giovedì 30 giugno 2016

Ma è vero che le specie vegetali native sono buone e quelle esotiche sono cattive?

al posto della logica integralista "native buone, aliene cattive" [……….] guardare solo alle specie realmente invasive capaci di alterare alcune funzioni dell'ecosistema, piuttosto che enfatizzare la purezza naturale. È, quindi, logico chiedersi: quanto è veramente importante piantare rigorosamente specie autoctone nelle aree urbane? Le specie native possono fornire i servizi ecosistemici richiesti nelle specifiche situazioni urbane, oppure ci sono specie esotiche capaci di performances migliori?

NATIVE O ESOTICHE? UN DIBATTITO AMPIO E SPESSO INUTILE
di Francesco Ferrini

Il dibattito sulla scelta fra specie esotiche e specie native è sempre piuttosto acceso ma, spesso, risulta eccessivamente semplificato (nativo “buono”, esotico “cattivo”) e, soprattutto, non sorretto da evidenze scientifiche. Questo vale in particolare per il verde nelle aree urbane. Il concetto di nativo stricto sensu in un ambiente alieno quale quello delle nostre città appare inadeguato, per cui risulta opportuno cercare di conciliare posizioni controverse e di avere un approccio oggettivo e razionale anziché soggettivo, empatico ed emozionale come invece spesso accade.
Occorre precisare, innanzitutto, il significato di esotico. Nel nostro senso comune percepiamo tale vocabolo associandolo a paesi tropicali ed equatoriali quando, in realtà, dal punto vista etimologico la parola deriva dal greco: exotikos, derivato a sua volta da exo, fuori, e va quindi riferita a qualsiasi cosa che proviene o che è importata da altre regioni, non necessariamente calde e/o equatoriali.
È indubbio che la diversità urbana richiede un approccio differente poiché l’ambiente urbano è spesso molto eterogeneo. L’immagine mentale legata all’aggettivo urbano ci porta a identificare tale l’ambiente come quello dove la componente “costruito” è prevalente rispetto alle altre. Tuttavia, è urbano il Parco Sempione a Milano, realizzato a fine 1800 su terreni agricoli, ma posto in centro città, così come lo sono il Parco delle Cascine a Firenze (originariamente come tenuta agricola di proprietà di Cosimo I de' Medici) o Villa Borghese a Roma, ambienti nei quali le limitazioni alla crescita delle piante sono poche e sicuramente di gran lunga inferiori a quelle che si trovano nel viale posto a poche decine di metri da essi.
Molte città comprendono anche ecosistemi residui che derivano da paesaggi naturali o paesaggi rurali tradizionali inglobati nel tessuto urbano. Altri spazi verdi sono stati creati dall’uomo nel corso dei secoli, alcuni emergono come nuovi ecosistemi in siti ex industriali (es. Ruhr, Parco del Portello a Milano, Parc André-Citroën a Parigi, ecc.). L'adozione di una sola strategia generale per tutti gli habitat urbani è quindi irragionevole, indipendentemente che si  parli di “usare solo native” o di “le esotiche sono migliori”.
Ma allora le esotiche sono migliori o peggiori? La risposta giusta dipende quasi sempre dal contesto. La Robinia pseudoacacia, specie nordamericana altamente invasiva rappresenta un classico esempio. È noto che tende a sostituire, soprattutto nelle scarpate stradali o nelle aree marginali e in quelle urbane dismesse, le specie autoctone. Eppure la robinia è anche un albero urbano di grande valore, ben adattato ai cambiamenti climatici, rustico, con una bella fioritura e in grado di ospitare una buona biodiversità animale. Altre specie invasive come l’eucalipto possono, invece, disturbare le relazioni ecologiche tra le specie che si sono co-evolute nel corso dei millenni ed è il motivo si dovrebbe evitare di piantare l'eucalipto soprattutto laddove esso ha potenziale invasivo (es. Italia meridionale e zone costiere dell’Italia centrale) e sostituirlo con piante autoctone come querce e altre specie dell’areale Mediterraneo che sostengono più la biodiversità di ogni altro paesaggio.
