martedì 30 gennaio 2024

Foje reste: una sinfonia di erbe selvatiche nella pentola

 

Foje reste: una sinfonia di erbe selvatiche nella pentola

Ah, le foje reste, quella miscela di erbe selvatiche che fa danzare le papille gustative e trasforma la cucina in un'esperienza culinaria senza eguali. È tempo di raccolta, ed è il momento di imparare a riconoscere e apprezzare questa tradizione gastronomica salentina che affonda le sue radici nel passato, portando sulle nostre tavole una sinfonia di sapori e profumi.

La danza delle erbe selvatiche

Foje reste, o meglio "foja 'misca", è la minestra che incarna l'arte dell'intreccio culinario nel Salento. Più di dieci specie vegetali spontanee si incontrano armoniosamente in questa miscela, creando un caleidoscopio di sapori che sfida qualsiasi ricetta di verdure convenzionale. Le erbe, selvagge e non conformi ai gusti dominanti, offrono un viaggio attraverso le differenze e le leccornie che la terra può ancora generosamente regalare.

La geografia culinaria salentina

Foje reste, nota anche come "Fògghe de fure" a Fasano, "Fogghie ‘mbiscàte" a Brindisi, "Misculànza" a Taranto, "Foje maddhate" a Maglie, e "Jèrave scerse" a Ceglie Messapica, è una vera espressione di diversità culinaria che si traduce in nomi e composizioni variabili lungo la geografia salentina.

La danza delle stagioni

Il ritmo della raccolta segue il battito della natura. Le erbe vengono raccolte prima della fioritura, quando le foglie (foje reste) sono al massimo della loro vitalità. La regola è chiara, come recita il proverbio salentino: "quannu ‘rriva a ‘nnunziata ogni erva sa ‘licenziata." La Madonna Annunziata, celebrata il 25 marzo, segna simbolicamente la fine della raccolta, rispettando il ciclo naturale delle piante selvatiche.

La ricchezza botanica della pentola

Le erbe che danzano nella foja 'misca appartengono principalmente alle famiglie delle Compositae e delle Umbelliferae. La Compositae contribuisce con sostanza e sapore, mentre l'Umbelliferae aggiunge un tocco di aroma e fragranza. La raccolta richiede conoscenza e attenzione, soprattutto ora che l'uso dei pesticidi rende l'arte della raccolta più rischiosa.

La partitura delle Foje reste

Ma andiamo oltre l'elenco di piante selvatiche e immergiamoci nella partitura delle Foje reste. La cicoria selvatica, con i suoi capolini azzurri, è la prima ballerina di questa sinfonia culinaria. Accanto a lei, lo "zangune", piccolo e spigoloso, simbolo di povertà e resilienza. La "cànnulu vacante", con le sue ombrelle bianche, porta dolcezza alla melodia, mentre lo "sprùscinu", con il suo latice, aggiunge una nota aromaticamente amara.

Il concerto aromatico

Il concerto continua con il "carcarìscinu", profumato e saporito, e la "pistinaca resta", che conferisce un aroma caratteristico alla pietanza. Il "marìula" aggiunge dolcezza, mentre il "finucchiu restu" offre il suo inconfondibile profumo. Il "culacchiu de porcu" e il "‘lapazzu" portano carnosità e sapore dolce alla tavolozza gustativa.

La poesia culinaria del Salento

Preparare la minestra di foje reste richiede pazienza nella mondatura e pulizia delle verdure, ma la ricompensa è un piatto semplice e autentico. Le erbe, pulite e sbollentate, si uniscono a un soffritto di aglio e cipolla, creando un'armonia di sapori che deliziano il palato. Aggiungere formaggio grattugiato o carne di maiale crea variazioni gustose di questa sinfonia gastronomica.

Il rituale della raccolta

La raccolta delle Foje reste non è solo un atto culinario, ma un rituale che richiede la conoscenza diretta della natura. La tradizione passa attraverso il rapporto diretto con coloro che mantengono viva questa pratica. Un contributo scientifico e culturale arriva dalla lettura del mio blog un tesoro di conoscenze sulla flora culinaria salentina.

