sabato 26 ottobre 2019

Il belvedere era una bruna foresta

Il belvedere era una bruna foresta


A cura del prof. Aldo De Bernart
Così la chiama, nel 1789, lo svizzero Carlo Ulisse De Salis, signore di Marschlins, nelle sue note di viaggio dal titolo Nel Regno di Napoli, alludendo al famoso Bosco Belvedere, disteso nei Comuni di Scorrano, Spongano, Muro, Ortelle, Castiglione, Miggiano, Pog-giardo, Vaste, Torrepaduli, Supersano, Montesano, Surano, Sanarica, Botrugno, San Cassiano e Nociglia.
Immenso latifondo boschivo, che al suo proprietario, il principe Gallone di Tricase, assicurava la pingue rendita di L. 42.500 e a tutti i Comuni confinanti gli usi civici. Smembrato, nel 1851, e suddiviso fra i Comuni interessati, a Supersano, dopo Scorrano e Nociglia, toccò la quota maggiore e forse la più bella, non solo per impianto e varietà di piante, ma anche per i pascoli eccellenti. «Nei pascoli sopra queste alture – scrisse il De Salis – e nella foresta di Supersano, sono allevate due razze equine appartenenti al Marchese di Martina e al Duca di Cutrofiano, le quali forniscono buonissimi cavalli da sella e da tiro. Vi sono anche degli armenti, ed assaggiai qui una nuova qualità di formaggio fatto di latte di capra, che è davvero eccellente». Famosa, un tempo, per le sue diciotto masserie, disseminate per l’intero feudo, Supersano deteneva la palma di tipici prodotti caseari, in concorrenza con quelli dell’Arneo di Nardo, mentre spiccava per la selvaggina abbondante che stanziava nel suo immenso bosco e che richiamava cacciatori da ogni parte del Salento, che pernottavano, a volte, nelle masserie, e, i nobili, nel Casino della Varna, ancora oggi esistente, in agro di Torrepaduli; è questo uno stupendo casino di caccia di impianto seicentesco, la cui mole si staglia in una brughiera odorosa di timo, solcata da un’antica carrareccia scavata nella macchia pietrosa. Situato nel cuore di Bosco Belvedere di Torrepaduli, il Casino fu, appunto, luogo d’incontro per le battute di caccia e per i conviti che le allietavano. Dimora un tempo veramente principesca, se ancora oggi conserva, malgrado i guasti, lo smalto dell’antico splendore, il Casino della Varna, che non guarda più le antiche querce del suo bosco che correvano fino a Supersano, rimane oggi l’unico testimone muto dei fasti e della bellezza selvaggia del Bosco Belvedere. Quel “bosco” che ha dato l’”aria sana” a Supersano e che ancora, nei suoi avanzi, richiama turisti sulla più bella terra del Salento, così come un tempo richiamava gli scienziati. Scrisse, infatti, il De Salis: «Supersano è un piccolo villaggio isolato, romanticamente situato tra boschi e colline, che ha servito sinora da ritiro al mio intelligente compagno». L’«intelligente compagno», al quale allude il De Salis, è il Dott. Pasquale Manni (1761-1841), da San Cesario di Lecce, fisico ed entomologo di chiara fama, che nel Bosco Belvedere di Supersano aveva raccolto vari insetti, passati poi al famoso Domenico Cirillo, che li aveva catalogati nel suo lavoro Specimen Entomologiae Napolitanae. Il Dott. Manni – scrive ancora il De Salis – «mi mostrò anche della cenere vulcanica da lui raccolta a Supersano nel 1784, dove cadde dello spessore di una mezza linea; e siccome è noto che in quell’anno lo Stromboli eruttò violentemente, niente di più facile che il vento ne abbia sospinte le ceneri fin qui. E siccome la distanza in linea retta è di 160 miglia italiane, sarebbe questa una prova indiscutibile, come gli antichi descrittori delle eruzioni dell’Etna e del Vesuvio non raccontassero fiabe, allorché dicevano di ceneri trasportate sino a 200 e 300 miglia, durante le forti eruzioni di questi vulcani». Con questa annotazione sui vulcani termina la visita del De Salis a Supersano, e nel lasciare il “piccolo villaggio”, crediamo che in quel lontano pomeriggio del 1789 abbia spinto lo sguardo, ancora una volta, sul verde cupo della “foresta”, senza dubbio una delle cose più belle che l’illustre viaggiatore d’Oltralpe abbia visto nel Basso Salento. L’Arditi, che nel 1851 aveva conosciuto in tutta la sua vastità e bellezza il Bosco Belvedere, perché ne aveva tracciato la mappa e proceduto alla divisione della terra tra il principe di Tricase e i Comuni interessati, nel 1879 scriveva: «Era questo forse nella provincia il bosco più vasto e vario per essenze arboree, ma oramai non rimangono più di arbustato e di ceduo, se non poche moggia a nord-ovest verso Supersano».
Quelle “poche moggia” che nel 1882, a distanza di 84 anni dalla visita del De Salis, il De Giorgi, visitando Supersano, vide: «E verso l’orizzonte a sinistra si profilano gli ombrelli dei pini d’Italia, che sollevan le loro chiome pittoresche sulla bruna massa delle querce di Belvedere». La “bruna massa” di querce ora non c’è più!