Riguardo alle aree urbane solo nel caso in cui gli impatti negativi sulle specie native o sugli habitat naturali siano evidenti, le specie esotiche (in questo caso invasive) devono essere gestite e limitate (tuttavia la loro gestione è spesso altamente costosa e, come l'esperienza di molti progetti di gestione mostra, spesso non efficace). Altrimenti, nei casi in cui non ci siano specie native adatte a un particolare contesto e in cui è accertata la non invasività di una specie, è possibile, talvolta addirittura auspicabile, mettere a dimora specie esotiche. Esse sono accettate come parte della continua evoluzione degli ecosistemi e tale differenziazione permette agli ecosistemi stessi di evolvere e consente di risparmiare risorse.
Per chiarire alcuni dei concetti espressi è forse utile un esempio. L’ontano nero ha una diffusione molto ampia in Europa, ma si trova quasi solo sul bordo di fiumi e laghi e anche lungo i tratti urbani dei fiumi nelle nostre città. Ma questo è un ambiente totalmente diverso da quello che possiamo trovare a soli 100-200 metri di distanza dal fiume in una piazza assolata della stessa città. In una situazione del genere è chiaro che l’ontano non potrebbe sopravvivere, mentre alcune specie esotiche, come ad esempio la Gleditsia triacanthos (Originaria del Nord America, introdotta in Europa nel secolo XVII e in Italia nel 1712, a scopo ornamentale e per il consolidamento dei terreni), risultano molto più adatte. La gleditsia (ovviamente utilizzando le cultivar senza spine e anche sterili) ha un rapido ritmo di crescita e tollera avverse condizioni ambientali, come l'inquinamento atmosferico, la siccità estiva, i freddi invernali, gli spazi di crescita limitati e anche l’accumulo di sale. Allora perché non utilizzarla?
Si creano così nuovi ecosistemi, si stabiliscono nuove connessioni tra le specie autoctone ed esotiche. Come suddetto le specie esotiche sono spesso prevalenti negli ecosistemi urbani nuovi e sono alla base di una gamma di servizi ecosistemici. È quindi ragionevole integrare specie non native nelle nuove infrastrutture verdi, soprattutto laddove le specie autoctone non funzionano per creare un mix di specie native e non native. Le nuove “aree naturali” dominate da specie non native sono state integrate con successo in una serie di parchi europei con buoni risultati.
Per concludere sia le specie native che le esotiche sono componenti inscindibili degli ecosistemi urbani. Esse si ritrovano in combinazioni che si formano in risposta ai mutevoli ambienti urbani. Entrambi i gruppi di specie forniscono i servizi ecosistemici dei quali abbiamo bisogno. È vero, le specie non native possono essere una minaccia per la biodiversità autoctona, ma questo è spesso strettamente dipendente dal contesto. È necessario analizzare le diverse situazioni locali prima di agire essendo sempre pronti  a migliorare la biodiversità urbana, bilanciando i rischi e le opportunità delle singole specie nei singoli casi, sia per le specie native, sia per le esotiche. Differenziazione invece di semplificazione è la strategia più efficace per migliorare la biodiversità urbana in un mondo che cambia.