Conclusioni aromatiche

In conclusione, immergersi nella tradizione delle Foje reste è come partecipare a un concerto di sapori e profumi che esaltano la diversità culinaria del Salento. Le erbe selvatiche diventano note in una partitura unica, dove ogni pianta contribuisce con la sua melodia aromatica. Quindi, armiamoci di cestino e coltello, e avventuriamoci nella danza delle Foje reste, scoprendo il gusto autentico della terra e preservando una tradizione culinaria che merita di essere celebrata.

domenica 28 gennaio 2024

"Bietola: la Diva Irresistibile della Puglia, tra Colture Coltivate e Selvatiche"

 

"Bietola: la Diva Irresistibile della Puglia, tra Colture Coltivate e Selvatiche"

Se pensavi che la vita delle piante fosse noiosa, preparati a cambiare idea! Oggi ci immergeremo nel fantastico mondo della bietola, una creatura così versatile che ha più nomi di un supereroe con mille identità segrete. Dalla bietola da costa alla bieta, passando per la bietola marittima e la gneta cresta, scopriremo il lato glamour di questa star della cucina pugliese.

In Puglia, la bietola è più popolare di una rockstar in tour. Tra le sue varietà locali, la 'Bietola barese' e la 'Bietola di Fasano' sono pronte a farci dimenticare broccoli e cavoli con la loro presenza scenica. Ma non crediate che la bietola si limiti a sfilare sulle tavole: questa regina dell'orto è anche resistente alla salsedine, sfoggiando foglie quasi appressate al suolo con uno stile che farebbe invidia a qualsiasi modello di passerella.

Quando si tratta di processo produttivo, dimenticatevi le macchine sofisticate. La bietola viene raccolta a mano, con tanto amore e un coltello come accessorio alla moda. Poi, vengono selezionate con cura le piante commestibili, che subiscono una beauty routine di mondanità prima di essere presentate al pubblico. Addio residui terrosi, benvenuta freschezza!

L'elenco dei nomi alternativi della bietola è più lungo di un romanzo di Tolstoj, ma chi se ne frega? La bietola di campagna o selvatica è pronta a conquistare le vostre papille gustative con le sue innumerevoli varianti linguistiche. La sua area di origine è l'intera regione pugliese, ma chi si ferma in una regione quando si può conquistare il mondo?

La bietola, come qualsiasi diva che si rispetti, ha anche il suo periodo di produzione. Da ottobre ad aprile è il suo momento migliore, ma, ovviamente, con una pausa estiva perché, diciamocelo, persino la bietola ha bisogno di un po' di vacanza.

Quanto alla sua carriera commerciale, la bietola non si fa mancare nulla. Dalla raccolta da terrazzani appassionati ai menu degli agriturismi, passando per le mas serie didattiche, la bietola è ovunque. Anche il Progetto regionale “Biodiversità delle Specie Orticole della Puglia (BiodiverSO)” si è innamorato di lei, recuperando informazioni di etnobotanica e caratterizzazioni genetiche. Una vera celebrità!

Infine, la storia e la tradizione della bietola risalgono addirittura all'epoca romana, quando Plinio il Vecchio faceva il critico culinario della sua epoca. Oggi, in alcune località, c'è ancora chi raccoglie le foglie giovani con un gusto simile allo spinacio, mantenendo viva la tradizione. Ma non preoccupatevi, la bietola è pronta a rinnovarsi e conquistare anche le cucine del futuro.

In conclusione, la bietola è più di una semplice verdura; è una diva della cucina pugliese pronta a brillare in ogni piatto. Quindi, la prossima volta che vi imbatterete in una bietola, ricordatevi di inchinarvi alla regina delle verdure!

Bibliografia

Atlante dei Prodotti Agroalimentari Tradizionali di Puglia 2022

a cura di Adriano Didonna, Maria Antonietta Colonna, Massimiliano Renna, Angelo Signore, Pietro Santamaria

Il Cavolo Riccio: Tra Lupo, Capra e Iodio Biofortificato

 

Il Cavolo Riccio: Tra Lupo, Capra e Iodio Biofortificato

In un mondo dove la sapienza popolare è racchiusa in modi di dire, c'è un detto che risuona con particolare forza nelle campagne pugliesi: "salvare capra e cavoli". Ma come mai il cavolo ha bisogno di essere salvato? E da cosa, si potrebbe chiedere? La risposta risiede in una storia antica quanto il buon senso, dove un contadino, armato solo della sua astuzia, deve traghettare un lupo affamato, una capra speranzosa e un cavolo coltivato con amore attraverso un fiume. Una prova di abilità degna di un programma televisivo a quiz, dove il contadino, evitando denti e crocifissi, riesce a salvare capra e cavoli, lasciando il lupo a chiedersi se sarebbe stato meglio aderire alla dieta vegana.

