mercoledì 29 maggio 2019

Folonari nel Salento Leccese



I Folonari agli inizi del Novecento acquistarono molti vigneti pugliesi (dal Nord al Sud nella Regione, in foto la consegna delle uve a Squinzano) approfittando dell’embargo francese sui vini da taglio prodotti in Puglia. «I primi vigneti furono impiantati nel 1911 da Francesco e Italo Folonari, 600-700 ettari messi a dimora da piantatori fatti arrivare appositamente dalla Sicilia perché in Puglia non c’erano. Con coraggio si gettarono nell’impresa, forti dell’entusiasmo della manodopera locale che generosamente li avrebbe aiutati a superare le non poche incognite e difficoltà. La Puglia, una delle più importanti regioni vinicole del nostro Paese, era caduta in crisi dopo l’allontanamento della Compagnia delle Indie da Brindisi e il boicottaggio operato dai mercati esteri da mediatori privi di scrupoli. Nelle annate di abbondante produzione la viticoltura soffriva: mancavano capaci cantine di conservazione per un prodotto tanto pregiato».
Alberto Folonari, il nipote e prosecutore della dinastia, lo racconta ancor meglio in un altro passaggio:
Lo zio Francesco e il nonno Italo compresero bene che, sulla scorta della loro navigata esperienza e con l’aiuto di grandi enologi, avrebbero potuto accettare la sfida di produrre grandi quantitativi di vini realizzati con i più moderni procedimenti. Le cronache dei quotidiani pugliesi riportano con toni di gratitudine l’esempio dato dai Folonari, che impiantarono a Squinzano, nei primi anni del Novecento, il vigneto pilota che diede l’avvio alla ricostruzione viticola delle Puglie dopo la distruzione fillosserica. Lo sviluppo produttivo incontrò, come sempre avviene, una serie di circostanze favorevoli: fra tutte, la Puglia poteva contare su un asse ferroviario capillare. A Lecce la ferrovia era stata inaugurata nel 1866 e si era andata progressivamente sviluppando negli anni successivi nelle province di Taranto e Brindisi. Tutti gli stabilimenti vinicoli tra Brindisi, Squinzano, San Pietro Vernotico, Trepuzzi erano sorti lungo quella strada ferrata che determinò il lancio di un’economia vincente.

sabato 25 maggio 2019

Mappa di Comunità di Cavallino il tabacco

Mappa di Comunità di Cavallino > il tabacco

Nel febbraio del 1898 Cosimo De Giorgi (scienziato salentino 1842 - 1922) scriveva che il clima del Salento è simile a quello dei paesi orientali che si affacciano sul Mar Mediterraneo. Durante l’inverno si alternano venti caldo umidi di scirocco e di libeccio con quelli dei quadranti boreali. Il clima mite del Salento ha favorito la coltivazione del tabacco. La semina dei semenzai di tabacco si praticava nel mese di dicembre. L’altra condizione per la coltivazione del tabacco è di avere un estate senza pioggia e nel Salento le piogge erano precedute da temporali e quindi erano fenomeni eccezionali.
A Cavallino, così come in molti altri piccoli centri del salento fino alla metà del secolo scorso era fiorente la manifattura del tabacco. In molti centri infatti numerosi monumenti, chiostri, conventi, gallerie storiche) furono utilizzate per l'essicazione e la lavorazione del tabacco che impiegava soprattutto manovalanza femminile dando vita al fenomeno delle tabacchine del Salento da cui ha preso il nome la celebre canzone "fimmene fimmene". La coltivazione del tabacco era, dopo l’olivicoltura e la viticoltura, una delle principali attività in Terra d’Otranto e verso la fine dell’800 il circondario di Lecce era quello più produttivo. Lecce e Lequile superano i 2.000.000 kg, i Comuni di Cavallino, Galatone, Cutrofiano, Monteroni, S. Donato producono più di 500.000 kg, ecc..
Nel 1887 la coltivazione di tabacco e la produzione del tabacco si ridusse notevolmente. Il grave danno all’economia salentina, per la diminuzione del tabacco, non doveva essere attribuito né alla qualità né al prezzo della materia prima, ma alle tariffe, a causa dei quali i consumatori hanno preferito il tabacco estero e ciò aveva anche influito negativamente sui rapporti tra coltivatori e personale vigilante.

la Facoltà di Agraria a Galatina.

una vecchia proposta che già nel 1976, l’allora Direttore de “il Galatino”, mons. Antonio Antonaci, attraverso questi fogli portava all’attenzione della cronaca: la Facoltà di Agraria a Galatina. 

Movimentazione di botti di vino alla stazione di Brindisi Porto nei primi anni del XX secolo


Folonari Stabilimento di Squinzano (Lecce)

Una pagina del '900 salentino. Il tempo ha una calligrafia particolare. Siamo stati a Squinzano stamattina, in cerca di posti, storie, testimonianze relative ai vecchi Stabilimenti Folonari. Nell'epoca d'oro del vino, qui si produceva tantissimo. Riportiamo uno stralcio di un vecchio articolo apparso su "Omnibus" nel 1950: "Folonari viene qui qualche volta?", domando alla proprietaria del caffè principale, in piazza del Municipio.
Il caffè è deserto. Due mosche si nettano le zampette sul tavolino di ferro dipinto in blu Savoia. La donna ha un'aria sorpresa, fra i taralli zuccherati coperti da una enorme moschiera e le pile di savoiardi avvolti in cellofan.
"Non l'ho mai visto". (...)
Ho domandato ad altra gente: "Esiste veramente Folonari? Dov'è? Com'è fatto?".
Mi rispondono incertamente. Poi incontro quello che sa tutto. C'è in ogni paese meridionale questo personaggio-chiave, l'uomo a cui si può fare qualunque domanda.











Folonari Stabilimento di Galatina (Lecce)













martedì 21 maggio 2019

Quale olivicoltura per gli areali infetti da Xylella?


