustolito con anice d’Egitto, seme di finocchio e di cumino.
Dopo averli ben pestati ed aver impastato tutta la massa dei fichi sminuzzati, formano come dei piccoli salsicciotti. Li avvolgono con foglie di fico, legandoli con un giunco o un’erba qualsiasi e li ripongono sui graticci aspettando che si asciughino. Una volta che si sono seccati, li conservano dentro dei vasi sigillati con pece.
Ancora una curiosità sui fichi. Riguarda l'etimologia della parola ‘fegato', denominato epatos in greco (da cui gli aggettivi correlati) ed iecur in latino (iecur iecoris, neutro, della III declinazione: indimenticabile!). La genesi del termine è ben strana e deriva da una prelibatezza gastronomica dell'antichità, lo ‘iecur ficatum' di Apicio, (il ‘fegato ai fichi', di cui sono state tramandate diverse versioni). Accadde che nel basso medioevo, al passaggio dalla lingua latina al volgare, il primo dei due termini si perse, e ‘ficatum', ‘fegato' venne ad indicare l'organo che intendiamo ora.


*Dottore Agronomo

Bibliografia

Lucio Giunio Columella: Res Rustica, XII, 15 - (65 d.C.)
Sandro Russo: Piante e frutti perduti, ritrovati, fantasticati

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