Il vino che viene dal freddo
Susannah Savage, Financial Times, Regno Unito
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Bjørn Bergum durante la vendemmia nell’azienda vinicola Slinde, in Norvegia (Charlie Bibby, financial times) |
Con il riscaldamento globale la viticoltura si sta
diffondendo anche nei paesi del Nordeuropa, dalla Polonia alla Scandinavia. Una
rivoluzione che trasformerà il nostro rapporto con il vino
Al ristorante parigino Les 110 de Taillevent, un due stelle
Michelin specializzato nell’abbinamento di gastronomia ed enologia, la carta
dei vini riflette la tradizionale gerarchia europea: dominano le etichette
francesi, poi ci sono quelle italiane, le spagnole e qualche bottiglia
californiana. Una voce spicca in particolare, un vino bianco danese: il Cuvée
Frank, 28 euro al calice, prodotto dall’azienda vinicola Stokkebye, nel sud
della Danimarca. Con un breve invecchiamento in rovere, questo vino fresco con
aromi di mela verde e ananas ha anche “un vago sapore di nocciola”, dice Paul
Robineau, il capo sommelier del gruppo che gestisce i ristoranti Taillevent. La
sua presenza in lista, però, segnala soprattutto qualcos’altro: una
ridefinizione della mappa enologica europea.
La crisi climatica ha esteso la viticoltura a territori fino
a ieri troppo freddi, costringendo al tempo stesso le regioni vinicole
tradizionali ad adattarsi alle temperature in aumento. “Dieci anni fa non
avresti mai trovato un’etichetta danese nella carta dei vini”, spiega Robineau.
“Ma con il cambiamento climatico la Danimarca potrebbe produrre vini di grande
qualità”.
Situata sull’isola di Fionia, a due ore di auto da
Copenaghen, la tenuta Stokkebye è nata nel 2009 come esperimento agricolo. Il
sommelier Jacob Stokkebye e sua moglie Helle avevano deciso di vedere se il
clima locale avrebbe permesso di coltivare la vite. A quel tempo, il mondo del
vino danese era in gran parte confinato a poche persone che sperimentavano,
essenzialmente per hobby, vitigni resistenti al freddo. La combinazione tra
riscaldamento globale e progressi della viticoltura ha però trasformato questa
avanguardia, un tempo inimmaginabile, in un’industria piccola ma vivace. Negli
ultimi dieci anni in Danimarca il numero di vigneti è raddoppiato e la
produzione è triplicata. “Il clima di oggi qui è simile a quello di alcune zone
della Francia degli anni sessanta”, spiega Jacob. “E questo ci consente di
produrre vini con la freschezza e l’acidità che avevano le bottiglie francesi
di quell’epoca”.
Regole e carattere
I vini provenienti dai paesi del nord sono sempre più
apprezzati sul mercato, mentre diverse regioni vinicole storiche – come il
Bordeaux, in Francia, o la Rioja, in Spagna – sono alle prese con climi troppo
caldi, uve troppo mature e poca acqua. Il cambiamento sta costringendo il mondo
del vino a riconsiderare le vecchie certezze sul terroir, cioè
quell’interazione tra suolo, clima e abilità umana che ha definito l’identità
del vino per secoli.
Il terroir lega un vino alla sua geografia, promettendo ai
bevitori non tanto una bevanda alcolica quanto un vero distillato dell’identità
di un luogo, sostiene Lamberto Frescobaldi, presidente della Marchesi de’
Frescobaldi, una delle più grandi aziende vinicole italiane, e dell’Unione
italiana vini (Uiv). Adattare il concetto di terroir al cambiamento climatico
mette a dura prova il sistema di denominazioni usato in Francia, Spagna, Italia
e in molti altri paesi europei per proteggere la particolarità culturale e
geografica di ogni regione vinicola. La denominazione controllata è il motivo
per cui una bottiglia di barolo o di borgogna non è definita solo dal suo
sapore, ma anche dai rigidi criteri che ne regolano la produzione.
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Alcuni sostengono che le regioni vinicole tradizionali
debbano riscrivere queste regole se vogliono competere con i pionieri dei climi
più freddi, che non sono gravati da leggi vinicole secolari. “Le mie ricerche
mi convincono sempre di più che questa non sia una coltura in via di
estinzione”, afferma Elizabeth Wolkovich, esperta di clima e fenologia. “Non
c’è nessun rischio che l’uva da vino scompaia, ma ci sono grandi cambiamenti in
arrivo”. I viticoltori, per esempio, devono introdurre nuovi vitigni o irrigare
di più i vigneti. Ma non tutti sono d’accordo. C’è infatti anche chi sostiene
che questi adattamenti rischiano di uccidere l’identità di un vino,
offuscandone il marchio e compromettendone il valore commerciale. “Se irrighi
un vigneto, perdi il terroir”, dice Robineau, prima di paragonare il vino da
uve troppo irrigate a un viso che ha fatto troppi trattamenti con il botulino.