Ma il cavolo, in tutte le sue sfumature e varietà, non è solo oggetto di prove d'intelligenza agricola. Gli scienziati dell'ISPA-CNR di Bari e del DISAAT-UNIBA hanno dimostrato che è anche un mezzo straordinario per veicolare iodio nelle diete umane. Un'alternativa alla noiosa profilassi iodica con sale, il cavolo riccio biofortificato diventa il Superman del mondo orticolo, salvando le ghiandole tiroidee in distress.

La tradizione, però, si fa avanti, portando con sé la storia affascinante di Adelfia, un comune nato dall'unione di Canneto di Bari e Montrone, dove il cavolo riccio è conosciuto come "la pianta delle due feste". Una festa che inizia il 10 novembre, giorno di San Trifone, e termina con la Festa della Madonna della Stella di Canneto, anche nota come il lunedì dell'Angelo, quando si prepara il famoso "brodo di Pasqua". Chi avrebbe mai immaginato che un cavolo potesse celebrare feste con così tanta dedizione?

In cucina, il cavolo riccio si è fatto strada attraverso i decenni, trasformandosi da cibo dei contadini a protagonista di ricette gourmet. Ma attenzione, non stiamo parlando di un cavolo qualsiasi! Il cavolo riccio, noto anche come "cole rizze" (dove la "e" è muta nel dialetto locale), è una brassicacea senza testa. A differenza dei suoi cugini più noti come il cavolo verza e il cavolo cappuccio, il cavolo riccio non forma una "testa" o un "cappuccio". È un cavolo da foglie, un libero pensatore nell'universo brassicaceo.

Gli anziani contadini sanno come apprezzare il cavolo riccio "asseduto", stufato dopo una giornata nei campi o cucinato con la pasta "alla San Giuannine". E che dire della ricetta "Gnocchetti e cavoli ricci" che abbraccia le terre di Carbonara e Gallipoli? Un piatto che dimostra come il cavolo riesca a riunire anche le regioni più distanti attorno alla stessa tavola.

Per gli amanti della cucina d'autore, lo chef Natale Donghia, in occasione della sagra gastronomica "Bacco delle Gnostre", ha reinterpretato il cavolo riccio con una ricetta degna di un tripudio gastronomico: "Torchietti al cavolo riccio". Un piatto che unisce la tradizione contadina con la creatività culinaria, dimostrando che il cavolo riccio può essere protagonista anche nei menù più sofisticati.

Insomma, il cavolo riccio si fa strada tra le storie di lupo, capra, iodio e saporite ricette, dimostrando che in cucina e nella vita, a volte, bisogna essere abili quanto un contadino sulle rive di un fiume con una barchetta che può portare solo una cosa alla volta. E così, tra modi di dire, sagre e chef stellati, il cavolo riccio continua a essere "la pianta delle due feste", portando allegria e gusto sulle tavole di tutti.

Bibliografia

Massimiliano Renna e Pietro Santamaria, DIECI PRODOTTI PER TE ortaggi della tradizione pugliese

ISBN 978-88-6629-076-6 Editore Università degli Studi di Bari Aldo Moro

giovedì 25 gennaio 2024

Intrha lu Brotu Nci Ole Sempre Lu Lacciu: Una Commedia Vegetale Salentina

 

Intrha lu Brotu Nci Ole Sempre Lu Lacciu: Una Commedia Vegetale Salentina

Se siete mai capitati nelle pittoresche campagne del Salento e avete sentito sussurrare parole mistiche come "Intrha lu Brotu Nci Ole Sempre Lu Lacciu," non temete, non siete caduti in un rituale segreto. Vi è stata solo svelata una delle grandi verità salentine: il lacciu, altrimenti noto come sedano, è il protagonista di un'epopea agricola che ha lasciato persino Ulisse senza parole.