Quale olivicoltura per gli areali infetti da Xylella?


xylella fastidiosa
Per gli areali salentini infetti da Xylella le soluzioni percorribili sono la razionalizzazione degli oliveti esistenti e la realizzazione di nuovi impianti.
Il rilancio dell’olivicoltura salentina deve passare per reinnesti e reimpianti con varietà tolleranti al batterio della xylella fastidiosa, ma è anche necessario proseguire con un’attenta gestione agronomica degli oliveti ancora sani
Negli areali salentini colpiti dal batterio Xylella fastidiosa l’olivicoltura, che da quattro anni accusa un continuo ampliamento della superficie infetta e un corrispondente calo produttivo, può invertire la rotta e ripartire, con la razionalizzazione degli impianti sani e la realizzazione di nuovi impianti utilizzando varietà tolleranti al batterio. Ma con un punto fermo: la trasformazione che il territorio vivrà deve avvenire attraverso il protagonismo degli olivicoltori e dei frantoiani e in piena collaborazione con i tecnici professionisti del settore. È quanto emerso dall’incontro tecnico “Una nuova olivicoltura per il Salento” organizzato a Calimera (Le) dall’Apol e dalla Cia di Lecce, dall’Ordine dei dottori agronomi e dei dottori forestali della provincia di Lecce, dal Collegio provinciale dei periti agrari e dei periti agrari laureati e dal Collegio interprovinciale degli agrotecnici e degli agrotecnici laureati di Lecce.
«All’interrogativo su quale olivicoltura sia proponibile per gli areali infetti occorre dare risposte urgenti, sebbene non siano facili, perché il Salento annovera ben 65.000 aziende olivicole, pari a un decimo di quelle italiane - ha sostenuto Salvatore Camposeo, docente di Arboricoltura generale al Disaat dell’Università di Bari -. Perciò conforta osservare che lo stato delle conoscenze progredisce, rendendo man mano più semplice capire come affrontare una situazione nuova per l’Italia».

Preservare gli oliveti sani

Poiché l’olivicoltura salentina si caratterizza per una grande variabilità di sistemi colturali, per Camposeo occorre individuare soluzioni diverse per ogni sistema. Puntando in primo luogo a salvare gli oliveti ancora sani, non infettati dal batterio. «Contro i vettori del batterio è opportuno erigere barriere, sia agronomiche, mediante l’eliminazione con mezzi meccanici di tutta la vegetazione spontanea per un’ampiezza di almeno 5 metri su tutto il perimetro dell’oliveto, sia fisiche, con l’installazione fissa di reti anti insetto alte almeno 2 metri».
L’approccio giusto per una nuova olivicoltura deve andare, tuttavia, oltre questi interventi particolari e mirare da un lato alla zonizzazione e alla razionalizzazione degli oliveti esistenti, dall’altro alla realizzazione di nuovi impianti. «La zonizzazione è un importante strumento di governo del territorio. Grazie a essa chi amministra può rendersi conto delle diverse olivicolture regionali e locali e offrire soluzioni diversificate area per area. Basta pensare che nel Salento sono stati censiti 300.000 olivi monumentali, ma ne sono stati stimati 5 milioni. Fondamentale è poi la razionalizzazione della situazione esistente nelle aree infette e non infette: per gli oliveti sani la strada da seguire è la sostenibilità agronomica, economica ed ecologica mediante la produzione integrata o quella biologica».
Il futuro ecosostenibile dell’olivicoltura passa attraverso la gestione del suolo e la gestione della chioma con la potatura meccanica. «Pedonalizzazione e meccanizzazione sono percorsi validi e virtuosi, come già accade per la viticoltura. Inoltre è possibile conciliare ulteriormente economia ed ecologia con la moderna olivicoltura di precisione, che permette di razionalizzare tutte le operazioni colturali».

Reinnesti e reimpianti

Nell’operazione di recupero dell’olivicoltura esistente è utile fare ricorso, ha raccomandato Camposeo, alla tecnica del reinnesto degli olivi, soprattutto per le piante più importanti, per alberi di particolare pregio.
«Come già si è fatto su grandi estensioni olivicole per sostituire l’Ogliarola barese con la Coratina, come si è fatto per debellare la fillossera della vite innestando le varietà coltivate europee su piede americano, il reinnesto è uno strumento per salvare economia e paesaggio. A tale fine, profittando della grande biodiversità olivicola presente in Italia, sono in atto ampi studi sulla tolleranza varietale al batterio Xylella, con indagini in vivo sul vasto patrimonio elaiografico regionale e nazionale e su semenzali. Sono altresì in fase di definizione e verifica l’altezza del punto di innesto, le interazioni fra i bionti e il valore agronomico dei semenzali».

xylella fastidiosa
Per i nuovi impianti è possibile seguire, a seconda della cultivar, il modello intensivo o quello superintensivo (nella foto).

Il ricorso al reinnesto, ha puntualizzato Camposeo, permette di conservare il sesto di impianto, lo stato del suolo e il paesaggio e consente altresì il cambiamento della forma di allevamento, della gestione colturale, del metodo di raccolta e della qualità dell’olio estratto. «Infine bisogna ricordare che l’adozione della tecnica del reinnesto richiede tre requisiti indispensabili di cui tenere conto: convenienza economica, mentalità imprenditoriale e assistenza tecnica specializzata».
Per i nuovi impianti olivicoli è possibile utilizzare, come sancito dall’Ue, solo varietà tolleranti al batterio Xylella, ha ricordato Camposeo. «Le varietà attualmente dimostrate tolleranti sono la Leccino e la Fs-17® o Favolosa. Per quanto la Leccino si faccia infettare dieci volte meno delle varietà tradizionali del Salento, Cellina di Nardò e Ogliarola salentina, e la Fs-17® venti volte meno di queste due varietà, sono in fondo dei “cavalli di Troia”, perché, essendo tolleranti e non resistenti, si lasciano infettare, contengono al loro interno il batterio e lo rendono propagabile, ma comunque continuano a vegetare e produrre. Il progetto Re.Ger.O.P., finanziato dal Psr Puglia 2007-2013 e finalizzato alla conservazione e caratterizzazione del germoplasma olivicolo regionale, ha permesso di individuare oltre 200 accessioni olivicole, delle quali si sta ora valutando la tolleranza a Xylella con l’obiettivo di poter disporre di un più ampio ventaglio di scelta varietale».
Ma come è consigliabile realizzare i nuovi impianti, seguendo il modello intensivo o adottando quello superintensivo? Per Camposeo «è un fatto culturale prima e colturale poi. La cultivar gioca un ruolo cruciale: la Leccino è indicata per l’intensivo, con sesto rettangolare, 400 alberi per ettaro e vaso impalcato basso, ma non per il superintensivo; la Fs-17® per l’uno e per l’altro. Si tenga tuttavia conto che Fs-17 non è la più adatta a modelli di impianto superintensivi e, pertanto, necessita di sesti appropriati. Naturalmente il passaggio al modello superintensivo implica un cambiamento di mentalità che deve essere realmente imprenditoriale, quindi deve concepire l’oliveto come un normale frutteto e prevedere una specifica assistenza tecnica».


Ripensare l’agroecosistema

L’arrivo del batterio Xylella è un’occasione per ripensare l’agroecosistema, ha affermato Luigi De Bellis, direttore del Disteba dell’Università del Salento, impegnato nella ricerca dei fattori che possono concorrere all’induzione di tolleranza/resistenza a Xylella fastidiosa.

xylella tramite acque reflue
Il riuso di acque reflue può contribuire a soddisfare le esigenze irrigue degli olivi salentini. Nella foto: stazione di disinfezione a Gallipoli (Le).