“Magari ha anche un bell’aspetto, ma a un certo punto comincia a perdere il suo
carattere e a diventare meno interessante”.
Nel mondo esistono circa 1.500 vitigni, ma la decina di
varietà che ha dominato il settore negli ultimi centocinquant’anni e che
produce i vini più celebrati cresce in fasce climatiche relativamente
ristrette. Durante la stagione della crescita, le temperature medie dovrebbero
idealmente variare tra i 12 e i 22 gradi. Tuttavia anche in questo intervallo
la velocità di maturazione dei vitigni è diversa. Le uve precoci come il pinot
nero raggiungono il picco mesi prima di quelle tardive come il cabernet
sauvignon. Il trucco, dicono i coltivatori, è allineare la maturazione al mite
clima dell’inizio dell’autunno, che è necessario per l’accumulo di zuccheri e
tannini nell’acino. Se il tempo è troppo poco, l’uva giunge a maturazione prima
di aver sviluppato il suo sapore, mentre troppo calore può renderla sciropposa,
e portare a una eccessiva produzione di alcol nel processo di fermentazione. Il
terreno gioca un ruolo più sottile: i vini migliori provengono da viti
coltivate in terreni poveri di nutrienti e di acqua, che concentrano i composti
aromatici negli acini. In passato la stabilità climatica dell’Europa ha
permesso al concetto di terroir di affermarsi, elevando il vino da semplice
merce a espressione di un luogo e di una cultura. Ma il riscaldamento globale
ha cambiato tutto in modo irreversibile. “Se vi piacevano i vini di Bordeaux
degli anni settanta e ottanta, sappiate che sono finiti per sempre”, afferma
Wolkovich. “Il clima stabile che avevamo negli anni cinquanta e sessanta non
esiste più. Quindi non possiamo avere i vini che la gente amava a quell’epoca”.
Marilou Vacheron, una viticoltrice di quarta generazione
della tenuta Clos du Caillou a Châteauneuf-du-Pape, racconta che “negli ultimi
dieci anni il clima della zona è diventato sempre più estremo, con prolungati
periodi di siccità intensa e violente grandinate. Nel periodo che va dalla
fioritura alla vendemmia, abbiamo osservato un aumento della temperatura di 3
gradi, abbinato a una riduzione delle precipitazioni di circa 50 millimetri”.
Le temperature in aumento hanno anticipato l’invaiatura, il momento in cui i frutti
cominciano a maturare e le bucce degli acini passano dal colore verde al giallo
o al viola, cosa che spinge i viticoltori a vendemmiare prima. Un documento con
le date delle vendemmie a Beaune, in Borgogna, a partire dal 1354 rivela che,
dal 1988, nella regione la raccolta dell’uva è avvenuta in media 13 giorni
prima rispetto alla date precedenti.
Il clima stabile che avevamo negli anni cinquanta e sessanta
non esiste più
Nella regione dello Champagne la vendemmia si svolgeva
tradizionalmente a metà settembre, per garantire l’acidità che è il segno
distintivo delle uve locali. Oggi è sempre più comune che si cominci a metà
agosto. Tuttavia, fa notare Wolkovich, le uve che maturano troppo velocemente
possono provocare “un sovraccarico di zucchero, una scarsa acidità e uno
sbilanciamento dei tannini”. Il risultato è un vino più alcolico e meno
raffinato. Robineau cita il caso del pinot nero, da tempo apprezzato per il suo
basso contenuto alcolico, la sua acidità e freschezza. “Negli ultimi anni
abbiamo avuto un pinot nero con più del 15 per cento di alcol. Non era mai
successo negli ultimi cinquant’anni”. Il cambiamento climatico sta anche
modificando i periodi di dormienza, cruciali per la salute della vite. Gli
inverni più caldi spingono le piante a interrompere prima la dormienza,
esponendo le gemme più tenere al rischio di essere danneggiate dalle gelate
primaverili. Nel 2021 la Francia ha vissuto un inverno eccezionalmente caldo
seguito da un’ondata di freddo anomalo ad aprile. Le viti, appena germogliate,
sono morte per le gelate e il raccolto è stato il più misero dalla seconda
guerra mondiale.
