domenica 2 giugno 2019

Susanna Tamaro ci spiega l'agricoltura italiana


In campagna si muore di burocrazia
Il passaporto per il mio asino
Storie dal Paese dei balzelli
Restaurare una cascina, coltivare la terra, vendemmiare. I miti bucolici nella realtà sono incubi
Il ritmo di chiusura delle attività agricole è di 60 al giorno: negli ultimi anni ne sono scomparse 172.000. E così in Italia avanza il deserto
I miei vicini producono bovini da carne e cereali. Inoltre affittano una casa per le vacanze. Mentre lei puliva per l’arrivo degli ospiti piomba un controllo dell’Inps «A che titolo lavora qui?» le chiedono. E lei: «Sono la padrona». «Falso, la casa risulta di suo marito e lei non ha un contratto». Balbetta: «Siamo sposi da 40 anni». Tutto inutile
di Susanna Tamaro
Le illustrazioni sono di Giulia Pex

La via per comprendere la profonda
contraddittorietà del nostro Paese
è una sola. Provare a fare qualcosa.
Finché si resta nel campo della teoria,
infatti, si può anche trovare
un bandolo, una traccia che, apparentemente,
illumini il groviglio
delle inutili complessità. Se invece
ci si attiva in modo concreto, ben presto ci si
rende conto della situazione: più ci muoviamo,
più siamo prigionieri.
Personalmente mi sono sottoposta a diverse
prove iniziatiche. Ho restaurato una casa, ne ho
costruita un’altra, le ho dotate di un sistema fotovoltaico,
ho creato una piccola azienda agricola.
Tutto questo l’ho realizzato grazie unicamente
ai soldi guadagnati con il mio lavoro, senza
chiedere contributi e facilitazioni a nessuno, e
l’ho fatto semplicemente perché sono convinta
che, una volta risolti i tuoi problemi, devi provare
a risolvere quelli degli altri. Ho sempre pensato
che i soldi che stanno fermi, magari chiusi
in qualche bel pouf—abitudine piuttosto diffusa
a livello nazionale—non siano altro che carta.
Non servono a niente e, dunque, non sono
niente. Un’alluvione, un incendio, una famiglia
di topolini affamati, il crack di una banca o un
tonfo in Borsa bastano a vanificare ingentissimi
risparmi. Dunque, armata delle migliori intenzioni
e sedotta da quello che ora si chiama, purtroppo,
storytelling—il ritorno alla terra, la superba
eccellenza del Made in Italy alimentare
ecc. ecc.—mi sono lanciata in quest’avventura.
Sulla stampa e sui media siamo bersagliati da
continue immagini da Mulino Bianco, che ci testimoniano
le ardimentose esperienze di giovani
sprezzanti del pericolo che hanno lasciato
un’attività—o un’inattività—cittadina per dedicarsi
alla terra, trasformando, grazie alle potenzialità
offerte da questi tempi, quello che una
volta era un lavoro inviso a tutti — lavorare la
terra—in un’attività invidiabile oltre che, naturalmente,
successful. Le attività verdi, insomma,
sembrano diventate la mecca della nostra
società. Sulla carta ciò non è sbagliato, il settore
agricolo ha — o meglio avrebbe — grandi potenzialità.
Potenzialità che però attualmente
vengono vanificate in modo sistematico dai
problemi cronici del nostro Paese.
Da dove cominciare? Forse dalla bilancia della
mia cucina dove, oltre a pesare la farina e lo zucchero,
spesso controllo il peso degli incartamenti
burocratici.


Per mettere in funzione l’impianto fotovoltaico
ci sono voluti ben due chili di carte. Per
ottenere il Psr, vale a dire il Programma di sviluppo
rurale, finanziato con i fondi della Comunità
europea, dallo Stato e dalle Regioni
per sostenere — e incrementare? — questo
settore, non credo che le carte necessarie siano
molto inferiori di numero. Neanche gli addetti
ai lavori sono ormai in grado di decifrare
la scrittura cuneiforme dei burocrati!