«L’individuazione di varietà resistenti nel medio-lungo periodo è uno strumento indispensabile per il futuro dell’olivicoltura salentina. Ma è importante evitare una nuova condizione monocolturale di qualsivoglia specie e varietà. La resistenza può essere superata sia per mutazioni nel ceppo presente o per introduzione di nuovi ceppi, sia a causa di nuovi patogeni che sempre potranno essere introdotti. È quindi necessario rendere l’agroecosistema salentino resiliente, in grado di assorbire gli “urti” che inevitabilmente si verificheranno. La diversificazione è uno strumento riconosciuto di sostenibilità, ambientale ed economica. E la sostenibilità va valutata anche in funzione delle risorse idriche, perciò è opportuno introdurre in olivicoltura l’impiego di acque reflue».
Un invito del quale si è reso partecipe Antonio Bruno, agronomo in servizio presso il Consorzio di bonifica “Ugento e Li Foggi”. «Per irrigare un oliveto sono necessari, a seconda dell’andamento climatico, da 600 a 4000 m³/ha di acqua irrigua.
Il riuso delle acque reflue, attualmente disponibili ma scaricate a mare, può non solo contribuire a soddisfare le esigenze irrigue degli olivi salentini, ma anche ridurre l’utilizzo di fertilizzanti nella produzione olivicola».


Leggi l’articolo su Olivo e Olio n. 2/2018

lunedì 20 maggio 2019

Spuddhrinatura-time! #cantinasupersanum #vininaturali #donmosè @ Supersano

spuddhrinatura(staccare una ad una dal tronco della vite le puddhrine, cioè i germogli prematuri e inutili che crescono al di sotto di quei tralci destinati normalmente alla produzione dei grappoli d’uva).

In viticultura biologica è di fondamentale importanza la selezione dei tralci con la finalità di ottenere un risparimio di tempo ed energie e produrre uve di qualità eccellente.
Il consiglio che mi sento di dare nell'allevamento della vite “cordone speronato” è quello di conservare 5 cornetti che porteranno ognuno da 2 a 3 tralci. E' inoltre importante che ogni tralcio abbia la massimo 2 grappoli di uva.
Qual'è l'obiettivo che otteniamo?
Aumentiamo la quantità di elementi nutritivi nelle parti della vite in cui si producono i grappoli e contestualmente si ottiene meno vegetazione che meglio sarà controllata nella difesa dagli agenti parassitari.
In questio tempo di primavera tale lavorazione avrà conseguenze positiva durante la fase di crescita dei tralci e anche nel periodo successivo dell'invaiatura perchè si anticipa il periodo della raccolta e si riducono le ore necessarie per l'effettuazione della stessa in quanto i germogli fanno minore resistenza alla raccolta ottenendo una facilità di gestione velocizzando la raccolta e dimunuendo la fatica necessaria.
Il mio suggerimento è di conservare massimo 3 gemogli per ogni cornetto ponendo l'attenzione di orientarli suull'asse est – ovest favorendo l'esposizione solare.

Antonio Bruno




Le foto sono della Cantina Supersanum fonte: https://www.facebook.com/Cantina-Supersanum-530488247056731/?__tn__=kC-R&eid=ARCstbK2hTMHgN_3lfw8flP6XgQqD2oOB3aTRP6hnGag55L3VU4Z_Xk3SiwYuTXzMKar1EUSA1JTtcVN&hc_ref=ARTygElR9dmaVns-a4mBmmC2a_vPU0TXKeShCy1sgl-yib3XHWCANM4cyxmAfiSkXBE&__xts__[0]=68.ARDIWRc_gEMxI8PWsTUhRrHgxTSu4JsAJPs2mAKA5XjbGI7rIzC-YItltD7MTEpzd49JbMYdA4S1Nj-D7a_u_sIxzfuiFCMhe_xGndivB_lZ2adnIQR-yKA6v6NKKMemPpushTY-K7upM-YnBhIhBX3M4OTHi15PUsbj8AbFj4J4f-tF9EaCUT3nFSnMJE4Pn8GwZSDk3mzzMAaDQ4ggKUavQo6HAQmJTbmnPOg-BoYWWjAxuxC0Zq2nwA5UlCX8SW7OWVlIi3BPsUMBw2fwyvY26VtIIpPgA7lkg1ZFi-E68yIB4SlwyYyCOt7640pcW37gXDBtGmh6wAQJrXYAgkD0t4QeaEMh1xUI3UociVsexmVmJBcL6Q

giovedì 16 maggio 2019

I Kalash e il vino dei tempi di Alessandro Magno



Dei kalash, di questo popolo, ho avuto notizia a Lecce in una conferenza del 3 maggio 2019 tenuta prof. Attilio Scienza. Ho acquistato il suo libero "La stirpe del vino"e ho letto alcune informazioni ivi contenute riguardanti questo popolo . Se ne parla in un articolo pubblicato su National Geografic dell’ottobre 2001, firmato dalla giornalista Silvie Brieu e titolato: “Il vino degli dei”.
In pratica i kalash giunsero a Paropamiso, oggi Afghanistan nord-orientale ai confini dell’Hindukush, intorno al 327, al seguito di Alessandro Magno. E li sono rimasti, con alterne vicende, sino ai giorni nostri in cui sono rimasti in circa 4000 persone che vivono in tre valli isolate, alle soglie dell'Hindukush, nel Pakistan nord-occidentale ai confini con l'Afghanistan.Recenti analisi dei DNA hanno accertato la loro parentela genetica con italiani e tedeschi. (Attilio Scienza 2018)


Questo popolo coltiva le viti come le coltivavano i contadini greci e romani che usavano come tutore un albero vivo (vite maritata) questo perché è noto che la coltivazione della vite prevede la presenza di un tutore.
In quei tempi i contadini praticavano l’agricoltura per avere il cibo che poi consumavano e quindi quasi sempre ai confini del loro terreno praticavano la coltivazione della vite maritata. L’olmo, il pioppo e l’acero campestre erano gli alberi più diffusi. (“La vite maritata in Campania” di Raffaele Buono, Gioacchino Vallariello – 2003 – Orto Botanico di Napoli, Università degli Studi di Napoli Federico II)
Tornando a questo popolo, che è un vero e proprio fossile vivente, praticano la vendemmia di quest’uva cche è rossa e bianca e conseguentemente affidano la pigiatura ai solo bambini maschi ottenendo alla fine il vino che viene consumato tutto in una festa quando arriva il solstizio d’inverno.
Lo consumano tutto in questa festa dove si ubriacano e praticano ogni tipo di eccesso giustificato dall’ebrezza. Dopo questa festa i kalash non bevono più vino.
Un popolo che è rimasto legato al vino per più di 1.600 anni, in quel paese, lontano da dove provenivano, e che ha perpetuato sino ad oggi la sua cultura, sordo a ogni sirena di modernità.

