domenica 6 giugno 2010

Il colonialismo agroalimentare fratricida: un caso allarmante


Il colonialismo agroalimentare fratricida: un caso allarmante
di Gino Di Mitri


Mio figlio suona in un gruppo rock. Suona molto bene le tastiere e io non perdo occasione, ogni volta che posso, per andarlo a sentire in giro per i locali salentini in cui si fa buon musica dei tempi nostri: Bon Jovi, Doors, Bob Dylan, un po' di Litfiba, le Orme. Una sera io e mia moglie capitiamo in un pub notissimo di Cutrofiano, in quello che unanimemente è considerato il tempio della musica giovanile di quaggiù.
Locale pieno come un uovo; atmosfera giusta con un sacco di giovani; si preannuncia una serata finalmente bella e divertente. La band comincia a suonare: ci danno dentro di brutto a partire dal pezzo d'apertura; la gente batte il ritmo con i pugni sui tavoli e con i piedi sul pavimento di legno. Mia moglie ordina una margherita; io, invogliato dal menu, chiedo un'insalatona. Servizio tempestivo: dopo tre minuti la bella cameriera ci porta una pizza fragrante e un trionfo di verdure e
ortaggi fra cui spiccano valerianella, spinaci, indivia riccia, iceberg, ravanelli, cetrioli, cipolla rossa e altre crudità.
Sopraggiunge la bottiglia dell'olio recata dalla stessa fanciulla. Prendo la bottiglia, inforco gli occhiali da presbite, scruto l'etichetta: la confezione parla toscano, talmente toscano che il
tipografo ha cancellato tutte le "c". Perplesso, scarto la capsula che avvolge il tappo, apro la bottiglia, ne verso il contenuto sull'insalata, aggiungo il sale, rimescolo, infiocino la prima sfilza
di foglie, metto in bocca e mastico...Sensazione sgradevole. L'olio sa di rancido, di scaldo, di muffa e di tutti i difetti che possa avere un olio sedicente extravergine d'oliva.
Chiamo la cameriera mortificatissima e le dico che voglio parlare con il proprietario o con il responsabile delle cucine. Arriva un ragazzone trafelato che prende atto delle mie rimostranze e mi dice che mi fa portare subitissimo un'altra bottiglia d'olio. Lo calmo e gli spiego che quella è l'ultima cosa; soprattutto gli chiedo come mai non abbia messo in tavola un olio, anche non extravergine, salentino. A questo punto il suo tono muta radicalmente e mi grida scocciato che quello "è il migliore olio extravergine presente sulle tavole di tutto il Salento", che se fosse per lui butterebbe "alla spazzatura tutto l'olio paesano leccese". Gli spiego pazientemente che il Salento annovera ormai produttori non solo etichettati e controllati, ma anche blasonati. La sua collera raggiunge l'apice quando urla:"Insomma, qua viene gente da Bari, Taranto e persino dalle Calabrie per mangiare , perché qui caromio si mangia benissimo!". Senza scompormi gli replico che è a dir poco immorale, da salentino esperto di ristorazione, servire un olio così scadente: toscano va bene, ma almeno fosse buono! Lo invito a cambiare olio e a mettere in tavola, d'oa in avanti, roba buona del nostro territorio. Tutto ciò che ne ricavo è un'espressione mista tra compatimento e irrisione. Non vado oltre. Per quella sera andrò avanti con una birra. Aggiungo solo un dettaglio: il padrone
dichiara che mi condona il conto; io gli sbatto sul tavolo i soldi (se vuole se li prenda, sennò restano lì e crepano) e cambio posto per ascoltare la musica di mio figlio e il suo complesso.
Conclusioni. La Toscana è, insieme alla Francia, una delle capitali mondiali del mobbing enogastronomico. Che in regime di liberismo economico quale il nostro (e io ne sono fanatico fautore) ciascuno sia libero di espugnare fette di mercato, mi va pure bene. Ma che un povero
disgraziato con la presunzione di saper fare buona ricettività e buona cucina faccia da apripista ad autentici spacciatori di pattume oleario targato Toscana qui in casa mia, questo non mi scende giù nemmeno con lo sturalavandini.
La colpa è tuttavia nostra e solo nostra: di noi salentini, intendo. O si comincia a battere a tappeto tutti i posti dove si mangia, a fare il porta-a-porta in ristoranti, pizzerie e pub, oppure saremo sommersi dal prodotto extrasalentino. E allora non mi si venga a piangere se non riusciamo a vendere il nostro olio. Cominciamo a vendere salentino e a comprare salentino qui in casa nostra. Tanto non ci danno più di 1,50 euro a litro: quindi si può e si deve almeno far terra bruciata a chi
gioca a "futticumpagni". Voglio dire che invece che svendere il nostro olio ai grossisti, dobbiamo svenderlo direttamente ai ristoratori per chi invade il nostro territorio.
Non c'è bisogno di essere leghisti o iosudisti per questa battaglia: si tratta di respingere un'autentica aggressione colonialista fatta da nostri connazionali con la complicità delle mafie mediatorie locali.
E questo è un caso lampante di colonialismo: noi compriamo olio extrasalentino mentre siamo fra i massimi produttori internazionali di olio. Allo stesso modo in cui l'India nel XVIII secolo, produttrice mondiale di cotone e di filati, era costretta a comprare tessuti finiti dagli inglesi.
Non c'è slogan che tenga: oggi, o noi sferriamo una controffensiva di marketing territoriale su questo tema o saremo dstinati a perdere la guerra dell'olio. Ma prima dobbiamo cacciare a pedate il nemico commerciale da casa nostra. E l'unica strategia valida è quella di sostituirci a lui pub per pub, trattoria per trattoria, ristorante per ristorante. Poi dobbiamo espugnare la grande distribuzione, magari con un patto territoriale fra le province pugliesi.Se ce ne restiamo con le mani in mano saremo dannati a soccombere al colonialismo fratricida che opprime i nostri agricoltori. E allora
sulla nostra agricoltura avvilita avranno la meglio i miseri 5 mila euri a ettaro che ci corrisponderanno i signori del pannello fotovoltaico.

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