lunedì 27 marzo 2017

L'orto degli ulivi per sperare in una moderna olivicoltura

L'orto degli ulivi per sperare in una moderna olivicoltura

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Intervista al presidente di Copagri Lecce Fabio Ingrosso che spiega lanuova forma di sperimentazione che consiste nell'allestire un campo sperimentale dove si valutano la resistenza e la tolleranza di alcune varietà di olivo.


Fabio Ingrosso
Fabio Ingrosso

Dal Salento. È dei giorni scorsi la notizia della ricerca del Cnr di Bari che ha messo in luce alcune caratteristiche della varietà FS17 detta  anche  Favolosa che parrebbe diversamente suscettibile al batterio Xylella fastidiosa. La varietà è noto sia stata selezionata dal prof. Giuseppe Fontanazza  già direttore dell’Istituto di ricerche sull’olivicoltura  del Cnr di Perugia.
 
Abbiamo incontrato il Presidente di Copagri di Lecce Fabio Ingrosso che è stato contattato per allestire un capo sperimentale che valutasse la possibile resistenza o tolleranza delle varietà di olivo ottenute dal prof. Fontanazza e dal dott. Giuseppe Vergari già ricercatore presso lo stesso istituto del prof Fontanazza.
 
Come mai il prof. Fontanazza si è rivolto a voi per l’allestimento di questo importante campo sperimentale quindi un orto degli ulivi?
Siamo in contatto e collaboriamo da tempo e da questa collaborazione è  nata l’idea di cercare una soluzione che potesse vedere, oltre alle cultivar storiche Cellina e Ogliarola, sulle quali si sta continuando l’attività di ricerca finalizzata al raggiungimento di una convivenza fra patogeno batterio e ospite pianta, anche altre varietà italiane che possano essere coltivate in tutta tranquillità in virtù di una tolleranza o, meglio, una resistenza al patogeno.
 
Avete  già incontrato il prof. Fontanazza?
In questi giorni dopo aver sentito il prof. Francesco Lops e la dott.ssa  Antonia Carlucci dell’Università di Foggia che hanno la direzione scientifica dei progetti  di ricerca in atto per condividere con loro l’idea di questa nuova linea di ricerca, abbiamo chiesto e ottenuto un incontro all’accademico Umbro e quindi ci siamo recati a Perugia.

Che cosa avete chiesto al prof. Fontanazza?
La prima cosa che gli abbiamo chiesto è quella di metterci in condizione di dare risposte alle tante domande degli imprenditori agricoli del Salento. Questi ultimi infatti non sanno che fare.
 
E che cosa vi ha detto il professore?
Il prof . Fontanazza  ha subito approvato la linea di ricerca che stiamo seguendo perché può ottenere la convivenza tra le varietà esistenti e il patogeno. Inoltre ha suggerito di allargare l’indagine su altri genotipi  in suo possesso.
 
Da più parti viene chiesto di scegliere per il Salento varietà di olivo che tengano conto delle caratteristiche del territorio. Il prof. Fontanazza ha tenuto conto di ciò?
Abbiamo fatto presente proprio questo al prof. Fontanazza, che per questo motivo ci ha affidato un cospicuo numero di genotipi da lui ottenuti attraverso l’incrocio per selezionare quelli resistenti o tolleranti al batterio, ma non solo, gli abbiamo anche chiesto che i genotipi  venissero testati nei nostri ambienti affinché si possa verificare l’adattabilità alle condizioni climatiche e ambientali del Salento considerato che molti dei nostri oliveti sono coltivati in asciutto e che solo dopo secoli si è ottenuto quello che è oggi il paesaggio salentino.
 
Avremo quindi una nuova ricerca? Qual è il motivo che vi spinge a farla?
Tutti i nostri sforzi sono stati coerentemente profusi per ottenere la salvaguardia del nostro paesaggio. Ci siamo resi conto comunque che la ricerca è indispensabile perché, così come si evolvono i tempi che mutano le consuetudini, così accade per la nostra agricoltura. Siamo impegnati a cercare nuovi genotipi ma nello stesso tempo siamo determinati ad agire garantendo la continuità tra questo paesaggio e il paesaggio che verrà dopo.
 
Il Cnr di Bari ha scoperto questa particolare caratteristica della Favolosa. Intendete condividere le informazioni  con questo ente di ricerca?
Noi abbiamo sempre sostenuto che tutti devono poter fare ricerca liberamente e quindi siamo assolutamente disponibili alla condivisione delle informazioni con questi scienziati che hanno scoperto questa importante caratteristica nella varietà FS17. Questo ci spinge a verificare gli altri genotipi perché sia noi ,che i ricercatori del Cnr di Bari, pur da prospettive diverse, guardiamo tutti ad una stessa direzione ovvero alla soluzione del problema.
 