Antonio Bruno Ferro




mercoledì 15 maggio 2019

COLTIVARE LA BIODIVERSITÀ PER TRASFORMARE LA VITICOLTURA

foto Fernanda Solazzo 28 aprile 2019 Iiss Egidio Lanoce di Maglie vigneto in biologico


Francesco Bacone ha scritto : "Alla natura si comanda solo ubbidendole.". In altre parole, si può ottenere di più da un ecosistema agricolo nella conservazione della funzione piuttosto che operando una forzatura che porta alla formazione dell’ecosistema stesso. La definizione di agricoltura ecologicamente intensiva è di PP Rabh , contadino e filosofo nella 1928 sviluppa agricoltura fondata sulla semplicità e genuinità dei comportamenti e l’utilizzo delle risorse nel pieno rispetto per la natura .
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L’ultima rivoluzione agricola, basata su vitigni selezionati, sull'uso di concimi minerali ed antiparassitari di sintesi ha prodotto una sorta di industrializzazione della viticoltura e la biodiversità nel vigneto è stata vista come un fattore limitante da eliminare. La viticoltura ecologicamente intensiva prende lo spunto da quella che negli anni '90 venne definita la rivoluzione doppiamente verde o evergreen, quale aveva come caratteristica principale quella di inserirsi in un ecosistema di produzione complesso dove le attività produttive "fanno sistema” (come ad esempio l'articolazione tra viticoltura ed allevamento del bestiame, la riduzione dei residui della produzione, il riciclo degli stessi per migliorare la fertilità dei suoli attraverso la produzione di compost). La definizione di agricoltura ecologicamente intensiva è di P.P. Rabh, agricoltore e filosofo che nel 1928 preconizzò un'agricoltura fondata sulla semplicità e salubrità dei comportamenti ed un impiego delle risorse nel rispetto della natura.
Contemporaneo di R. Steiner, padre dell'antroposofia, per il quale l'agro-ecologia doveva basarsi su pratiche esoteriche, affermava invece che la nuova agricoltura si fondava sullo sviluppo delle conoscenze derivanti dall'applicazione dette scoperte dell'agronomia, dell'ingegneria e della tecnologia. La biodiversità di un vigneto è definita come l'insieme di tutte le forme di vita presenti sulla superficie e nel suolo (piante, animati, microrganismi) fino ai geni delle varie entità viventi. Obiettivo di un ecosistema agricolo è la resilienza, proprietà presente negli ecosistemi naturali che è il risultato di alcune condizioni quali la complessità dell'organizzazione funzionale che garantisce la solidità (nel senso di tenere tutti i costituenti assieme), la diversità dei partecipanti (vegetali, fauna, risorse alimentari), gli stocks e le risorse sistemiche. La trasformazione da monocuItura in un più complesso agro sistema è ormai una necessita per i vigneti di tutto il mondo ed è possibile realizzarla con strategie di copertura vegetale del suolo.
Fonte: Tre Bicchieri Gambero Rosso (articolo a firma del Prof Attilio Scienza)





lunedì 13 maggio 2019

Gregorio Lillo Odoardi e la moglie Barbara Spalletta





Salendo verso la sommità delle colline, dove ci sono vigne fino a 600 metri d'altitudine, lo sguardo spazia verso il Tirreno, dove si scorgono le isole Eolie. Dal mare arrivano i venti e i profumi. Qui la famiglia Odoardi è arrivata nel 1480. Siamo nella provincia di Catanzaro, nella terra calabrese di Nocera Terinese. La proprietà è compresa tra il fiume Savuto e Falerna, per un totale di 270 ettari, con due zone a Denominazione di origine controllata: Savuto Doc, 40 ettari, e Scavigna Doc, altri 40 ettari. A portare avanti i risultati ottenuti finora in Italia e all'estero ci sono Gregorio Lillo Odoardi e la moglie Barbara Spalletta, con i figli Anna Gaia e Giovan Battista. Quest'ultimo prende il nome del fondatore, al quale è stato dedicato, in occasione dei 500 anni di storia aziendale, il rosso da meditazione GB. Giovan Battista Odoardi fu medico oltre che vignaiolo.
Climbing towards the hill tops, where vines grow up to an elevation of 600 metres, your gaze is drawn irresistibly towards the Tyrrhenian Sea, and the Aeolian Islands. The wind carries scents and aromas in from the sea. The Odoardi family settled here in 1480. This is the province of Catanzaro, in the Calabrian region of Nocera Terinese. The 270-hectare estate lies between the rivers Savuto and Falerna, with two Doc areas - Savuto Doc, 40 hectares, and Scavigna Doc, a further 40 hectares. Gregorio Li110 Odoardi and his wife Barbara Spalletta, with their children Anna Gaia and Giovan Battista, are now seeking to repeat abroad the success enjoyed in Italy. Giovan Battista is named after the founder, to whom the 'rosso da meditazione' GB was dedicated on the occasion of the company's 500th anniversary. Giovan Battista Odoardi was a physician as well as a winemaker

Fonte: I migliori 100 vini d'Italia 2015 di Wine Spectator, Luciano Ferraro




Le alchimie del vino Odoardi questione di qualità
Gregorio è il medico vignaiolo. La moglie Barbara gestisce il «laboratorio» Il loro GB è tra i cento migliori rossi del mondo. Ogni singola pianta è a un metro di distanza dall’altra per evitare traumi e preservarne l’integrità