Dato che il mio principale strumento di lavoro
è la lingua italiana, provo un senso di indignazione
assoluta davanti alla perversione
del burocratese. In questa nebbia legislativa
può avvenire tutto e il contrario di tutto e—tra
questo tutto e il contrario di tutto—prospera
la grassa intercapedine della corruzione.
Le imprese agricole dunque, come d’altronde
ogni settore del nostro Paese, sono intrappolate
in una quantità abnorme di leggi, molto
spesso in contraddizione tra di loro, con
un’aggravante in più. L’agricoltura è un’attività
viva e mutevole, condizionata dalle stagioni e
—ora più che mai—dalle bizzarrie meteorologiche.
Aspettare, essere fermati, ritardare,
bloccare per un intoppo burocratico può voler
dire perdere o aver danneggiato il lavoro di un
anno.
L’allegro storytelling del ritorno alla terra
mostra il suo vero volto di fronte alla nuda crudezza
dei dati. Il ritmo di chiusura delle attività
agricole è di 60 al giorno, per un totale di
172.000 aziende chiuse negli ultimi anni. Continuando
di questo passo, secondo gli studi di
Coldiretti, tra 33 anni nel nostro Paese non esisterà
più neppure un’azienda agricola. Forse,
allora, la scienza avrà trovato delle pillole in
grado di sostentarci senza alimentazione ma,
se così non sarà, anche «il Paese dove fioriscono
i limoni» si trasformerà in una landa di migranti
ambientali.
Tra l’altro i limoni, povero Goethe, fioriscono
sempre meno. In Sicilia, tanto per fare un
esempio, il 50% degli agrumeti sono stati divelti,
la stessa sorte stanno subendo i pescheti
dell’Emilia, per non parlare dell’ecatombe di
ulivi già avvenuta in buona parte delle regioni
del Sud. Le politiche e le leggi comunitarie
hanno — credo — una grande responsabilità
in questo campo. Per quale ragione, infatti,
una zucchina, per rientrare nella legalità, deve
misurare 13 cm? E per quale altra, se non il delirio
di un perverso, un grappolo di ribes deve
avere almeno 12 chicchi per essere messo sul
mercato? A chi giovano i frutti della terra trasformati
in prodotti da catena di montaggio? Il
resto del danno lo fa un mercato malato per
cui un chilo di mele viene pagato 4 centesimi
al produttore, mentre la sola raccolta ne costa
18. Si potrebbe farle raccogliere da chi ha bisogno,
naturalmente, ma la legge non lo consente.
Le grandi raccolte che venivano fatte unendo
le forze—un giorno mi aiuti tu, un altro ti
do una mano io—non possono più esistere e,
oltre alla civiltà umana, è la frutta la prima vittima
di questo sistema. Non resta allora che lasciarla
marcire sugli alberi. Ma lasciar marcire
qualcosa che era nato per nutrirci non può che
evocare sinistri presentimenti.
Presentimenti che si aggravano fino al panico
quando a venir sradicati dalle ruspe sono
centinaia, migliaia di alberi nel pieno del vigore
vegetativo e produttivo. Come si può pensare
che tutto questo non abbia conseguenze tragiche?
Fino ad ora, purtroppo, l’agricoltura nazionale
è stata trattata alla stregua di un malato
terminale: tenuta in vita con trasfusioni, tende
di ossigeno, iniezioni di miracolosi prodotti
rigeneranti il cui effetto è destinato a vanificarsi
nel breve corso di una stagione. Di questo
sostentamento artificiale hanno beneficiato
soprattutto le realtà di grandi dimensioni. Alle
aziende piccole, familiari, che costituiscono
— o meglio, costituivano — l’ossatura della
campagna italiana non è rimasto che soccombere.