Con quali risorse finanziarie intendete fronteggiare i costi della ricerca?
Per  la realizzazione del campo sperimentale, sino a questo momento, non c’è nessun finanziamento. Noi così come gli scienziati dell’Università di Foggia continueremo a mettere a disposizione la nostra opera di volontariato così come sta facendo l’azienda che ha messo a disposizione il campo e i mezzi e quant’altro dovesse servire per la conduzione del campo sperimentale.
Anche questo tentativo messo in atto speriamo che possa tranquillizzare l’Europa, in maniera tale da ottenere immediatamente la possibilità di reimpiantare gli oliveti, e a dare una speranza al Mondo agricolo che è fatto da imprese e da piccoli coltivatori e che è protagonista di giuste e sacrosante proteste.
 
Antonio Bruno

Fonte: http://www.leccenews24.it/attualita/l-orto-degli-ulivi-per-sperare-in-una-moderna-olivicoltura.htm 

martedì 21 marzo 2017

MAURIZIO CEZZI ELETTO PRESIDENTE DI CONFAGRICOLTURA LECCE

DR.MAURIZIO CEZZI ELETTO PRESIDENTE DI CONFAGRICOLTURA LECCE

MAURIZIO CEZZI ELETTO PRESIDENTE DI CONFAGRICOLTURA LECCE
A conclusione di un periodo di commissariamento durato tre anni, Confagricoltura Lecce – Unione Provinciale Agricoltori – è tornata alla gestione ordinaria.
Soddisfatti tutti gli impegni statutari e definiti i nuovi assetti organizzativi ed amministrativi, l’Assemblea, convocata dal Commissario, d’intesa con la Confederazione Nazionale, ha eletto Presidente il Dr. Maurizio Cezzi, imprenditore agricolo di Maglie, socio “storico” della organizzazione salentina.
Vice Presidenti sono Pantaleo Greco e Gianluca Dell’Antoglietta.
L’Assemblea ha anche eletto cinque componenti il Consiglio Direttivo : Carlo La Tegola, Piernicola Leone De Castris, Francesco Marra, Giovanna Seracca Guerrieri e Antonio Venturi.
Eletto altresì il Collegio dei Probiviri nelle persone di : Vitantonio Arditi, Rocco Del Sole, Luigi D’Ercole, Alfredo Libertini, Maria Letizia Manfredonia e Piero Stamerra Grassi.
Il neo Presidente di Confagricoltura Lecce Maurizio Cezzi ha un passato con molteplici esperienze imprenditoriali, professionali e associative in settori pubblici e privati. E’ titolare di una azienda agricola in conduzione biologica (olivicoltura, cereali, foraggere, orticole), vivaistica (produzione di piante erbacee ornamentali e profumate) e agrituristica.
Ha ricoperto ruoli di consigliere dell’Associazione Produttori Olivicoli Aprol, di componente la deputazione amministrativa del Consorzio di Bonifica Ugento Li Foggi, di consigliere della Camera di Commercio.
Dottore Agronomo, ha svolto compiti di esperto presso la sezione agraria del Tribunale di Lecce e di esperto effettivo presso la sezione specializzata della Corte d’Appello.
Il Consiglio Direttivo di Confagricoltura, oltre agli eletti dall’Assemblea, si completa con i membri di diritto presidenti di organismi interni che sono : Beniamino Tanza, Nicola Palma, Bruno Della Tommasa, Giovanni Zuccaro, Siriana Congedi, Giovanbattista Guarini, Pasquale Guerrieri.
L’Unione Provinciale Agricoltori di Lecce era stata commissariata nel febbraio del 2014 dalla Confagricoltura nazionale. Nel ruolo di commissari si sono alternati prima l’Avv. Paolo Leccisi e successivamente il Dott.. Saverio De Bellis, entrambi coadiuvati dal sub commissario Dott. Antonio Vallebona.