di Concetta Schiariti

Passa attraverso la passione il confine sfumato tra medicina e viticoltura. Un binomio inscindibile di equilibrio ed eleganza, che offre la cifra della qualità di un suo bicchiere di vino. «Perché — spiega Gregorio Odoardi, a capo dell’omonima azienda vitivinicola di Nocera Terinese, in provincia di Catanzaro, che per professione fa il medico e per amore il viticoltore—il vino regala un messaggio universale, rivolto a tutti. Dove l’espressione della qualità non è dettata solo dalla tecnica perfetta, comunque importantissima, ma passa dalle sensazioni intime di equilibrio che riesce a trasmettere». Nel coltivare la terra, e così la sua vigna, pone l’attenzione a metodi che, spesso, riportano a riflessioni di squisito accenno scientifico. Provengono, non a caso, dalla scelta professionale, ereditata dal padre, di fare il medico e, contemporaneamente, di produrre vini di nicchia, così come si fa in famiglia da generazioni. Di origini tedesche, giunti in Calabria da ben cinque secoli, gli Odoardi vantano elenchi di premi e riconoscimenti che ne tracciano strada ed essenza. Da sette anni, il suo rosso GB è presente nella lista dei cento vini migliori d’Italia, stilata
dalla rivista americana Wine Spectator, che rappresenta la bibbia mondiale di settore. «A mia insaputa, lo scorsoanno—aggiunge, sorridendo— abbiamo partecipato anche alla competizione internazionale, rientrando così nella lista dei cento vini più buoni al mondo». Nei fatti, le scelte del suo mercato nascono da precise posizioni. Con un export pari all’80 per cento, ha conquistato i ristoranti più rinomati diNewYork. Oltre agli StatiUniti, i suoi vini sono presenti in Svizzera, Germania, Belgio e Olanda, e poi in Giappone, Australia e Corea. «Punto alla qualità del marchio Odoardi, da preservare senza pensare ai numeri. Così, se un’annata non dovesse risultare buona preferisco non stare sul mercato».
Nella sua azienda uno spazio privilegiato non può che ricoprirlo il laboratorio. «È un settore — aggiunge — che dirige mia moglie Barbara, esperta enobiologa, che ha saputo calibrare bene studi e ricerche scientifiche, grazie anche alle numerose collaborazioni con il professore Nino Russo dell’Università della Calabria». Non a caso, nei suoi vigneti segue precisi metodi, per tutelare qualità e longevità della vite. «Ogni singola pianta— continua—è posta ad una distanza di
un metro dall’altra, per non subire traumi e garantire equilibrio alla produzione. Del resto, per ottenere un buon bicchiere di vino non bisogna mai fare stressare il vitigno, che deve comunicare sensazioni intime da ricordare». Nei suoi 50 ettari, che si affacciano terrazzati sul mare Tirreno, pratica una coltivazione ad alta intensità, mai annaffiata, frutto della combinazione tra elementi organici ed inorganici, cangianti di anno in anno ed espressione di una storia impressa, anche, nelle sue etichette. Dalla Odoardi GB, che ricorda il nome del padre Giovan Battista, si passa alla Terra Damia, che nell’idioma dialettale indica l’appartenenza «alla terra mia», per giungere alla 1480 che riconduce
al periodo in cui i suoi antenati si trasferirono dalla Germania alla Calabria.

Fonte: Corriere del Mezzoggiorno del 13 maggio 2019

Gli Odoardi: Gregorio Odoardi(con la moglie)