L’idea che la terra, lasciata a se stessa, ritrovi
l’arcaica armonia di un primitivo Eden è
un sogno da seguaci di Gaia che poco o nulla
ha a che fare con la realtà. Abbandonati a sé,
gli alberi in breve non producono più frutti, i
campi lasciati incolti non generano cibo ma
rovi e copiose malerbe. La stessa sorte subiscono
i pascoli dismessi. In poco tempo la vegetazione
prende il sopravvento ovunque, annullando
la possibilità di creare risorse alimentari.
Ormai da molto tempo coltivare la terra non
rende più. Per le estensioni modeste, come
quelle dei cereali, nel migliore — ma proprio
nel migliore — dei casi, al massimo non si va
in perdita. Il 23% del nostro territorio presenta
ormai avanzati stati di degrado, percentuale
che sale al 41,1% per il Centro-Sud. Dove degrado
vuol dire deserto che avanza. E il deserto, è
bene ricordarlo, è quel luogo in cui non cresce
più nulla.
Un Paese che avesse a cuore il proprio futuro
farebbe estesissime campagne di ri-alfabetizzazione
agraria, concederebbe incentivi e
sgravi — per ora presenti soltanto, credo, in
Lombardia e Veneto — a chi applica l’agricoltura
antideserto. Modalità di agricoltura che,
oltre a essere lungimirante, consentirebbe un
risparmio da subito. La preparazione di un letto
di semina, infatti, con il sistema tradizionale
costa 375 euro a ettaro, mentre con le tecniche
scientificamente più moderne può arrivare
a costare 68 euro per ettaro. Invece, per il
momento, lo Stato continua a spendersi con
gran zelo nell’unica attività che sembra davvero
capace di fare: sorvegliare le irregolarità e
somministrare multe.
Parafrasando il detto evangelico, verrebbe
da dire che lo Stato va in cerca con spasmodica
sbadatezza si fa sfuggire le travi. «Mi arrendo!
Non ce la faccio più!». Quante volte ho sentito
ripetere queste parole! E quante realtà ho visto
chiudere, mandando a casa uno, due, tre lavoratori!
In chiusura, dato che il mio mestiere è quello
di raccontare storie, permettetemi di fare
qualche esempio in grado di aiutare la comprensione
concreta della tanto inneggiata vita
in campagna per chi non ne ha la consuetudine.
L’anno scorso la vendemmia di un mio conoscente
è stata interrotta bruscamente da un
controllo dell’Inps. Abominio! Risultava che
pagava quattordici operai e invece nella vigna
ce ne erano soltanto tredici! Inutile spiegare
che il quattordicesimo aveva la febbre e che sarebbe
stato grave il contrario: tredici operai
pagati e uno in nero. Per i funzionari questa
incongruenza nascondeva qualcosa di losco
che necessitava di ulteriori, vessatori accertamenti.
Dunque, niente più vendemmia. Con il bel
risultato che l’anno dopo il mio amico ha comprato
una bella macchina con cui ha fatto la
vendemmia e i tredici, anzi i quattordici, a malincuore,
li ha lasciati per sempre a casa.
A me è capitato, ad esempio, di dover ridipingere
una serra—serra peraltro visibile soltanto
dal cielo! — perché la tinta non è stata
ritenuta perfettamente in linea con la volontà
dei sorvolatori. La multa dunque può arrivare
per una tinta «sbagliata» ma può venire anche
per un cugino o una zia che sono venuti a darti
una mano nel vigneto o nell’uliveto—sfruttamento
di mano d’opera —, per una piccola tettoia
ombreggiante che hai tirato su durante la
canicola estiva — falso ideologico —, per un
vecchio ciuchino che hai salvato dal macello e
che non hai dotato di regolare passaporto.
Già, i passaporti degli equini! A raccontarla
adesso viene da ridere ma qualche anno fa
questa vicenda ha fatto piangere diverse persone.