domenica 12 marzo 2017

L'OLIVICOLTURA SALENTINA E LA SFIDA GENERAZIONALE


L'OLIVICOLTURA SALENTINA E LA SFIDA GENERAZIONALE
SEMINARIO
Sala Carlo V Hotel Hilton Garden Inn
Via Cosimo De Giorgi, 62 Lecce
Venerdì 24 Marzo 2017 ore 9.00
PRESENTAZIONE
• Apol, Cia ed Italia Nostra - Sezione Sud Salento, condividendo un percorso comune, hanno
promosso, nel periodo dicembre 2016 - marzo 2017, un calendario di appuntamenti tecnico -
programmatici al fine di sensibilizzare gli studenti e sollecitare gli imprenditori agricoli e le
Istituzioni a collaborare e a fare sistema, nella prospettiva di una nuova olivicoltura basata su
una rinnovata sostenibilità economica, ambientale e sociale. Le tre Organizzazioni hanno
inteso inoltre sottolineare il bisogno di formare giovani preparati, diplomati e/o laureati, capaci
in primo luogo di valorizzare la propria intelligenza e preparazione generale, acquisendo
competenze specialistiche mirate alle attività da svolgere.
• A questo scopo sono stati organizzati quattro corsi per aspiranti assaggiatori di oli di oliva
vergini, dei quali due riservati agli studenti dell'Istituto "Presta - Columella" di Lecce e altri due
destinati ad imprenditori ed appassionati del settore olivicolo (corsi autorizzati dalla Regione
Puglia, ai sensi del Decreto Mipaaf del 18 giugno 2014), mentre lo scorso 28 gennaio si è svolta
una Tavola Rotonda sul tema "Una nuova olivicoltura nel Salento, dalla tradizione
all'innovazione nel rispetto della sostenibilità economica e ambientale", che ha approfondito
alcune importanti tematiche legate alla nostra olivicoltura, con uno sguardo rivolto al futuro,
nella consapevolezza delle innumerevoli implicazioni fitopatologiche in atto.
• Gli studenti degli Istituti tecnici agrari "Presta - Columella" di Lecce ed "Egidio Lanoce" di
Maglie nelle settimane seguenti si sono confrontati sui temi trattati con i loro docenti e i
rappresentanti delle Associazioni organizzatrici e le loro riflessioni saranno, quindi, illustrate
nella Tavola Rotonda su "L'olivicoltura salentina e la sfida generazionale, il ruolo
dell'istruzione agraria e della formazione universitaria", con la partecipazione di autorevoli
rappresentanti del mondo scolastico-accademico, delle attività produttive e delle Istituzioni del
territorio.
• A seguito della Tavola Rotonda sarà stilato un documento di sintesi con cui si intende
contribuire al rafforzamento e alla progressione delle conoscenze scientifiche e delle loro
applicazioni in ragione di una fisiologica e auspicabile modernizzazione del settore olivicolo,
fattore determinante per migliorare i redditi agricoli italiani che nel periodo 2005-2014 sono
cresciuti ma solo del 14% rispetto alla media europea del 40%.
• Sullo sfondo risulta chiaro qual’è lo scenario dell'olivicoltura nel Salento che, nel rispetto del
paesaggio e dell’ambiente, deve saper essere anche innovativa e non aver paura del
cambiamento. Per tale ragione occorre lavorare insieme per superare le resistenze che per
troppo tempo hanno condizionato, a causa di individualismi e particolarismi, l’affermazione di
un settore da tutti considerato fondamentale per lo sviluppo del territorio.
• Risulta necessario che le nuove generazioni riflettano sull’importanza della collaborazione fra
produttori, determinante per acquisire nuove conoscenze, per aumentare le capacità
manageriali, per una maggiore qualità delle scelte e per qualificare sempre di più il prodotto
in un percorso di crescita che eviti l’arretramento e l’impoverimento del settore olivicolo.
• La Tavola Rotonda sarà preceduta da una Sessione dedicata alla presentazione dell'attività
svolta dall'APOL nella seconda annualità in esecuzione del "Programma di attuazione dei
Regg. UE 611-615/2014 nel triennio 2015/2018" e dalle relazioni dei Proff. Salvatore
Camposeo e Maria Lisa Clodoveo, dell'Università degli Studi di Bari Aldo Moro, e si concluderà
con la consegna degli Attestati di idoneità fisiologica all'assaggio ai partecipanti ai corsi per