Sono un medico vignaiolo

Può raccontarci come nasce un medico vignaiolo?
Sono uno specialista in radiodiagnostica e scienza delle immagini; in particolare mi occupo di radiologia vascolare. La mia è stata sempre una famiglia di agricoltori “illuminati”, che avevano anche una professione aggiuntiva. Mio nonno era avvocato, il fratello era il farmacista del paese, mio padre era primario medico all’Ospedale di Cosenza. Il nostro paese di origine è Nocera Terinese e viviamo lì dal 1480. Nel 1965, mio padre che era assistente dell’Università di Napoli, lasciò Napoli per andare a dirigere il reparto di Medicina Interna di Cosenza (ospedale regionale). Da allora, ha avviato una fondamentale trasformazione, ovvero, ha avuto l’idea di specializzare l’azienda nella olivocoltura e nella vitivinicoltura, facendo un nuovo impianto di trasformazione.Prima facevate dell’altro?
Le aziende agricole, fino alla riforma agraria, facevano di tutto e di più, dal maiale al formaggio, passando per la vite e per l’ulivo. Quindi, si produceva di tutto, ma non c’era specializzazione.
La vostra è una azienda molto estesa?
È un’azienda di 270 ettari, di cui 100 a vitivinicoltura e 120 a ulivi. La particolarità dell’azienda è la presenza di tre grandi terrazze ad altezze diverse rispetto al livello del mare: a 200, a 500 e 750 metri. Quindi, in pochi chilometri si sale dal livello del mare a 750 metri. Questa caratteristica è stata la nostra fortuna, perché si possono utilizzare i diversi vitigni su diverse altezze; è possibile ottenere vini di maggiore struttura nelle zone più basse e più profumati nelle più alte.
Quando ha iniziato ad essere un professionista del vino oltre che dell’arte medica?
Nel 1993-94, quando ero già specialista, andai a Londra: lì il vino non piaceva, eppure già vendeva molto bene in Calabria. Allora, tornai in Calabria e cominciai a ristrutturare tutto, perché volevo dare un’impronta internazionale all’azienda. Ho inventato l’acqua calda! Nel senso che negli anni, a partire dal 1970, era aumentata la distanza tra un filare e l’altro e il numero di piante per ettaro si era ridotto (il fenomeno interessava, in realtà tutta l’Italia, perché con la meccanizzazione standardizzata i trattori dovevano andare sia nei frutteti sia nei vigneti). La produzione per ogni ceppo era elevata, ma la rotondità dei vini non era esemplare. Quindi, quando sono tornato in Calabria, ho iniziato a fare i filari più stretti, ho cambiato agronomi ed enologi, ho utilizzato macchine scavallanti, cioè trattori che vanno a cavallo dei vigneti e ho iniziato a produrre nell’ottica della qualità e non della quantità, portando la produzione a 1 kg a pianta.
Cosa si ottiene stringendo i filari?
Si aumenta il numero delle piante, ma ogni pianta produce meno. Di conseguenza, si ha una maturità fenolica anticipata di 15 giorni e non ci sono differenze tra le parti esposte al sole e la parte in ombra.
La resa della pianta diminuisce, ma la resa complessiva rimane stabile, perché aumenta il numero delle piante?
Sì, ma consideri che quest’anno, per esempio, abbiamo avuto una media di produzione di 750 grammi a pianta, con un tenore minimo di polifenoli di 4 mila e cinque: questo è un dato eccellente per quanto riguarda la vitivinicoltura mondiale.
A proposito di contenuto in polifenoli, è questo il valore del vino rosso in termini di benefici per la salute di cui si parla spesso?
Un gruppo di ricercatori francesi, all’inizio degli anni ’80, pubblicò un articolo scientifico intitolato “Il paradosso francese”, in cui si dimostrava che la popolazione francese, pur avendo una dieta ricca in grassi saturi e mono-insaturi, aveva un tasso inferiore di trigliceridi e colesterolo rispetto agli altri popoli europei, perché abituati a bere circa 180 ml di vini rossi a pasto. Questa pubblicazione ha tracciato il solco della ricerca sui polifenoli in enologia; il vino non è più visto soltanto come alimento edonistico, ma salutistico. Se pensiamo che alcuni vini hanno fino a 7 mila milligrammi di polifenoli, capiamo bene come possano essere degli eccellenti antiossidanti e come servano a combattere tutta la problematica dei radicali liberi. Il vino deve essere visto non solo in termini edonistici e consumistici, ma come alimento “buono”, n più n meno dell’olio d’oliva.
Il suo essere medico ha influito sul suo lavoro di vignaiolo?
Sì, tanto. Io sono stato per anni un ricercatore del Centro Nazionale delle Ricerche (CNR), per cui ho acquisito una forma mentis indirizzata alla ricerca scientifica. Con l’Università della Calabria, che ha eccellenti laboratori e ricercatori, abbiamo iniziato a condurre studi sempre più approfonditi sui vitigni autoctoni e non. Siamo arrivati a creare dei modelli di fermentazione per proteggere ed estrarre quanti più polifenoli possibile: in realtà, si tratta di un lavoro lungo, durato cinque anni e che impegnerà, per i prossimi tre quattro anni, il settore scientifico dell’azienda.
Alcuni vitigni sono più indicati per valorizzare al massimo queste sostanze?
Il Greco Nero e il Gaglioppo: si tratta di uve dalla buccia molto sottile. Occorre anche considerare che da un vino di 11,5 gradi è difficile estrarre polifenoli e per avere antiossidanti è necessaria l’aggiunta o di tannini di vinacciolo o un passaggio intensivo nel legno, nella barrique. Invece, noi volevamo vedere che cosa facevano i vitigni senza l’aggiunta della barrique.
Perch il legno garantisce un apporto ulteriore di antiossidanti?
Per l’azione dei tannini ellagici, gli antiossidanti contenuti nel legno di quercia e la barrique è in legno di quercia.
I suoi vini sono invecchiati in legno?
Alcuni sì, altri no. Dipende dal target che ci proponiamo di raggiungere e da quanti polifenoli di base hanno. Va detto, tuttavia, che la barrique crea contemporaneamente una micro-riduzione dovuta ai tannini ellagici ed una micro-ossidazione dovuta al fatto che viene portata a fuoco, a 280 °C: nello strato immediatamente a ridosso della zona di ustione del legno c’è un accumulo di ossigeno, che viene ceduto gradualmente al contenuto. Grazie all’uso di micro-ossigenatori con vasche di acciaio a controllo numerico, che ci consentono di dosare l’ossigeno per tutto il tempo di maturazione del vino, abbiamo creato dei vini che non utilizzano il legno, perché hanno già in s le sostanze aromatiche [*].
La presenza di queste sostanze, i polifenoli antiossidanti, è un valore aggiunto anche per quel che riguarda il gusto del vino…
Certo, perché i vini diventano rotondi. C’è stata una grande polemica scientifica sulla memoria dell’acqua. Io posso dire soltanto che la memoria del vino esiste: è la sintesi di quel che si è fatto in vigna e risente delle condizioni meteorologiche di quell’annata. Se si fanno operazioni colturali sbagliate nella vigna, avremo un dualismo tra il dramma e l’opulenza. Un vino drammatico, che ha delle tensioni interiori, darà a chi lo beve delle sensazioni di fastidio, anche se non sono rilevabili in maniera cosciente, epicritica. Quando, invece, si raggiunge la quadratura del cerchio, il vino guadagna la sua opulenza e chi lo beve ottiene anche una sensazione di benessere interiore.
Che consiglio darebbe ad un paziente sul tipo di vino da bere?
Se il vino potesse scegliere da s il colore, vorrebbe essere nero. Comunque, il vino rosso, dal colore intenso, a seconda della quantità di resveratrolo, ha degli effetti positivi sulla pulizia delle arterie, sulla riduzione del deposito di acidi grassi nello strato intermedio della parete arteriosa. Bilanciando, oltre il contenuto calorico, anche l’apporto di 150 ml di vino rosso, si ottiene un effetto protettivo sulle arterie. La cosa importante non è bere 1,5 litri di vino, ma 150 ml, che poi sono poco meno di un bicchiere, di vino rosso. Come in tutti i trattati di farmacologia, il veleno dipende dalle dosi.
Come il vino, anche il malato porta con s, davanti al proprio medico, tutta la propria storia. Comprendere il vino è un po’ come per il medico fare la diagnosi?
Sì, è proprio così. Produrre un pinot noir e ritrovarlo in un bicchiere è una delle cose più belle che possano esistere.
Quali sono i vini che le piace di più assaggiare?
In primo luogo, adoro gli Amaroni, perché hanno una storia controversa ed una ricchezza olfattiva – gustativa di livello superiore. Poi, tutti i grandi vini costruiti con l’intenzione di creare qualcosa di eccellente. Per esempio, i grandi vins de garage, che rappresentano il meglio che il viticoltore è riuscito a fare per quell’anno: è il suo messaggio al mondo ed è come se pubblicasse il testo della poesia della sua terra; è qualcosa che percepisci quando stappi una di quelle bottiglie.
Cosa sono i vins de garage?
Sono vini prodotti inizialmente nel bordolese, con una tiratura massima di tre-quattro barrique: si tratta di prodotti di piccoli viticoltori, che riescono a fare grandi cose. Hanno una produzione familiare di quattro, cinque barrique in tutto all’anno, ma che raccontano il territorio, la storia e danno delle emozioni. Il vino, in realtà, è una sintesi di emozioni, n più n meno di una tela d’autore. Quando ci si innamora di un’opera d’arte, si decodifica la sintesi di un artista; la stessa cosa succede con il vino.
I suoi vini, i rossi in particolare, si sposano con la cultura gastronomica della sua terra?
Assolutamente, sì.
Con cosa consiglierebbe di berli?
Esiste una relazione tra il luogo, la gente, la terra e il vino. In Calabria ci sono trecento piccoli paesi e ognuno di essi rappresenta un tesoro culinario diverso dagli altri. La melanzana, per esempio, viene cucinata in centocinquanta modi differenti. Così, anche la patata e tutti quei cibi semplici che, in passato, avevano bisogno di grandi elaborazioni per avere un gusto accettabile.
Ad avere il tempo e la voglia di girare per i paesini calabresi, pur con le strade disastrate, si rimarrebbe affascinati dalla cultura gastronomica rimasta in alcune isole di eccellenza: sono paesi con esposizioni, culture e con un passato di dominazioni diverse. Esiste per esempio, nella provincia di Catanzaro, un piccolissimo centro, Martirano Lombardo, in cui si prepara la soppressata sotto cenere, cioè la soppressata viene conservata sotto la cenere: una delizia la cui tradizione viene tramandata oralmente in poche famiglie, non c’è una ricetta scritta. Un’altra tradizione è la frittata di patate senza uova: un sapore che non ho mai gustato fuori dalla Calabria…
[*] La micro-ossidazione del vino, ossida una parte dell’alcol etilico, che si trasforma in etanale, e crea un ponte poco stabile: è il processo di polimerizzazione tra la parte colorante degli antiossidanti, gli antociani, e la parte degli antiossidanti costituita dai polifenoli. La polimerizzazione avviene grazie alla micro-ossigenazione e dona stabilità al colore e alla struttura del vino. La micro-ossigenazione deve essere condotta sulla base delle caratteristiche peculiari del vino e dell’annata. I vini delle Cantine Odoardi si avvalgono della consulenza scientifica della cattedra di Chimica teorica dell’Università della Calabria, diretta dal prof. Nino Russo.