venerdì 25 ottobre 2019

Il Paesaggio Rurale non può essere affidato al libero mercato ma ad un Ente Pubblico che produca esternalità ambientali e cibo per tutta la comunità.



Gli organismi viventi nascono, di norma, in un ambiente già dato. Ambiente nel quale devono semplicemente trovare l’adattamento ottimale. Ma gli stessi organismi, nel corso del tempo, interagiscono con l’ambiente che propone istante dopo istante, delle perturbazioni che determinano nell’organismo una trasformazione ed un adattamento. E questo adattamento agisce a sua volta sull’ambiente che a sua volta di trasforma. Tutto questo fa dire che gli organismi, istante dopo istante, imparano a sviluppare una strategia di sopravvivenza inedita.
Il Mondo cambia e gli organismi viventi cambiano, cambiando il Mondo attorno a sé, e in alcuni casi rendendolo migliore anche per gli altri.
Un esempio è il castoro. Il castoro costruisce la propria diga e così facendo modifica l’habitat che lo circonda, creando le condizioni che consentono ad altre specie di vivere. Nel linguaggio tecnico diciamo che il castoro è un costruttore di nicchie.
Nella condizione attuale del Salento leccese, potremmo sostenere che i proprietari del Paesaggio Rurale del Salento leccese dovrebbero essere come il castoro. Dovrebbero costruire nicchie.
Se fino ad oggi i proprietari del Paesaggio Rurale del Salento leccese erano visti come complemento utile ma non necessario, leggerlo attraverso la metafora del castoro permette di comprendere la sua capacità generativa per l’intero ambiente che ci circonda.
Dal Settecento a oggi, ogni qual volta si è realizzata una rivoluzione industriale questa ha determinato il passaggio di lavoratori e di coloro che operavano in un certo settore ad un altro settore. La prima rivoluzione industriale ha spinto alla fuoriuscita di forza lavoro dall’agricoltura alle fabbriche. Il sovrappiù generato dalla rivoluzione industriale è andato così a creare il secondario, ossia il settore industriale. La seconda rivoluzione industriale, agli inizi del Novecento, ha invece creato il settore dei servizi, il terziario. Oggi viviamo nel tempo di una nuova rivoluzione industriale e dobbiamo chiederci dove finirà il sovrappiù sia di lavoro sia di produttività che le nuove tecnologie del digitale e dell’intelligenza artificiale stanno per determinare.
Dobbiamo chiederci dove andremo ad allocare questo sovrappiù di forza lavoro e di produttività.
C’è chi avanza una prospettiva di neoconsumismo: si dovrebbe spingere affinché questo sovrappiù diventi un volano per la domanda pagante, con lo svantaggio di deumanizzare la società. Ci basta? Non credo proprio. C’è infatti un’altra prospettiva che fa entrare in gioco il Paesaggio Rurale, pensato come luogo che genera valore sociale nella forma di beni ambientali e del cibo.
Proprio perché le nuove tecnologie consentono un avanzamento rispetto ai bisogni elementari, dobbiamo usare questi avanzamenti per aumentare la fruibilità di beni ambientali e del bene cibo.
Beni di cui c’è un bisogno estremo. Ma per far questo torniamo al punto di partenza: ci vuole un soggetto capace di innovazione ambientale ed alimentare e questo soggetto possono essere i proprietari del Paesaggio Rurale del Salento leccese?
