Il Cavolo Riccio: Tra Lupo, Capra e Iodio Biofortificato
Il Cavolo Riccio: Tra Lupo, Capra e Iodio Biofortificato
In un mondo dove la sapienza popolare è racchiusa in modi di dire, c'è un detto che risuona con particolare forza nelle campagne pugliesi: "salvare capra e cavoli". Ma come mai il cavolo ha bisogno di essere salvato? E da cosa, si potrebbe chiedere? La risposta risiede in una storia antica quanto il buon senso, dove un contadino, armato solo della sua astuzia, deve traghettare un lupo affamato, una capra speranzosa e un cavolo coltivato con amore attraverso un fiume. Una prova di abilità degna di un programma televisivo a quiz, dove il contadino, evitando denti e crocifissi, riesce a salvare capra e cavoli, lasciando il lupo a chiedersi se sarebbe stato meglio aderire alla dieta vegana.
Ma il cavolo, in tutte le sue sfumature e varietà, non è solo oggetto di prove d'intelligenza agricola. Gli scienziati dell'ISPA-CNR di Bari e del DISAAT-UNIBA hanno dimostrato che è anche un mezzo straordinario per veicolare iodio nelle diete umane. Un'alternativa alla noiosa profilassi iodica con sale, il cavolo riccio biofortificato diventa il Superman del mondo orticolo, salvando le ghiandole tiroidee in distress.
La tradizione, però, si fa avanti, portando con sé la storia affascinante di Adelfia, un comune nato dall'unione di Canneto di Bari e Montrone, dove il cavolo riccio è conosciuto come "la pianta delle due feste". Una festa che inizia il 10 novembre, giorno di San Trifone, e termina con la Festa della Madonna della Stella di Canneto, anche nota come il lunedì dell'Angelo, quando si prepara il famoso "brodo di Pasqua". Chi avrebbe mai immaginato che un cavolo potesse celebrare feste con così tanta dedizione?
In cucina, il cavolo riccio si è fatto strada attraverso i decenni, trasformandosi da cibo dei contadini a protagonista di ricette gourmet. Ma attenzione, non stiamo parlando di un cavolo qualsiasi! Il cavolo riccio, noto anche come "cole rizze" (dove la "e" è muta nel dialetto locale), è una brassicacea senza testa. A differenza dei suoi cugini più noti come il cavolo verza e il cavolo cappuccio, il cavolo riccio non forma una "testa" o un "cappuccio". È un cavolo da foglie, un libero pensatore nell'universo brassicaceo.
Gli anziani contadini sanno come apprezzare il cavolo riccio "asseduto", stufato dopo una giornata nei campi o cucinato con la pasta "alla San Giuannine". E che dire della ricetta "Gnocchetti e cavoli ricci" che abbraccia le terre di Carbonara e Gallipoli? Un piatto che dimostra come il cavolo riesca a riunire anche le regioni più distanti attorno alla stessa tavola.
Per gli amanti della cucina d'autore, lo chef Natale Donghia, in occasione della sagra gastronomica "Bacco delle Gnostre", ha reinterpretato il cavolo riccio con una ricetta degna di un tripudio gastronomico: "Torchietti al cavolo riccio". Un piatto che unisce la tradizione contadina con la creatività culinaria, dimostrando che il cavolo riccio può essere protagonista anche nei menù più sofisticati.
Insomma, il cavolo riccio si fa strada tra le storie di lupo, capra, iodio e saporite ricette, dimostrando che in cucina e nella vita, a volte, bisogna essere abili quanto un contadino sulle rive di un fiume con una barchetta che può portare solo una cosa alla volta. E così, tra modi di dire, sagre e chef stellati, il cavolo riccio continua a essere "la pianta delle due feste", portando allegria e gusto sulle tavole di tutti.
Bibliografia
Massimiliano Renna e Pietro Santamaria, DIECI PRODOTTI PER TE ortaggi della tradizione pugliese
ISBN 978-88-6629-076-6 Editore Università degli Studi di Bari Aldo Moro
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