assaggiatori di oli di oliva vergini

sabato 11 marzo 2017

Fagiolo con l'occhio (pasuli cu n'ecchiu) Vigna unguiculata


Il fagiolo dall’occhio o dolico dall’occhio nero è appartenente al genere Dalichos, d’origine afro-asiatica.
La più antica ricetta con i fagioli con l’occhio che conosciamo risale addirittura al I secolo dopo Cristo; nel “De re coquinaria” di Marco Gaio Apicio.
La storia del fagiolo dall’occhio è molto più antica dell’epoca Romana, tracce sicure testimoniano, infatti, che Egizi e Greci ne facevano uso ed era largamente coltivato nel Salento leccese ma, col passare del tempo, è stato progressivamente trascurato per la perdita di importanza economica. Ciò ha causato la scomparsa di molte varietà, tanto che solo alcune di esse sono rintracciabili presso agricoltori che le hanno mantenute in coltivazione per il consumo familiare o il mercato locale. In questa nota una proposta indirizzata alle Istituzioni per scongiurare il rischio di estinzione delle varietà superstiti.
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I proverbi, già! “Li uai te la pignata li sape sulu la cucchiara ca la ota” che tradotto significa “I guai della pentola li conosce il cucchiaio che li gira.” E nel Salento leccese la “pignata” è un recipiente in terracotta per la cottura dei cibi. La “pignata te pasuli cu n’ecchiu”. Che bel ricordo!
Era mio padre che chiedeva a mia madre la sera se l’indomani fosse il caso di fare questa “pignata” che indicava genericamente la pentola ma che si riferiva a ciò che la pentola doveva cuocere e inoltre significava che per poter mangiare i legumi era necessario che gli stessi fossero posti a bagno in acqua la sera precedente al giorno della cottura.
La pignata è una pentola che serve a cuocere i legumi che gli artigiani “figuli” del Salento leccese realizzano a mano e che smaltano esternamente fino ai manici. Ha due manici a forma di nastro che sono uno vicino all’altro e questo accorgimento permette si avere una buona presa inoltre la pignata può in questo modo essere avvicinata al fuoco sino all’inizio della smaltatura esterna, invece la parte della pignata che non è smaltata permette che possa trasudare il contenuto mantenendolo nello stesso tempo caldo.
La cottura dei legumi alla pignata ha un lungo procedimento che, come ho scritto, inizia la sera, che è il tempo in cui i legumi vengono messi a “bagno” con acqua e sale. Devono cuocere per un lungo tempo e comunque non meno di cinque ore. Attenzione quando li mettiamo nel camino perché vanno messi sulla brace, ma distanti dalla fiamma.
Le pignate devono essere due, una con i legumi, ricoperti di acqua, con l’aggiunta di sale, cipolla e pomodori e l’altra con sola acqua. L’acqua nella pignata coi legumi si scalda fino alla soglia dell’ebollizione, bisogna stare attenti però che non raggiunga mai l’ebollizione, in questo modo lentamente evapora e per questo motivo deve essere aggiunta acqua utilizzando la seconda pignata, ed è in questo modo che i legumi saranno sempre ricoperti di acqua.
Ma cos’è ”il fagiolo con l’occhio (Vigna unguiculata)?
E’ una leguminosa coltivata principalmente in Africa come la principale sorgente di proteine, ma presente anche in Italia con il nome di fagiolo dall’occhio. Originaria della Nigeria, si caratterizza per la spiccata resistenza ai climi desertici. E’ una ottima fonte di proteine e può diventare una valida alternativa alla soia nei mangimi zootecnici.
In Puglia sono coltivate molte varietà di fagiolo dall’occhio o dolico, sono apprezzatissimi come fagiolini mangiatutto, meno come fagioli secchi.
Ma perché si chiama “Vigna unguiculata”?
Il nome generico Vigna è stato attribuito in onore del botanico pisano del XVII secolo Bartolomeo Vigna che ha descritto questi fagioli, “unguiculata” sta per “con un’unghia”, “con uno zoccolo” e “con dita ad artiglio”. Unguicola (piccola unghia) caratterizza in zoologia le scimmie antropomorfe e l’uomo, in quanto ” a forma appiattita o incurvata solo trasversalmente, con punta rotonda e sporgente dal polpastrello”.
Ma la definizione esatta è quella botanicamente accettata che dice: “petalo che reca alla base un prolungamento con forma di unghia umana all’inserzione del ricettacolo fiorale”. Allora abbiamo capito perché il fagiolo con l‘occhio si chiama Vigna Unguiculata? Soddisfatti?