La mia risposta non può essere che negativa.
Gli imprenditori agricoli iscritti alla camera di Commercio di Lecce sono circa seimila e solo mille di questi sono vere e proprie aziende che producono per il mercato.
L’azione di questa Aziende agricole incide sul 20 o al massimo 30 per cento dei 200mila ettari della Provincia di Lecce quindi su 40mila o al massimo 60 mila ettari. Ed i restanti 140mila ettari?
Come sappiamo tutti sono abbandonati perché i proprietari hanno un’età che sfiora gli 80 anni oltre che per la dimensione della proprietà che per il 60% non raggiunge l’ettaro e che nella stragrande maggioranza non supera i due ettari e mezzo.
C’è chi afferma che la strada per questi ultimi sarebbe la cooperazione. Francamente non credo che persone che sfiorano gli ottant’anni abbiano tra le loro priorità quelle di costituire cooperative agricole.
Allora bisogna pensare in prospettiva. E soprattutto dobbiamo cominciare a immaginare un Paesaggio Rurale che dia prosperità.  
La prosperità deve essere inclusiva, non escludere. E proprio le sfide della “Prosperità inclusiva” aprono quella dei beni comuni, che comprende i digital commons, le piattaforme, le infrastrutture e le reti.
E se cominciassimo a pensare il Paesaggio Rurale del Salento leccese nella sua qualità di bene comune? Ecco vi propongo di farlo, facciamo questo gioco, ovvero pensiamo per un istante che il nostro Paesaggio Rurale non è più proprietà di alcuni privati ma diventa un bene comune ovvero proprietà della Comunità. E’ chiaro che subito vengono fuori delle domande.
Quale tipo di governance vogliamo dare a questi nuovi beni comuni?
A tal riguardo, voglio fare riferimento alla Commissione sulla Giustizia Economica ha diffuso un discussion paper titolato The Digital Commonwealth. È un documento significativo, ma anche rivelatore.
Rivela che tutti avvertiamo l’esigenza di una governance per i digital commons, ma su quale debba essere il modello di governance per gestire i digital commons c’è ancora molta incertezza.
La mia proposta è che, su questo fronte, proprio i cittadini del Salento leccese e le loro associazioni dovrebbero buttarsi a capofitto, occupandosi della definizione di questa governance.
Un’altra area di costruzione di nicchia riguarda le intelligenze artificiali. L’intelligenza artificiale, oggi, o è sviluppata in una modalità market driven o in una modalità state driven: o è guidata dalla logica del profitto o da una logica statale (il modello cinese, per intenderci).
Per quanto riguarda il Paesaggio rurale secondo me la logica del profitto che è stata applicata in tutti questi decenni non ha funzionato. Basta fare una passeggiata nel nostro territorio per accorgercene.
Ieri ho avuto uno scambio di opinioni su questo che vorrei riportare qui di seguito:

Antonio Bruno:
Dopo stasera (dopo l’esposizione della ricerca del collega Donato Ratano presso Masseria Stali) sono convinto ancora di più che il neoliberismo economico non può essere applicato al Paesaggio Agrario

Piero Triggiani:
Anche tu non puoi essere libero di girare con quella barba e quei baffi.
Sembri uno del vecchio testamento.
Non puoi essere neo liberale.
Non puoi essere dei miei.