Un bel giorno, infatti, qualcuno in qualche
stanza aveva deciso, di punto in bianco,
che tutti i quadrupedi di origine equina dovessero
essere forniti di questo documento. Decisione
naturalmente mai comunicata per lettera
agli interessati, vale a dire ai proprietari di
vari ronzinanti, e così, senza nessun preavviso,
erano fioccate le multe. «Dov’è il passaporto
della bestia?». «Perché? Serve un passaporto?
». «Certo! Non si è adeguato alla normativa?
». «Veramente non sapevo...». «Non legge
la Gazzetta Ufficiale?». «A dire il vero, no...».
«Allora sono tremila a capo. Lei ne ha quattro.
Dunque fanno dodicimila». Come sfuggire al
dubbio che si trattasse dell’ennesimo folle balzello,
dato che, dopo solo due anni, il passaporto
degli equini non è stato più considerato
obbligatorio?
E per finire—potrei andare avanti all’infinito
come Sherazade nelle Mille e una notte
vorrei raccontare ciò che è accaduto a una mia
vicina di casa. La loro azienda produce bovini
da carne e cereali. Oltre a questo, affittano una
casa per le vacanze. Proprio mentre era intenta
a pulire la casa per l’imminente arrivo degli
ospiti, piomba un controllo dell’Inps. «A che
titolo lavora in questa casa?» le chiedono. E lei
serena: «Sono la padrona di casa». «Non è vero
» le rispondono. «La casa risulta essere di
suo marito». «Appunto...» cerca di controbattere
la mia amica. «Ma lei non ha un regolare
contratto di lavoro». «Sono la moglie» balbetta
confusa, «siamo sposati da quarant’anni».
Tutto inutile. L’alternativa era tra pagare ventimila
euro di multa per lavoro in nero o l’immediata
iscrizione all’Inps della moglie da parte
del marito, anche se lei ha superato da un bel
po’ i sessant’anni. Che dire? I caporali ringraziano!
Nel 1840, John Ruskin durante un suo viaggio
in Italia, annota nel suo diario:
«Sono giunto alfine alla meta dopo aver subito
l’assalto di una folta schiera di doganieri
[...]. Vediamo nell’ordine: porta di Bologna,
uscita: passaporto e gabella. Ponte, mezzo miglio
più avanti: pedaggio. Dogana, due miglia
innanzi, lasciati gli Stati Pontifici: passaporto
e gabella. Dogana, dopo un quarto di miglio,
entrati nel ducato di Modena, prima l’ufficiale
della dogana, poi l’addetto ai passaporti. Versato
un tributo a entrambi. Porta di Modena,
entrata: dogana, gabella, passaporto, idem.
Porta di Modena uscita: passaporto, gabella.
Porta di Reggio, dogana, gabella, passaporto,
idem. Porta di Reggio, uscita: passaporto, gabella.
Cambio di cavalli, più avanti: passaporto,
gabella. Entrata nel ducato di Parma, ponte:
pedaggio, dogana, gabella, passaporto,
idem. Dunque in totale sedici soste, con una
perdita media di tre minuti e un franco ogni
volta. Quello della dogana di Modena non s’è
rabbonito per meno di cinque paoli; l’ufficiale
pontificio di Bologna ci ha assicurato che in
coscienza non poteva evitare la perquisizione
per meno di una piastra. Nell’intero sistema
c’è un che di furtivo e abietto: arriva il doganiere,
poggia la mano lurida sulla carrozza e
non molla la presa finché non vi infili un franco,
altrimenti attacca a frugarti».
Dal viaggio di Ruskin sono trascorsi centosettantasei
anni. Le cose sono cambiate? Mah!
Dato che il mio ciuchino ormai ha il passaporto,
vien voglia davvero di saltare in groppa e
lanciarsi al trotto verso le Alpi. Evitando ogni
dogana, naturalmente.

Fonte Corriere della sera di Domenica 2 giugno 2019

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