Se il fagiolo con l’occhio viene dall’Africa, allora perché mai coltivare il Fagiolo con l’occhio del Salento leccese se invece si possono acquistare a prezzi stracciati tutti i semi che si vogliono dal mercato globale?
Intanto possiamo senz’altro dire che siccome è diffusissimo il consumo allo stato fresco come “fagiolini mangiatutto”, è bene coltivarlo in zona! Hai capito bene! Quei gustosi piatti di fagiolini, lunghi come spaghetti, che non vedi l’ora di mangiare, altro non sono che i fagioli con l’occhio appena colti!
Ma anche se si raccolgono allo stato secco il fagiolo con l’occhio del Salento leccese, anzi quello di quel proprietario di un pezzetto del Paesaggio rurale del Salento leccese, è il risultato di una sapienza che gli è stata trasmessa sotto forma di seme dai suoi antenati!
Infatti a Perugia Negri, Floridi e Montanari hanno effettuato uno studio per la valutazione di quattro antiche varietà di Fagiolo con l’occhio (Vigna unguiculata). La valutazione è stata effettuata per caratteri organolettici come l’attrattiva visuale, la prima impressione in bocca, la durezza dei tegumenti del seme e per i caratteri chimici come la percentuale di ceneri sulla sostanza secca, l’azoto totale, i carboidrati, la fibra e i lipidi.
La cosa sorprendente è che sono state scientificamente riscontrate differenze significative per tutti i caratteri organolettici ad eccezione per la durezza dei tegumenti del seme e sono state riscontrate differenze significative anche nei caratteri chimici sia per le proteine che per i carboidrati totali.
La conclusione a cui sono giunti gli studiosi è stata che con la selezione operata dalle singole famiglie che hanno coltivato il fagiolo con l’occhio nel corso di centinaia di anni si sono avute varietà con enormi differenze tra i vari semi anche se ci si trova in una zona piuttosto ristretta.
La differenza tra varietà locali di fagiolo con l’occhio e varietà commerciali, offre un fondamento scientifico per richiedere marchi di tipicità e unicità della qualità come la Denominazione di origine protetta che potrebbero contribuire ad estendere l’area di coltivazione delle varietà locali ottenendo la salvaguardia della biodiversità “in situ”.
Per quanto riguarda il nostro territorio, sulla base delle informazioni disponibili risulta che la coltivazione di varietà locali appartenenti a questa specie è ormai limitata a piccoli areali del Salento leccese.
Ma come ho già scritto esiste il modello dell’attività condotta dall’Università di Perugia che ha permesso un dettagliato monitoraggio della zona intorno al lago Trasimeno dove sono coltivate numerose varietà locali di quella che è localmente denominata “fagiolina del lago”.
L’Università di Perugia per la conservazione ex situ del materiale raccolto nella zona intorno al lago Trasimeno ha creato una struttura ad hoc gestita dal Dipartimento di Biologia Applicata dell’Università di Perugia in collaborazione con la Provincia e situata sull’isola Polvese (PG), nel Parco Scientifico Didattico del Lago Trasimeno.
La stessa collezione è duplicata presso il Dipartimento dell’Università. E l’Università del Salento non potrebbe “imitare” questa buona pratica facendo qualcosa di simile per le varietà di Vigna unguiculata (L.) Walpers del Salento leccese?
Cosimo De Giorgi scrisse nel 1879 all’allora Ministro dell’Agricoltura circa l’alimentazione a base di cereali e di civaje della popolazione del Circondario di Lecce. Tra le civaje c’è il fagiolo con l’occhio (Vigna unguiculata) e quindi mi chiedo e vi chiedo: che aspettano gli scienziati dell’Orto Botanico di Lecce a mettere in moto la macchina così come hanno fatto gli scienziati di Perugia?
Le varietà commerciali di fagioli con l’occhio, che con ogni probabilità provengono dalla Nigeria, vengono vendute sul Web 2.0 dai 3 sino a 4 euro al chilo. Siccome è considerata “buona” la produzione di 2000 chili di fagioli per ettaro già se fosse garantito il prezzo delle varietà commerciali, si avrebbe una produzione lorda vendibile dai 6mila agli 8mila euro per ettaro.
Ma se la mia proposta fosse accolta, con gli studi dell’Università e con la legge Regionale, i fagioli con l’occhio del Salento leccese potranno ottenere la Denominazione di origine protetta e, in tale ipotesi, è probabile che i prezzi emuleranno quelli che spunta il pisello nano di Zollino che viene venduto sul Web 2.0 a 7 euro al chilo e se ciò si verificasse, la produzione lorda vendibile salirebbe a 12- 14mila euro per ettaro. Vale la pena di coltivarlo vero?
Antonio Bruno