Antonio Bruno:
Non sia mai che io approvi una cultura che esclude, che si fonda sugli standard delle Aziende. Io parto dal presupposto che IL CIBO E' UN DIRITTO.

Piero Triggiani:
 Esclude?
CREA
Si un diritto illimitato.

Antonio Bruno:
Guarda io penso che la squadra più importante è quella che perde. E lo sai perché? Perché se una squadra non perde come fa un'altra squadra a vincere?

Piero Triggiani:
Antonio Bruno tifoso del Lecce capisco.
Domani voglio un punto dalla tua squadra

Alessandro Panico:
Finalmente! Sono pienamente d'accordo!

Antonio Bruno:
Il Neoliberismo ha già prodotto come risultato l'abbandono dei campi che sono nella maggior parte incolti o, nella migliore delle ipotesi il Paesaggio è caratterizzato dall'incuria e dal pressapochismo. Le proposte che ho ascoltato non mi convincono. È da decenni che si attuano e il risultato è quello che abbiamo tutti sotto gli occhi.
Mille persone che fanno gli Imprenditori Agricoli in Provincia di Lecce che invece è popolata da poco più di 800mila persone. Ma anche se fossero i 6mila iscritti alla Camera di Commercio, sarebbero sempre una piccolissima, infinitesima e insignificante parte della popolazione della Provincia. Se li mettessimo tutti insieme sarebbero poco meno degli abitanti del Comune di Alliste.
Come fanno 6mila persone a gestire 180mila ettari?

Donato Caroppo:
Tutti vogliono vendere e nessuno produce

Antonio Bruno:
Giusto Donato Caroppo, questo è il problema della concorrenza e della rivalità che è propria del liberismo economico

Donato Caroppo:
Preferisco i mille che i Benetton

Antonio Bruno:
Anch'io preferisco i mille. Ma i mille non sono riusciti a coltivare tutti quegli ettari di terreno abbandonato. I mille non sono riusciti a fare in modo di avere un Paesaggio non trascurato. Hanno curato gli ettari di loro proprietà. Quanti? Un terzo del totale. E i due terzi? Quelli fatti da tanti pezzettini microscopici? Per quelli tutti di proprietà di vecchietti di 80 anni non hanno potuto fare nulla.

Donato Caroppo:
Sono pagati per non produrre

Antonio Bruno:
Caro Donato Caroppo lo sappiamo. Quindi lo Stato comunque ha una spesa. Pensa che la spesa dell'Agricoltura è quella più consistente dell'Unione Europea. Ecco perché è bene che ci siano tecnici e salariati pagati dalla Collettività, da tutti noi, che si prendono cura del paesaggio agrario producendo cibo che sarà dato in cambio ai cittadini.
In questo modo si dà lavoro pagato a norma del contratto collettivo e nello stesso tempo si ottiene un Paesaggio Agrario ben curato e sano oltre che cibo italiano da dare agli italiani.
Ma per fare tutto questo il CIBO DEVE ESSERE UN DIRITTO PER TUTTI E NON UN BENE ECONOMICO SUGLI SCAFFALI DELLA GRANDE DISTRIBUZIONE ORGANIZZATA CHE PAGA A PREZZI STRACCIATI IL CIBO AGLI AGRICOLTORI. Per questo tutti vogliono vendere e nessuno vuole produrre.

Sandro Montagna:
Una su mille la dici giusta....perche' il resto?

Antonio Bruno:
Sandro Montagna secondo me il Neoliberismo economico NON E'UMANO perché esclude.