Foto: Gleditsia triacanthos, foglie in autunno

Da: ABOUTPLANTS, 2/05/2016
PIANTE NATIVE ED ESOTICHE NELL'EVOLUZIONE DEL PAESAGGIO URBANO
di Francesco Ferrini

Sappiamo tutti che i nostri paesaggi urbani sono stati costruiti e modellati per centinaia se non migliaia di anni (pensiamo a Roma) con la formazione di un mix di specie autoctone e esotiche. Le specie che ora abbiamo nelle nostre città sono il risultato di scelte fatte da moltissime persone, per lo più indipendenti l'una dall'altra e sulla base delle proprie preferenze. Alcune aree urbane sono state ben programmate e successivamente ben gestite come, ad esempio, alcuni dei nostri parchi cittadini, alcuni giardini e anche alcune alberature stradali, mentre altri spazi, soprattutto quelli meno centrali, sono stati colonizzati da specie opportuniste ed esotiche.
Con le modifiche susseguenti alla trasformazione dei paesaggi agrari o pseudonaturali (nel nostro paese, antropizzato da diverse migliaia di anni è azzardato parlare di paesaggi naturali visto che l’uomo ha praticamente modificato e modellato il paesaggio fin dalla preistoria) gli habitat indigeni sono stati distrutti, modificati e/o frammentati, e le specie che non sono native di quelle aree si sono affermate per caso o per mano dell’uomo.
Che ci piaccia o no, ci sono molte specie non native che vivono nelle nostre città; si pensi, fra quelle piantate dall’uomo al cipresso, al pino, specie naturalizzate, ma non prettamente native o al platano che è l’ibrido naturale Platanus x acerifolia, ottenuto dall’incrocio fra P. orientalis, nativo delle nostre zone sud-orientali e il P. occidentalis di origine americana), mentre fra quelle diffusesi dopo la loro introduzione possiamo ancora ricordare la Robinia pseudoacacia o l’ecologicamente devastante Ailanthus altissima (FOTO). Hanno approfittato delle possibilità fornite da aree “disturbate” e da terreni abbandonati e che esse sono “ecologicamente” adatte a occupare. Riguardo a questo ci troviamo spesso stupiti dalla capacità di alcune specie di occupare habitat e ambienti marginali, come le crepe in aree pavimentate, terreni poveri con elevata salinità o spazi con scarso accesso ad acqua e sostanze nutritive (si pensi anche al naturalizzato fico).
Mentre è indubbio che dovremmo cercare, ove possibile, di stabilire e mantenere aree, soprattutto extraurbane, con specie esclusivamente autoctone, non può essere realistico pensare che abbiamo il tempo, il denaro e le risorse per gestire le nostre aree urbane esistenti e la natura in città con una logica “purista” e con una prospettiva “solo specie native”. Perciò, come detto nella prima parte di questo articolo (http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=2739), nei nuovi impianti dovremmo dare la preferenza a quelle specie in grado di garantire performance di crescita e, conseguente, benefici adeguati, siano esse native o non native.
Un focus che limiti i nuovi impianti esclusivamente alle specie native nelle aree urbane potrebbe creare più problemi di quanti ne possa risolvere. Che cosa significa infatti "nativo" in un paesaggio antropico fatto di strutture costruite, dove le situazioni micro e mesoclimatiche sono talvolta estreme in termini di temperatura, scarsità di risorse, sostanze inquinanti, ecc.?
Oltretutto la natura è dinamica, in continua evoluzione per adattarsi ai cambiamenti. Nelle sue varie forme e funzioni (che si tratti di piante o animali), essa è la contabilizzazione dei cambiamenti indotti dall'uomo, e si riorganizza per formare nuovi ecosistemi. Gli spazi urbani sono dunque nuovi ecosistemi costituiti da un mix di piante coltivate, esotiche spontanee, indigene spontanee, erbacce invasive, ibridi e altro ancora. Indipendentemente dalla loro origine, la maggior parte di queste sono “gradite intrusioni” nelle nostre giungle urbane di cemento poiché assolvono numerose funzioni ecosistemiche nelle aree densamente costruite e popolate.
Per cui al posto della logica integralista "native buone, aliene cattive" gli ambientalisti dovrebbero solo guardare alle specie realmente invasive capaci di alterare alcune funzioni dell'ecosistema, piuttosto che enfatizzare la purezza naturale. È, quindi, logico chiedersi: quanto è veramente importante piantare rigorosamente specie autoctone nelle aree urbane? Le specie native possono fornire i servizi ecosistemici richiesti nelle specifiche situazioni urbane, oppure ci sono specie esotiche capaci di performances migliori?
Una volta che si è risposto a queste domande in modo pragmatico e scientificamente corretto, si possono fare delle scelte giuste.


Da: ABOUTPLANTS, 11/05/2016

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