Agronomo

martedì 7 marzo 2017

Aridocoltura e Salento Leccese



di Antonio Bruno*

Per capire di cosa si intende per cambiamenti climatici dobbiamo pensare alla pioggia che se normalmente si distribuisce nell’arco di tutto l’anno e solo ECCEZIONALMENTE per un periodo abbastanza lungo non piove, dobbiamo definire ciò con il nome di SICCITA. Se invece la mancanza di precipitazioni atmosferiche si ripete negli anni non ci troviamo più di fronte ad un evento eccezionale ma possiamo certamente affermare che si tratta di un cambiamento climatico.
Proprio alla luce di questa definizione possiamo affermare con certezza che il clima sta cambiando anche alla luce delle conclusioni della ricerca del Prof. Lionello dell’Università del Salento che afferma: ”L’insieme delle osservazioni e delle simulazioni numeriche, suggerisce sia in atto una transizione verso un clima sostanzialmente più caldo e marginalmente più secco che continuerà nelle prossime decadi. È verosimile che diverse condizioni climatiche determinino delle criticità nella produzione agricola (nonché in altri settori economici e sull’ambiente)”
Questo cambiamento determina la necessità di un adattamento. L’agricoltura, può svolgere rispetto ai cambiamenti climatici molteplici ruoli nel campo della mitigazione.
Quindi le politiche possibili rispetto ai cambiamenti climatici che stanno andando verso la direzione di meno precipitazioni atmosferiche e verso la desertificazione, sono prevalentemente di adattamento, nel senso di adottare colture e tecniche di coltivazione in aridocoltura che consumano meno acqua. Le sinergie che possono attivarsi riguardano l’agricoltura che, com’è noto, interagisce con le risorse idriche e con le risorse energetiche.
Il clima per noi cambia e determina delle conseguenze che sono da ascriversi a un impoverimento delle risorse idriche e per far fronte a tale situazione vi è la necessità di un adattamento che sinteticamente è rappresentato dal RITORNO ALL’ARIDOCOLTURA.
Peraltro tale tecnica di coltivazione è familiare al Salento che dopo la Riforma Fondiaria e le grandi opere di adduzione delle acque dalla Basilicata ha potuto mettere in atto l’agricoltura irrigua.
LA MITIGAZIONE invece riguarda quei processi che immettendo sostanze nell’ambiente contribuiscono a determinare i cambiamenti climatici. L’effetto serra è uno di queste conseguenze che l’agricoltura contribuisce a determinare specificamente con le emissioni del settore zootecnico. Inoltre l’agricoltura può determinare una mitigazione anche delle emissioni di CO2 con il SEQUESTRO DELLA CO2 ad opera della forestazione.
Alcuni studi hanno dimostrato la tendenza per la risorsa idrica è di una diminuzione del 50% nel 2070. L’impatto atteso in Europa riguarda il Sud Europa in cui si prevede una diminuzione delle precipitazioni atmosferiche (piogge e quindi acqua) e un aumento della temperatura come confermano gli studi del Prof. Lionello. Tale situazione non è attesa nel Nord Europa.

Tale circostanza, è fonte di rischi e di opportunità. Si deve tener conto alla tipicità, ovvero delle combinazioni pedo – climatiche con la quale valutare rischi e opportunità perché e del tutto ragionevole affermare che in funzione di questa riduzione della disponibilità idrica vi sarà una riduzione delle risorse e un aumento dei conflitti per l’acqua.
Detto questo vi è da prendere in considerazione le possibili soluzioni al probabile problema della riduzione della risorsa idrica. Vi è la necessità di una gestione integrata dell’acqua in prospettiva dei Cambiamenti climatici. La vulnerabilità si riduce con il risparmio idrico se noi facciamo seguire alla riduzione del 50% della risorsa idrica un risparmio del 50% della stessa risorsa avremo risolto il problema. Ma soprattutto, bisogna abbandonare l’ottica della gestione della crisi e passare alla gestione del rischio che rappresenta una strategia derivante dalle previsioni del rischio che possono essere fatte.
Vi è la necessità di aumentare la resilienza, ovvero la capacità del territorio di adattarsi rispetto allo stress esterno proveniente dai cambiamenti climatici. Esiste un menu di soluzioni, ma soprattutto vi è la necessità di creare dei sistemi che siano resistenti all’instabilità con azioni di INAZIONE o di ADATTAMENTO.
In conclusione affinché l’agricoltura rappresenti un fattore di adattamento e mitigazione dei cambiamenti climatici vi è la necessità che la collettività la consideri oltre che impresa economica anche UN IMPRESA CHE FORNISCE SERVIZI AMBIENTALI ECOSITEMICI.