Sandro Montagna:
Antonio Bruno stai parlando con un Sovranista che non compra dai Supermercati

Angelo Perniola:
Non deve essere applicato a nulla(riferendosi al neoliberismo economico). Male supremo

Domande cruciali, che attendono risposte.
Attendono risposte perché hanno oggi bisogno costitutivo di un’etica. Ma di un’etica nuova.
La mia tesi è che non è possibile affidarsi al mercato per il bene comune “Paesaggio Rurale del Salento leccese”.

Ci vuole un castoro Ente Pubblico che produca esternalità ambientali, culturali, turistiche e cibo per tutta la comunità.
L’immagine del castoro rende bene l’idea del passo che dovremmo fare: il castoro crea la diga, la diga crea un ecosistema e in quell’ecosistema vivono specie che prima non vivevano.
Il castoro produce esternalità positive a favore della biodiversità. Senza nulla togliere ai compiti “tradizionali”, che devono continuare, oggi il mondo dell’Agricoltura del Salento leccese non è in grado di mettere in atto un agire per ottenere il perfezionamento o l’ottimizzazione di ciò che ha fatto sinora. Se ci limitiamo a razionalizzare l’esistente crolla l’innovazione sociale.


domenica 13 ottobre 2019

Serve un piano nazionale a tutela dei paesaggi storici redatto dai tecnici agricoli insieme agli archeologi


Serve un piano nazionale a tutela dei paesaggi storici redatto dai tecnici agricoli insieme agli archeologi

Con tutto il rispetto per Salvatore Settis autorevole autore dell’articolo apparso oggi sul Sole 24 ore nel quale lo stesso afferma che a occuparsi di Paesaggio Rurale Storico debba essere la Direzione generale del Ministero dei Beni Culturali  (ora in capo a Federica Galloni Direttore Generale per le Arti, l'Architettura e il Paesaggio) la Soprintendenza locale (tenuta da Maria Piccarreta), la Regione e i Comuni e che questi ultimi debbano redigere un piano nazionale a tutela dei paesaggi storici, io ritengo che tale condizione sia sicuramente necessaria ma, allo stesso tempo, gravemente insufficiente.
Che tutte queste istituzioni debbano affrontare l’emergenza pensando al futuro del paesaggio storico del Salento con piena cognizione del suo passato e che a tutto ciò debba contribuire l’Università del Salento con sede a Lecce, dove operano archeologi di grande competenza ed esperienza su questi temi sembra davvero una impostazione che non prevede che il Paesaggio Rurale oltre che la sua funzione storica debba essere fornitore di cibo per le persone.
Se così prevede la visione del prof. Salvatore Settis certamente allo stesso tempo avrà previsto l’esproprio di quel territorio per consentire allo Stato la sua gestione che sia finalizzata esclusivamente alla tutela del paesaggio storico a spese dell’intera collettività.
Forse l’Archeologo Salvatore Settis non è a conoscenza che sempre l’Università del Salento con sede a Lecce ha istituito un Corso di Laurea in Agraria ed è solo per questo che non pensa che possa essere di qualche utilità alla redazione di un piano che oltre alla conservazione e alla tutela e quindi alla sostenibilità culturale, possa contribuire al tentativo di definire una sostenibilità economica per i proprietari di quel paesaggio.
Il Paesaggio Storico del Salento leccese è certamente un Bene Culturale che può essere conservato e valorizzato solo come tale ricorrendo all’esproprio e con l’istituzione di un Parco nazionale gestito interamente dallo Stato con le conseguenti spese a totale carico della collettività.
Oppure insieme con i proprietari di questo territorio si potrebbe mettere in campo la progettazione partecipata per far si che tale tutela possa essere compatibile con la produzione agricola e quindi con la sostenibilità economica di chi si occupa quotidianamente di quel paesaggio e quindi dei proprietari.
Per fare questo oltre ai proprietari ci vogliono il corso di Laurea in Agraria dell’Università del Salento, insieme ai Periti Agrari, gli Agrotecnici e i Dottori Agronomi del territorio perché le competenze in tema di produzione agricole non mi sembra che siano degli archeologi, se sbaglio il prof Settis me lo farà presente ed io farò ammenda di quanto scritto.