Fonte: https://pensiero.it/in-primo-piano/interviste/sono-un-medico-vignaiolo 

domenica 12 maggio 2019

Andrea Pitacco, ORIGINI VITICOLTURA IN ITALIA E I RAPPORTI CON LE PROVINCE


1 ORIGINI VITICOLTURA IN ITALIA E I RAPPORTI CON LE PROVINCE 

by Andrea Pitacco

1.1MERCATO DEL VINO

1.2METODI DI CONSERVAZIONE,SOLTIVAZIONE E CONSUMO

1.3I VINI NOTI DEL MONDO ROMANO



Sodocle nel V sec a.C definì l’italia terra prediletta del Dio bacco
La vite ed il vino hanno origini antichissime. L'Italia venne definita da Sofocle (V sec. a.C.) terra prediletta dal Dio Bacco. 
     Diodoro Siculo sosteneva che la vite da noi cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.
     L'arte di coltivare la vite sembra sia stata introdotta dai popoli Ariani provenienti dagli altopiani dell'Asia Centrale. Alcuni testi greci sostengono, invece, che la coltivazione della vite, almeno nella parte meridionale dell'Italia, sia stata introdotta dai Fenici. Altri studiosi ancora ritengono che la viticoltura sia stata introdotta dagli Etruschi, provenienti dall'Asia Minore, che tra il IX e VIII secolo a.C. si erano installati in Etruria (attuale Toscana), esattamente nelle terre tra il Tevere e l'Arno.
    I Greci, venuti in seguito, non fecero che migliorare la tecnica di coltivazione della vite, ma principalmente di preparazione del vino.
    Intorno al V secolo a.C. Erodoto ed altri scrittori greci definirono l'Italia meridionale, in considerazione dell'importanza che la viticoltura aveva assunto in quella regione, Enotria, ossia produttrice di vino; nome che poi si estese a tutta la penisola.
    La penisola italiana, sin dalla antichità si dimostrò adattissima per la produzione del vino. L'espansione della viticoltura nella Sicilia e nell'Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall'Egeo e dalla Grecia. Nel III secolo a.C. l'Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l'esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.C..


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. L'Italia venne definita da Sofocle (V sec. a.C.) terra prediletta dal Dio Bacco. La vite ed il vino hanno origini antichissime
     Diodoro Siculo sosteneva che la vite da noi cresceva spontaneamente e che non era stata importata da altri popoli. Essa era tenuta, dalle popolazioni autoctone, incolta, ossia allo stato selvatico. Anche Plinio riferisce che nei primi tempi di Roma esistevano viti non potate.
     L'arte di coltivare la vite sembra sia stata introdotta dai popoli Ariani provenienti dagli altopiani dell'Asia Centrale. Alcuni testi greci sostengono, invece, che la coltivazione della vite, almeno nella parte meridionale dell'Italia, sia stata introdotta dai Fenici. Altri studiosi ancora ritengono che la viticoltura sia stata introdotta dagli Etruschi, provenienti dall'Asia Minore, che tra il IX e VIII secolo a.C. si erano installati in Etruria (attuale Toscana), esattamente nelle terre tra il Tevere e l'Arno.
    I Greci, venuti in seguito, non fecero che migliorare la tecnica di coltivazione della vite, ma principalmente di preparazione del vino.
    Intorno al V secolo a.C. Erodoto ed altri scrittori greci definirono l'Italia meridionale, in considerazione dell'importanza che la viticoltura aveva assunto in quella regione, Enotria, ossia produttrice di vino; nome che poi si estese a tutta la penisola.
    La penisola italiana, sin dalla antichità si dimostrò adattissima per la produzione del vino. L'espansione della viticoltura nella Sicilia e nell'Italia meridionale ben presto determinò, una contrazione delle importazioni di vino dall'Egeo e dalla Grecia. Nel III secolo a.C. l'Italia non si limitò più a produrre per i fabbisogni interni, ma anche per l'esportazione e continuò a svilupparsi soprattutto nella prima metà del II sec a.C..
     Durante l'epoca repubblicana ed imperiale i Romani diffusero enormemente la coltura della vite in Italia, ma anche in gran parte delle province che man mano conquistavano. Le province romane ed in particolar la Gallia, richiedevano vini in abbondanza. I vini ricercati dai romani erano liquorosi ed annacquati, mentre i Galli insistevano nel loro barbaro (per l'epoca) gusto di bere il vino puro, ossia non miscelato con l'acqua come faceva tutta la gente civile.
     Tutto ciò spinse verso l'espansione della viticoltura, ma soprattutto verso l'incremento delle rese unitarie, dato che la viticoltura richiedeva grossi investimenti. Furono, pertanto, introdotte nuove varietà di viti più fertili. Inizialmente, infatti, le varietà di uve da vino più famose, di origine greca e molto coltivate in Sicilia, nella Magna Grecia e nelle conquiste romane, erano le "Aminee" e le "Nomentanae" ricche di colore; esse davano vini pregiati. Vi erano anche le "Apianae o Apiciae", uve a sapore moscato che, quando erano mature, attiravano le api ("apes"). Si piantavano, però, anche viti più produttive e resistenti, provenienti dalle province, quali la "Balisca" (originaria, secondo Columella, di Durazzo in Albania), la "Rhaetica" molto diffusa nel veronese e la "Buririca", ce ha dato origine ai vigneti di Bordeaux, oltre alla "Lambrusca", vite selvatica dalla quale si ottenevano vini di scadente qualità. 
     In epoca imperiale sembra che un ettaro di vigneto riuscisse a produrre fino a 150 quintali di uva. Lungo l'Adriatico tra Ancona e le paludi di Ravenna si avevano rendimenti di 200 hl. /ha, mentre a Faventia anche di 300 hl. /ha. Tutto ciò contribuì al crollo delle importazioni dei vini greci favorendo la commercializzazione dei vini italiani.
     A partire della metà del II sec. a.C. si perde l'interesse per i vini del mare Egeo e cominciano ad essere apprezzati i migliori vini italiani, ai quali vengono dati dei nomi. Fino all'inizio del II sec. a.C., infatti, i buoni vini italiani non erano ancora classificati per zone viticole ben delimitate o per cru (*). La nascita del più antico dei cru italiani, il Falerno, si fa ufficialmente risalire al 120 a.C.. Secondo Plinio i vini italiani cominciarono ad acquistare rinomanza dopo l'anno 600 di Roma. Ciò è da collegare con l'arrivo in Italia di schiavi orientali, più esperti di vigneti e di vinificazione dei romani, e con l'introduzione dalla Sicilia di nuovi vitigni di qualità, quali la "eugenia", e di nuove tecniche viticole. Negli impianti dei vigneti in funzione delle condizioni pedoclimatiche, si segue sia la via della qualità che quella della quantità per rispondere alle varie esigenze dei mercati.
     Verso la fine della repubblica i vigneti prosperavano, i grandi cru si moltiplicavano e i loro proprietari si arricchivano. La viticoltura dunque, si espandeva in tutto il territorio italiano e anche nelle province.
     La Sicilia produceva grandi quantità di vino. Monete dell'epoca (550-200 a.C) raffiguranti grappoli d'uva o ceppi di viti furono coniati a Naxos, a Catania, a Enna, a Lipari e nei paesi delle falde dell'Etna.
     Per il commercio del vino proveniente dalla Sicilia, i romani utilizzavano Naves Vinariae (navi vinacciere) piuttosto piccole, veloci e resistenti alle tempeste, capaci di circa 300 anfore, cioè di 2,78 tonnellate. Anche nel Lazio la viticoltura era molto antica; secondo Plinio essa esisteva prima della fondazione di Roma. La produzione di vino, però, fino al 121 a.C. non fu abbondante né molto apprezzata.
     Il vino più rinomato a Roma era il "Falerno", prodotto al confine tra il Lazio e la Campania, molto alcolico, di colore ambrato o bruno, che subiva un invecchiamento di almeno 10 anni. Apprezzato, come il Falerno, era pure il "Cecubo" del Golfo di Amicla nel territorio tra Terracina e Gaeta.
     Citati da Varrone sono i vigneti del territorio di Milano. Molto diffusa era anche la viticoltura lungo l'Adriatico, dal Picenum fino al delta del Po.
     Annibale nel 217 a.C. trovò grande abbondanza di vino nel Picenum. Il vino di Taranto restò un grande cru sconosciuto fino al II sec.. Le esportazioni di vino dalla costa adriatica verso la Grecia riguardarono, sotto l'impero, soprattutto i grandi cru che si trovavano ad Hadria (Atri), Praetutti e Ancona.
     Da un punto di vista cronologico i grandi cru cominciarono ad essere riconosciuti nel II sec. a.C. e continuarono ad accrescersi di numero durante due secoli. Alla fine della repubblica erano noti e ricercati solo tre cru: il Falerno, il Cecubo e l'albano. Questi tre vini rimasero a contendersi i prime tre posti fino all'inizio del regno di Augusto.
     Sotto Augusto oltre ai tre grandi Cecubo, Falerno e Albanum, buona reputazione ebbero nuove celebrità, quali i vini di Setia e di Sorrento, il Gauranum, il Trebellicum di Napoli e il Trebulanum.
     Secondo lo stesso Plinio fin dalla prima metà del I secolo a.C. i vini italiani avevano cominciato a godere di fama uguale o superiore a quella dei migliori vini greci. Nello stesso periodo, però, cominciavano a farsi conoscere i vini spagnoli; la conquista dell'Ibera, nel 133 a.C., aveva reso possibile la concorrenza dei vini iberici. Il vino "Betico" arrivava a Roma in grande quantità; molto apprezzato era, secondo il poeta Marziale, il "Ceretano", ossia il vino di Ceret (Jerez de la Frontera). 