*Dottore Agronomo (Esperto in diagnostica urbana e territoriale titolo Universitario International Master’s Degree IMD in Diagnostica Urbana e territoriale Urban and Territorial Diagnostics).

sabato 4 marzo 2017

Il cotone coltivato nel Salento leccese nel 1327 reintrodotto dal Prof. Ferdinando Vallese nel 1905


IL PRIMO STADIO DELLA LAVORAZIONE DEL COTONE - Foto di GIUSEPPE PALUMBO (1889-1959)

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Il Prof. Ferdinando Vallese nel 1905 afferma che nell'Orto Botanico di Lecce le piante che hanno un ciclo vegetativo invernale o che si prolunga sino alla Primavera, vegetavano benissimo, invece le colture erbacee che hanno un ciclo estivo oppure che si prolungano sino all'autunno vegetavano stentatamente.
Il Prof. Ferdinando Vallese sottolinea che nei terreni adatti, essendo il cotone una pianta che non intralcia affatto e non richiede modificazioni nell'avvicendamento delle piante erbacee usato si presta per lo sfruttamento delle terre a maggese (Maggese viene dal latino “Maius” maggio. Era, infatti, in quel mese che in epoca medievale si era soliti dissodare il campo ed è la parte di un campo lasciato a riposo o a pascolo, senza alcuna coltivazione) che attendono la semina del frumento.
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Bartolomeo Ravenna scrive che Federico II di Svevia significò la riconoscenza per fedeltà e dedizione a Gallipoli, ed è per questo che spedì da Palermo un diploma, che concedeva vari privilegi e tra questi che la città di Gallipoli restasse abilitata la cura del lino nel ristagno detto li Foggi, non deve essere sottovalutato questo importantissimo privilegio, perché nel 1200 nel territorio di Gallipoli la semina del lino (e non l’olio) era una delle maggiori fonti di guadagno.
Ferdinando Vallese nel 1905 descriveva le colture erbacee che venivano praticate nell'Orto Botanico di Lecce e affermava che le piante che hanno un ciclo vegetativo invernale o che si prolunga sino alla Primavera, vegetavano benissimo, invece le colture erbacee che hanno un ciclo estivo oppure che si prolungano sino all'autunno vegetavano stentatamente poiché in quel periodo non era disponibile l'acqua dei pozzi e delle cisterne presenti nell'orto botanico di Lecce in quanto si stava provvedendo alla loro ristrutturazione.
Il prof. Vallese riferisce che si erano introdotte delle piante nuove come il cavolo di Bruxelles, la cicoria di Treviso; i pomodori Cristoforo Colombo, Mikado, Umberto I, Ponderoso; le patate Earlyrose, Iuval, Manhattan, Prince de Galles, Belle de Iullet, Fiocco d'oro d'Erfurt, Geant de l'Ohio, Agnelli ma che queste non avevano destato alcun interesse nei coltivatori che visitano l'orto botanico.
Nel 1904 nell'orto era stata introdotta la pianta del piretro di cui ho già scritto nel mio articolo http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2010/03/conviene-coltivare-il-fiore-che-uccide.html le cui infiorescenze hanno azione insetticida. Le piante giunsero a Lecce direttamente dalla Dalmazia dove in quegli anni si coltivava nei terreni asciutti e ben esposti. Secondo il Prof. Ferdinando Vallese ogni agricoltore dovrebbe avere nei suoi terreni qualche piccolo appezzamento coltivato a piretro perché, anche se non potesse dare luogo a grandi coltivazioni, l'agricoltore potrebbe raccoglierne i fiori e bruciarli nelle abitazioni per procurarsi, durante l'estate, sonni tranquilli senza ricorrere ai costosi coni fumanti che si usavano allora.
Nel 1905 il Prof. Ferdinando Vallese scrivendo del cotone riferendo che era stato largamente coltivato nella Terra d'Otranto e che, a seguito del rialzo dei prezzi di quel periodo, gli agricoltori del circondario di Taranto e di Brindisi erano interessati a una reintroduzione.
Comunque le oscillazioni dei prezzi del mercato cotoniero, provocate da speculazioni e manovre commerciali, secondo il Prof. Vallese erano talmente frequenti da non riuscire a instillare grande fiducia nell'animo dei coltivatori.
Ecco una buca per macerare il lino in agro di Soleto. Il fondo che la contiene si chiama ancora li foggi