Antonio Bruno Ferro

L’Articolo del prof Settis sul Sole 24 ore del 13 ottobre 2019
Flagello Xylella
Serve un piano nazionale a tutela dei paesaggi storici
Salvatore Settis
«Un bel paesaggio
una volta distrutto
non torna più, e
se durante la
guerra c’erano i campi di sterminio,
adesso siamo arrivati allo sterminio
dei campi: fatti che, apparentemente
distanti fra loro, dipendono
tuttavia dalla stessa mentalità». Sono
parole profetiche di un grande
poeta, Andrea Zanzotto, in un’intervista
del ‑‑. Nessun angolo
d’Italia lo testimonia oggi meglio
del Salento, dove l’epidemia da xylella,
avanzando implacabile come
una peste medievale, sta distruggendo
il millenario paesaggio di
ulivi con le loro chiome dagli indimenticabili
riflessi d’argento. Zanzotto,
pensando al suo Veneto invaso
da asfalto e capannoni, voleva
suggerire con le sue parole durissime
che la violenza sul paesaggio è
il rovescio e l’identico della guerra,
della violenza dell’uomo sull’uomo:
si consuma a spese dei paesaggi
storici e delle generazioni future.
Il batterio xylella fastidiosa, che sta
uccidendo qualcosa come nove milioni
di ulivi, non è certo opera dell’uomo,
ma è nostra colpa se non si
sono messe in atto per tempo appropriate
strategie di contenimento
di questa che resta «la peggior
emergenza fitosanitaria del mondo
» (così l’accademico francese Joseph-
Marie Bové). E sarà nostra
colpa se l’epidemia si allargherà
progressivamente ad altre aree della
Puglia e d’Italia, e se l’armonioso
paesaggio del Salento verrà per
sempre annientato. È qui che la visione
profetica di Zanzotto colpisce
più a fondo. Quale che sia l’origine
e la natura delle devastazioni paesaggistiche,
infatti, resta sempre
vero quel ch’egli disse : le modificazioni
violente del paesaggio generano
«l’assenza stessa di orizzonti,
il colore dello spaesamento, lo
smarrimento interiore che assale
chi tenti di guardare oltre il fragile
paravento del paesaggio» per ritrovarvi
i colori dell’anima, la forza
della memoria, l’energia per sentirsi
se stessi e per costruire il futuro.
Di xylella, si dirà, si parla anche
troppo, fra opposte teorie che portano
più alla paralisi delle istituzioni
che a un’efficace lotta al batterio.
Ma se ne parla, ed è questo oggi il
maggior rischio, secondo ottiche
economiche o agronomiche, accantonando
quasi sempre un tema
egualmente centrale: la salvaguardia
del paesaggio storico. Una volta
estirpati gli ulivi uccisi dal batterio,
che cosa accadrà di quei suoli preziosi,
dove la coltivazione dell’ulivo
ha quattromila anni di età? Già si
vedono segnali inquietanti: qua e là
campi di ulivi lasciano il posto a distese
di pannelli solari; altri, specialmente
in aree di piccola proprietà,
vengono abbandonati, e le
aziende agricole sono costrette a
vendere le loro attrezzature (per
esempio gli scuotitori di olive) ad
altri Paesi produttori, dalla Grecia
al Marocco; altri ancora ospitano,
per sopravvivere, culture o attività
estranee alla tradizione e alla storia
dei luoghi. Ci sono, è vero, altre
specie olivicole che sono, a quel che
pare, immuni all’infezione da xylella,
e qua e là si progetta di impiantarle
in luogo degli ulivi defunti:
ma quanto ci vorrà per ricostituire
la forma del paesaggio storico? E
quali specie olivicole sono davvero
compatibili con il ripristino di un
paesaggio degno del Salento? E
quanto ai tronchi d’albero espiantati,
non sarebbe il caso di prevederne