La comunità di Torrepaduli, luogo in cui i fiumi di lacciu scorrono come il vino durante una festa, ha riscoperto una varietà di sedano che faceva già battere il cuore degli agricoltori nei primi decenni del secolo scorso. Solo pochi, come eremiti della terra, hanno custodito la fiamma del lacciu, adottando tecniche che sembrano scolpite nella pietra, tanto che la produzione sembrava essersi dileguata come una zanzara all'ombra.

L'Associazione Culturale "Tra le Porte" ha individuato un contadino (forse l'ultimo superstite) che custodisce i semi di questa antica varietà, anche se ha smesso di coltivare dal 2009. È scattata subito l'operazione di rivitalizzazione della semente, e ora le giovani piantine di 'Sedano di Torrepaduli' spuntano dai terreni come sosia vegetali di divi di Hollywood.

Ma questa non è solo un'impresa agricola: è una missione. L'Associazione sta cercando di ottenere una sorta di "certificazione/identificazione" per questa varietà, che vogliono chiamare "Lacciu de Turre." Immaginate la scena: un documento ufficiale per identificare una varietà di sedano, come se fosse il passaporto di una star del cinema.

Nell'Orto Botanico del DiSTeBA, nel frattempo, si stanno eseguendo esami morfometrici ai semi e alle giovani piantine, come se il lacciu fosse un'opera d'arte esposta in un museo.

Ma veniamo al dunque della questione: mangiare "lu lacciu" nel Salento. Mentre in altre parti d'Italia il sedano viene tagliato per un normale trito o gettato nel brodo, nel Salento il lacciu viene mangiato così com'è. Un'insalata croccante? No, grazie. Un panino con del formaggio? Meglio un bel gambo di lacciu. E quando l'estate imperversa, nulla batte il lacciu immerso nel vino: l'aperitivo da contadino chic.

Ma la vera star è la "Sagra te lu Lacciu" a Sanarica. Il 6 settembre, il paese si trasforma in un regno verde di lacci, un'esplosione di freschezza e colore. I turisti accorrono da tutte le direzioni, come falene attratte dalla luce di un frigorifero aperto durante una calda notte estiva.

Immaginatevi tra bancali di lacciu, il verde intenso che si mescola con la musica locale e l'atmosfera di festa. È un'esperienza che supera la realtà, un trip vegetale che nessun coltivatore di avocado potrebbe mai comprendere.

Quindi, cari lettori, quando la vita vi sembra insipida e priva di croccantezza, ricordatevi del lacciu salentino, che fa bene al corpo e all'anima, e che può trasformare anche la più banale delle insalate in una commedia vegetale di proporzioni epiche. Intrha lu Brotu Nci Ole Sempre Lu Lacciu!

mercoledì 24 gennaio 2024

"UNISALENTO Il Balletto Profumato delle Piantine Salentine: Un'Analisi Metabolica tra Aromi, Chemiotipi e Pungenti Aftertaste"

 

"UNISALENTO Il Balletto Profumato delle Piantine Salentine: Un'Analisi Metabolica tra Aromi, Chemiotipi e Pungenti Aftertaste"

Se avete mai desiderato conoscere il lato glamour del mondo vegetale, eccovi catapultati nel fantastico universo di Crithmum maritimum, meglio conosciuto come finocchio marino. Ma non stiamo parlando di un normale finocchio marino, bensì di un'esclusiva collezione salentina, dove ogni pianta è una star con la propria personalità aromatica.

In un lavoro di ricerca che sembra uscito da un mix tra un reality show botanico e una guida culinaria stellata, abbiamo imparato che queste piantine hanno molto da offrire al di là della loro immagine di semplici residenti della costa salentina.

Lo studio dell’UNISALENTO, condotto con la serietà̀ di un direttore d'orchestra impegnato nel dirigere il balletto profumato delle piantine, ha rivelato che queste creature verde-saline non sono solo carine da vedere ma sono anche dei veri prodigi metabolici.

Gli scienziati di UNISALENTO hanno iniziato a valutare l'efficienza della germinazione di queste semi, come se stessero organizzando un concorso di bellezza per il regno vegetale. E, sorpresa sorpresa, le piantine di finocchio marino hanno dimostrato di essere delle vere reginette, con un tasso di germinazione che sfida qualsiasi altra pianta da giardino. E questo senza alcuna dormienza, come se avessero appena fatto un pisolino controllato in condizioni di lusso.