(*) cru (significato) Terreno considerato dal punto di vista dei suoi prodotti e delle qualità che questi ne traggono. In particolare, nel linguaggio enologico, zona delimitata produttrice esclusiva di un vino; in senso più ristretto, vigneto che fa parte di tale zona, capace di produrre vino di caratteristiche organolettiche particolarmente pregiate.
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CURRICULUM VITAE di Andrea Pitacco
Curriculum Vitae
Andrea Pitacco si è laureato in Scienze Agrarie presso l’Università degli Studi di Padova con il massimo
dei voti e la lode. Ha iniziato a frequentare l’allora Istituto di Coltivazioni Arboree nel 1980,
svolgendovi un’intensa attività di ricerca su diverse tematiche inerenti l’ecofisiologia della vite e delle
specie arboree in generale, contribuendo allo sviluppo del primo modello matematico di trasferimento
dell’acqua nel Sistema Suolo-Pianta-Atmosfera adatto a condizioni di aleatoria disponibilità idrica
prodotto in ambito nazionale.
Si è interessato di modellizzazione del regime radiativo di colture discontinue, sviluppando un modello
originale per lo studio della forma ottimale delle chiome arboree. Dalla fine degli anni '80 è attivamente
impegnato nello studio della micrometeorologia applicata a colture agrarie e forestali e dei rapporti
Vegetazione-Atmosfera in generale. Ha partecipato attivamente all’attività del gruppo di lavoro sugli
"Instrumental and Methodical Problems of Land Surface Measurements" della European Geophysical
Society, che ha coordinato la campagna internazionale di misura del bilancio energetico superficiale
EBEX-2000. È stato coordinatore scientifico nazionale del primo progetto approvato dal CNR sullo
studio dei "Flussi di energia, materia e quantità di moto da colture erbacee e arboree".
Ha svolto due soggiorni di studio in qualità di foreign specialist presso il National Institute of Agro
Environmental Sciences di Tsukuba (JA), supportato da borse di studio della Science and Technology
Agency of Japan ed è stato numerose volte visiting scientist presso l’Università di Basilea (CH) con cui
ha una stabile collaborazione di ricerca.
Attualmente, la sua attività di ricerca è focalizzata sullo studio delle Interazioni Vegetazione-Atmosfera,
con particolare riguardo alla caratterizzazione teorica e sperimentale dei processi di trasporto turbolento
in canopy vegetali discontinue. E' specificatamente coinvolto nello studio della capacità di assorbimento
del Carbonio da parte della vegetazione agraria (in particolare quella arborea: vite, olivo), partecipando
al network globale di monitoraggio dei bilancio di energia, acqua e carbonio della vegetazione terrestre
Nato a Venezia il 26 aprile 1956
Residente a Venezia, CAP 30135, Sestiere Santa Croce 1639
Tel: 041 524 17674; Cell: 347 032 7343
e-mail: andrea.pitacco@libero.it
Indirizzi Ufficio
DAFNAE, Viale dell'Università 16, CAP 35020, Legnaro (PD)
Tel: 049 827 2848; Cell: 334 6952561; Fax: 049 8127 2850
e-mail: andrea.pitacco@unipd.it
Titolo di studio Laurea in Scienze Agrarie
Settore attività: Istruzione superiore e Ricerca; qualifica:
professore associato.
Ente di appartenenza: Università degli Studi di Padova,
DAFNAE
(FLUXNET). E' delegato del MiPAAF alla Commissione speciale OIV sul bilancio della CO2 nel
settore vitivinicolo.
E' Professore associato presso il Dipartimento di Agronomia ambientale e Produzioni vegetali
dell’Università di Padova. E’ titolare dell’insegnamento di Viticoltura per il Corso di Laurea in Scienze
e Tecnologie Viticole ed Enologiche e dell’insegnamento di Interazioni Vegetazione- Atmosfera per il
Corso di Laurea Magistrale in Scienze e Tecnologie per l'Ambiente e il Territorio, di cui è presidente.
Conta più di 100 pubblicazione a stampa.