le modalità di riuso e una filiera
artigianale per utilizzarne il
legno pregiato? Per giungere a risultati
visibili e plausibili sotto il
profilo dei paesaggi storici, non ci
vorrebbe un piano complessivo,
guidato dalle istituzioni in sintonia
con le aziende agricole?
Situazione paradossale, in un
Paese che ha scolpito la tutela del
paesaggio tra i principi fondamentali
della propria Costituzione (art.
). E doppiamente paradossale in
Puglia, che con la Toscana è una
delle pochissime Regioni che hanno
adempiuto all’obbligo di redigere,
in sintonia con il Ministero dei
Beni Culturali, un dettagliato piano
paesaggistico (art.  del Codice
dei Beni Culturali e del Paesaggio).
Angela Barbanente, a lungo assessore
al Territorio della Puglia, è stata
anzi attiva anche sul piano nazionale,
e per questo fra i relatori
più in vista degli Stati generali del
Paesaggio (Roma ‑). Ma allora
come mai una dimensione essenziale
come quella del paesaggio
storico viene così spesso dimenticata,
anche quando si scatena un
flagello come la xylella?
Intanto piovono le domande di
espianto degli ulivi condannati o di
nuovi reimpianti, ma solo quelle
relative alle aree vincolate dovrebbero
passare attraverso chi ha il
compito di tutelare i paesaggi storici,
la locale Soprintendenza “Archeologia
Belle Arti Paesaggio”. Su
circa .‑‑ proprietari in tutto, circa
metà operano su aree vincolate,
ma a quel che pare solo un decimo
di queste (cioè il  % dell’insieme) si
è rivolto alla Soprintendenza. Anche
perché nel frattempo l’ex ministro
dell’Agricoltura, il leghista
Centinaio, aveva vanificato la procedura
liberalizzando gli espianti.
E come sempre accade chi richiama
le norme a tutela del paesaggio,
dalla Costituzione al Codice al Piano
paesaggistico regionale, viene
accusato sull’istante di volersi opporre
a un qualche malinteso “progresso”.
E i conflitti che ne nascono
contribuiscono a impedire un efficace
intervento sulle orrende ferite
che l’epidemia di xylella ha inferto
a uno dei paesaggi più caratteristici
d’Italia, anzi d’Europa.
Un intervento concertato delle
istituzioni, dalla Direzione generale
del Ministero (ora in capo a Federica
Galloni) alla Soprintendenza
locale (tenuta da Maria Piccarreta),
alla Regione, ai Comuni, dovrebbe
dunque concentrarsi, superando
contrasti e conflitti di competenza,
sulla creazione di un piano lungimirante,
che affronti l’emergenza
pensando al futuro del paesaggio
storico del Salento con piena cognizione
del suo passato. Una cognizione
a cui dovrebbe contribuire
l’Università di Lecce, dove operano
archeologi di grande competenza
ed esperienza su questi temi.
Anche perché, a meno che non si
adotti per tempo quella strategia di
contenimento dell’epidemia che
nel Salento non è stata purtroppo
tentata, il dilagare della xylella obbligherà
ad affrontare questa peste
del nostro tempo anche in altre
aree. In ogni caso, il Salento è e sarà
nei prossimi anni una (gigantesca)
cartina di tornasole di quel che le
istituzioni pubbliche e la buona volontà
dei cittadini vorranno o non
vorranno fare per salvaguardare i
paesaggi storici. Una tutela che,
non dimentichiamolo, in Italia non
è solo questione di gusti o di estetica.
È un problema di legalità, anzi
di legalità costituzionale.

Salvatore Settis è un archeologo e storico dell'arte italiano. Dal 1999 al 2010 è stato direttore della Scuola Normale Superiore di Pisa. Wikipedia
Nascita: 11 giugno 1941 (età 78 anni), Rosarno