La coltivazione del cotone nella Terra d'Otranto, secondo il responsabile della Cattedra Ambulante dell'Agricoltura, era sostenibile. Il Prof. Ferdinando Vallese sottolinea che nei terreni adatti, essendo il cotone una pianta che non intralcia affatto e non richiede modificazioni nell'avvicendamento delle piante erbacee, si presta per lo sfruttamento delle terre a maggese (Maggese viene dal latino “Maius” maggio. Era, infatti, in quel mese che in epoca medievale si era soliti dissodare il campo ed è la parte di un campo lasciato a riposo o a pascolo, senza alcuna coltivazione) che attendono la semina del frumento. Nel 1905 le varietà di cotone in uso erano due e cioè quella a fibra bianca e quella a fibra avana, nota con il nome di cotone barbaresco. Nel 1905 l'Orto Botanico di Lecce aveva sperimentato alcune varietà di cotone i cui semi erano stati forniti dalla Casa Vilmorin et Andrieux di Parigi e cioè: Cotone d'Egitto Mit-Afifi, Cotone della luigiana (corta fibra), Cotone di Georgia (lunga fibra), Cotone d'Egitto Abassy, Cotone sea Island (lunga fibra), Cotone choice Upland, Cotone d'Egitto Iannovich.
La cotonicultura fra '700 ed '800, era molto diffusa. Le prime notizie sulla coltura del cotone risalgono al 1327, ma solo dal XVII secolo il suo peso economico iniziò a crescere in maniera sensibile.
Tra la fine del '700 e gli anni '60 dell' 800 la coltura si diffuse enormemente ma la concorrenza delle coltivazioni americane e asiatiche la fece ridimensionare e scomparire negli anni che seguirono. Il cotone era coltivato secondo due modalità. La coltura estensiva era inserita nel ciclo agrario quadriennale e che completava il ciclo vitale fra primavera ed estate, copriva il maggese nei mesi immediatamente precedenti la semina del grano. Condotta a secco, doveva essere approvvigionata d'acqua dalle piogge primaverili, la resa era scarsa e il prodotto meno pregiato.
La coltura intensiva rispondeva alle elevate esigenze idriche della pianta in fase vegetativa, per cui erano particolarmente indicati pantani, lame e terre sommerse per periodi più o meno lunghi dell'anno, ma anche saline dismesse. In questi terreni, infatti, il periodo di carenza idrica era considerevolmente più breve.
Il cotone alimentava anche un diffuso artigianato domestico. Verso la fine del Settecento comparvero, tuttavia, alcuni grossi imprenditori del settore tessile, che attrezzarono officine con decine di telai, ai quali serviva mano d'opera femminile.
La raccolta avveniva in estate quando le bacche si schiudevano e appariva un batuffolo di cotone che veniva separato dai semi con il “TORNU TE LA CAMMACE (bambagia)”. La “cammace” (bambagia) che si raccoglieva veniva filata con il fuso e il filo ottenuto raccolto per mezzo di “lu matassaru” (arcolaio). Il cotone veniva poi sistemato sulla “macinnula” (attrezzo usato anticamente per filare la lana) e con “lu tornu te le canneddhe” veniva avvolto in rulli di canne “le canneddhe”.
L'attività tessile rimase, tuttavia, a lungo attiva, seppure limitatamente all'originale ambito familiare.
Un'ultima annotazione sull'uso di cotone Bt bacillus thurigensis che all'inizio sembrava davvero che funzionasse: in Cina il passaggio alla coltivazione di cotone Bt (Bt sta per bacillus thurigensis, bacillo che produce una certa tossina letale per alcuni parassiti e in particolare per la «bolla del cotone», un vermetto capace di distruggere interi raccolti) aveva avuto l'effetto di aumentare la produzione e ridurre in modo notevole la quantità di pesticidi, cioè insetticidi agricoli, irrorata sui campi. Ora però anche questo beneficio si rivela effimero: uno studio della Cornell University dice che 7 anni dopo, i coltivatori cinesi di cotone Bt bacillus thurigensis sono costretti a usare pesticidi in quantità identica a quelli utilizzati da chi coltiva cotone senza Bt bacillus thurigensis.
Insomma la natura è così potente che ciò che noi facciamo per condurla verso i nostri scopi viene aggirato dalla sua sapienza. Basta osservare i terreni incolti che dopo non molto iniziano a divenire pseudosteppa e poi gariga, macchia e infine bosco.

Antonio Bruno Dottore Agronomo

Bibliografia

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V.A. Greco: Vicende della cotonicoltura nell’economia del Tarantino, in Umanesimo della Pietra-Verde 9, Martina Franca, (1994), pp 98-126.
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