Ma la vera chicca è emersa quando gli studiosi hanno esaminato le sostanze chimiche volatili (VOCs) che queste piantine scelgono di diffondere nell'aria. Un vero e proprio mix di glamour botanico! Non solo hanno dimostrato di avere un gusto impeccabile nella scelta dei loro composti volatili, ma hanno anche sfoggiato una varietà di aromi da far invidia a qualsiasi chef stellato.

Immaginatevi un trionfo di monoterpeni, sesquiterpeni, e fenilpropanoidi, con nomi come limonene, α-pinene, e p-cimene a farla da padrone. Sembra quasi di trovarsi di fronte a una degustazione di vini, ma al posto del vino, abbiamo aromatiche molecole botaniche danzanti.

La ricerca ha anche condotto gli studiosi attraverso un viaggio nelle diverse personalità di queste piantine. Hanno scoperto che non tutte le piantine di finocchio marino sono create uguali. Alcune sono più "dill" (intese?) di altre, con una particolare attitudine per il (dill)apiol. Hanno persino suddiviso le piantine in "chemiotipi", creando così la prima classifica di bellezza basata sul contenuto di (dill)apiol.

E che dire della scoperta di panaxynone nelle piantine di San Cataldo? Un tocco di esotismo che aggiunge un pizzico di avventura al nostro giardino botanico salentino.

Ma non è tutto glamour e bellezza. Queste piantine sono anche delle vere superstar nel mondo della salute. Con proprietà che vanno dalla citotossicità all'attività anti-infiammatoria, sembra che il finocchio marino sia pronto a conquistare il mondo delle erbe aromatiche.

Quindi, mentre le piantine di finocchio marino continuano il loro balletto profumato nel cuore del Salento, noi non possiamo fare altro che applaudire questo spettacolo botanico. E chissà, magari presto vedremo queste piantine esibirsi sulle tavole dei ristoranti più esclusivi o come protagoniste di una nuova linea di profumi firmati dalla natura salentina. Stay tuned!

Bibliografia

https://www.mdpi.com/2311-7524/10/1/81...

Diversity of Crithmum maritimum L. from Salento Coastal Area: A Suitable Species for Domestication

by Rita Accogli 1ORCID,Eliana Nutricati 1,*,Luigi De Bellis 1ORCID,Massimiliano Renna 2ORCID,Andrea Luvisi 1ORCID andCarmine Negro 1ORCID

1

Department of Biological and Environmental Science and Technologies (DiSTeBA), University of Salento, Via Prov. le Lecce-Monteroni, 73100 Lecce, Italy

2

Department of Soil, Plant and Food Sciences, University of Bari Aldo Moro, Via Amendola 165/A, 70126 Bari, Italy

*

Author to whom correspondence should be addressed.

Horticulturae 2024, 10(1), 81; https://doi.org/10.3390/horticulturae10010081

Submission received: 6 December 2023 / Revised: 9 January 2024 / Accepted: 12 January 2024 / Published: 14 January 2024

martedì 23 gennaio 2024

Sanguinazzu te Lecce: Una Delizia Salentina da "Sbancare" il Palato

 

Sanguinazzu te Lecce: Una Delizia Salentina da "Sbancare" il Palato

Se c'è una cosa che i leccesi custodiscono più gelosamente dei segreti delle loro nonne è il famoso "Sanguinazzu te Lecce". Questo piatto, con il suo nome che sembra un incantesimo di una vecchia strega salentina, è una delizia culinaria che coinvolge non solo il palato ma anche la storia e le leggende locali.

Il Sanguinazzu è così prezioso che i leccesi, secondo una antica leggenda, lo rivelarono ai brindisini solo in cambio di una delle colonne terminali della via Appia, e non si tratta di una barzelletta. Pare che, dopo che S. Oronzo ha liberato la città dalla peste nel 1656, il popolo leccese abbia fatto una sorta di baratto culinario con i vicini brindisini. Una colonna per un sanguinaccio - sembra un affare equo, non trovate?

Il dialetto salentino, con la sua ricchezza espressiva, ci svela il segreto etimologico del termine "sanguinaccio". Viene preparato con il sangue di maiale, quel liquido rosso che scorre nelle vene suine, e che viene raccolto con la stessa cura di un tesoro. Ma attenzione, non è un semplice atto di spargimento di sangue; è una vera e propria coreografia in cui il sangue viene energicamente mescolato con acqua calda, come se fosse la più esclusiva delle bevande.

Le spezie, le bucce di agrumi e i pezzetti di lardo, peritoneo e cervella di maiale si uniscono al sangue per creare una sinfonia di sapori. Le proporzioni degli ingredienti? Beh, questo è un segreto custodito meglio della ricetta della Coca-Cola. Ma sappiamo che il risultato finale è un connubio di proteine, grassi, sali minerali e vitamine, che fanno del Sanguinazzu non solo una delizia per il palato, ma anche un super cibo salentino.

Le budella dell'intestino crasso del maiale diventano il palcoscenico per questa creazione gastronomica. Sono capienti, resistenti e in grado di contenere l'esplosione di sapori che avviene al loro interno. Il tutto viene poi cotto in una caldaia, una sorta di pozione magica, dove il Sanguinazzu bolle dolcemente come un segreto che vuole essere svelato solo a chi lo merita.

Una volta che il Sanguinazzu ha completato la sua performance in caldaia, viene applaudito, raffreddato e conservato in frigorifero per qualche giorno. Ma non temete, non è finita qui. Prima di essere consumato, il Sanguinazzu deve affrontare una seconda fase di cottura. È come se questo piatto volesse essere sicuro di avere l'attenzione completa del commensale, una sorta di bis culinario sulla brace.

In conclusione, il Sanguinazzu te Lecce è più di un piatto. È una storia d'amore tra i leccesi e il loro cibo, una danza segreta tra ingredienti misteriosi e una tradizione culinaria che va oltre la semplice preparazione di un pasto. Così, se avete la fortuna di assaporare questo capolavoro salentino, ricordatevi che non state solo mangiando, state partecipando a una performance gastronomica unica nel suo genere. E se qualcuno vi chiede la ricetta, rispondete con un sorriso misterioso e dite loro che è un segreto che si può svelare solo dietro pagamento di una statua o di una colonna di pregiato cipollino d'Africa. Buon appetito e buona fortuna nel tentare di decifrare il mistero del Sanguinazzu!

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Bibliografia:

https://www.patpuglia.it/it/12/Sanguinaccio_leccese/2_38

Il Sopratavola Pugliese che è il Subbra taula salentino: Una Commedia Gastronomica tra Finocchi e Cicorie

 

 Il Sopratavola Pugliese che è il Subbra taula salentino: Una Commedia Gastronomica tra Finocchi e Cicorie


Una volta, quando le televisioni erano solo mobili decorativi e i social media erano solo uccelli molto sociali, gli uomini si ritrovavano intorno alle tavole. Ma non si trattava solo di mangiare, no! Era un'epoca in cui il concetto di "andare a letto affamato" era una frase senza senso e il sopratavola era più di una tradizione, era uno stile di vita.

Il sopratavola, o come lo chiamerebbe un filosofo pugliese, il "riapparecchiare perpetuo della tavola", è come una maratona gastronomica senza fine. È come se il pranzo fosse una partita di calcio e il sopratavola fosse il tempo supplementare che non vuoi mai finisca.

Ma cosa c'è di così speciale in questo sopratavola pugliese? Beh, secondo la ricerca nel progetto "Biodiversità delle Specie Orticole della Puglia", il sopratavola è l'antidoto perfetto per il "fumo del vino", che è l'effetto collaterale principale di un pranzo lungo. Quindi, cari amici, il sopratavola è la nostra salvezza, la nostra tuta anti-sbornia!

Vittore Fiore, poeta pugliese e filosofo della tavola, ci suggerisce di "piluccare un po' qua e un po' là" durante il sopratavola. Quindi, cari commensali, non siate timidi nel praticare la nobile arte del "piluccare". È come un'arte marziale gastronomica, una danza tra il finocchio e il ravanello!

A Bari, il sopratavola si presenta sotto forma di verdura cruda. Ma non pensate che sia solo una scusa per mangiare verdure! È un modo sofisticato di dire "Dopo il pranzo, mangiamo ancora, ma facciamo finta di non farlo". È come il finale di un film, dopo i titoli di coda c'è sempre una scena segreta, giusto?

Sada, nell'opera "La cucina pugliese in oltre 400 ricette", dedica un'intera sezione al sopratavola. E chi può biasimarlo? È come dedicare una sezione di un libro alla parte più divertente di un film, perché il sopratavola è la commedia dopo il dramma del pranzo!

Infine, Bruno ci ricorda che il sopratavola non è solo pugliese, ma ha anche radici in Spagna. Quindi, quando prendete un morso di finocchio, ricordate che state gustando un pezzo di storia gastronomica che ha attraversato i confini nazionali più rapidamente di una barzelletta ben confezionata!

In conclusione, il sopratavola è più di una tradizione; è la nostra scusa per continuare a mangiare, ridere e vivere felici. Quindi, riapparecchiate la tavola e preparatevi a piluccare, perché la commedia gastronomica del sopratavola continua, ed è più divertente di qualsiasi sitcom televisiva!

Bibliografia

Stare insieme a tavola. Storia e tradizione del sopratavola pugliese https://www.patpuglia.it/.../Stare_insieme_a_tavola.../64

lunedì 22 gennaio 2024

"Agricoltura Romana: Un Mix di Vino, Schiavi Manager e Innovazioni 'Quasi' Tecniche"

 

"Agricoltura Romana: Un Mix di Vino, Schiavi Manager e Innovazioni 'Quasi' Tecniche"

Nell'affascinante mondo dell'agricoltura romana, dove il vino scorreva come l'olio e gli schiavi facevano le veci dei moderni manager, si intrecciavano questioni squisitamente tecniche con riflessioni di carattere economico e sociale. L'agricoltura, attività umana primaria, subiva una sorta di make-over strutturale in base alle mutevoli tipologie di società e cultura dell'epoca.

In questo scenario, l'Italia passò da essere un retrobottega rispetto al mondo vicino orientale e greco a diventare il fulcro di un'economia "mondo". Sì, avete capito bene, l'Italia era il centro dell'universo, almeno secondo il II secolo a.C. Le trasformazioni profonde coinvolsero non solo la base produttiva ma anche i valori di fondo della vita civile, dando una svolta alla mentalità dell'epoca.

E che dire della monetarizzazione e mercantilizzazione? Erano i nuovi buzzword di quel periodo, che hanno inciso nel profondo del mondo romano delle grandi conquiste mediterranee. Produrre per il mercato e cercare di fare un profitto diventò la nuova moda, portando a nuove forme gestionali e a una maggiore attenzione all'aspetto concreto dell'attività agricola. Insomma, eravamo di fronte a un'epoca avanzata nella storia della civiltà umana, con contadini che si trasformavano in imprenditori ante litteram.

Ma il vino, ah il vino! Non solo era un prodotto prestigioso riservato alle élites, ma c'era anche il vino per tutti i giorni, per i lavoratori e persino per gli schiavi. La storia dei suoi contenitori meriterebbe un trattato a parte: dall'anfora alla botte, l'evoluzione era palpabile, come se il vino stesso si stesse adeguando alle tendenze del momento.

La transumanza, fenomeno di lunga durata, diventò un affare serio grazie all'impiego di grossi capitali e all'unificazione della penisola da parte di Roma. E che dire della schiavitù? Non era solo una condizione passiva; c'erano schiavi-manager, figure attive nel motore produttivo delle ville romane.

Ma, attenzione, l'agricoltura romana non fu solo vino e schiavi manager. C'era anche spazio per l'innovazione, anche se, ammettiamolo, il progresso tecnologico non era esattamente al primo posto. Forse perché la popolazione contadina era troppo occupata a soddisfare le esigenze alimentari di sopravvivenza.

In conclusione, l'agricoltura romana fu un mix di vino, schiavi manager e innovazioni "quasi" tecniche. Una storia complessa, con fasi di crescita e declino, che ci ha lasciato una traccia indelebile nel nostro paesaggio e nel bicchiere di vino che stappiamo ancora oggi. Cheers alla romanità agricola!

Bibliografia

Arnaldo Marcone, l’agricoltura romana in Storia dell’Agricoltura Accademia dei Gerogofili