Il caso norvegese
Anche l’Europa meridionale ha sperimentato siccità
prolungate che hanno messo alla prova la resistenza perfino dei vigneti più
forti. “Per produrre vino di alta qualità è necessario un certo grado di
deficit idrico”, spiega Cornelis van Leeuwen, professore di viticoltura della
Bordeaux Sciences agro, la scuola nazionale superiore delle scienze
agronomiche. “Ma c’è un punto di rottura. Se la siccità è troppa, le rese
crollano”. Un modello statistico sviluppato da Giovanni Sgubin e dai suoi
colleghi dell’università di Palermo ha analizzato l’idoneità dei vigneti
europei in vari scenari climatici, tenendo conto di temperature, precipitazioni
e umidità, e ha scoperto che le regioni vinicole esistenti potrebbero adattarsi
ragionevolmente bene a un aumento di 2 gradi centigradi delle temperature
globali rispetto ai livelli preindustriali. Oltre quella soglia, però, la quota
dell’attuale superficie europea coltivata a vite e in grado di dare frutti
adatti a produrre un buon vino cala drasticamente. Le regioni costiere e di
pianura in Spagna, Italia e Grecia sono particolarmente vulnerabili. Il team di
Sgubin prevede che siccità e ondate di calore potrebbero rendere inadatto alla
produzione vinicola il 90 per cento di queste aree entro la fine del secolo.
Mentre l’Europa meridionale è alle prese con sfide
potenzialmente esistenziali, nel nord del continente le temperature più elevate
hanno trasformato terreni un tempo marginali in promettenti vigneti. Con i suoi
terreni calcarei e un clima fresco che ricorda quello dello Champagne,
l’Inghilterra è diventata una potenza nella produzione dei vini spumanti. E con
le estati che si allungano, il vino fermo inglese sta guadagnando terreno.
Nell’ultimo decennio si è sviluppata rapidamente anche l’industria vinicola
polacca, mentre Estonia, Lituania e Lettonia producono vini che, pur se in
quantità modesta, lasciano presagire un futuro in cui l’Europa settentrionale
sarà protagonista dell’industria vinicola mondiale
Perfino i paesi scandinavi stanno ottenendo buoni risultati.
In Norvegia, Bjørn e Halldis Bergum, che gestiscono il vigneto commerciale più
settentrionale del mondo, hanno assistito in prima persona all’impatto del
cambiamento climatico sulla vinificazione. Arroccato sui ripidi pendii sopra il
Sognefjord, a nord di Bergen, la loro tenuta, che si chiama Slinde, è un
mosaico di filari bassi curati scrupolosamente a mano.
“La primavera arriva prima e l’inverno è posticipato”,
spiega Bjørn, “rispetto a quarant’anni fa c’è forse un mese di gelo in meno”, e
prevede che presto i vini norvegesi potrebbero fare concorrenza a quelli
francesi. Le lunghe giornate estive garantiscono fino al 30 per cento di luce
in più per la fotosintesi, aumentando la concentrazione di zuccheri e
l’aromaticità dei frutti. “Se qui in Norvegia riuscissimo a far maturare del
riesling e dello chardonnay, forse avremmo la possibilità di produrre vini ancora
migliori dei loro”, afferma. In Norvegia, inoltre, la produzione non è
vincolata dal sistema delle denominazioni. “Qui non abbiamo regole”, dice
Bjørn, che ha testato 55 diverse varietà di uva. La sua missione è inventare
qualcosa di completamente nuovo, adattando le sue scelte ai microclimi
norvegesi. Ogni stagione è una scommessa, perché alcune varietà crescono bene,
mentre altre si dimostrano inadatte.
Come cambia la mappa del vino
- Financial
TimesFinancial Times
A Stokkebye in Danimarca, Jacob e Helle adottano un
approccio diverso. I loro metodi sono molto legati alla tradizione e traggono
ispirazione dai processi secolari usati nello Champagne. Gli spumanti della
tenuta Stokkebye, realizzati con uve Pinot nero, sono spesso confusi con i più
famosi vini francesi. “È solo questione di tempo prima che i produttori
francesi comincino ad acquistare terreni qui in Danimarca”, prevede Stokkebye,
aggiungendo che alcuni viticoltori francesi hanno già fatto offerte.
In termini commerciali, i vini del Nordeuropa sono ancora ai
primi passi. “Bisogna capire se i consumatori si faranno convincere da
produttori che stanno cercando di coltivare la vite in posti nuovi e non hanno
la stessa storia culturale della vecchia viticoltura”, riflette Wolkovich.
Frescobaldi afferma invece che la crescita di nuovi concorrenti, come
l’Inghilterra o la Danimarca, “spinge tutti noi a produrre vino migliore”.
Come cambia la mappa del vino
- Financial
TimesFinancial Times
Cambiare e adattarsi
Ma per farlo, e per affrontare al meglio il cambiamento
climatico, i produttori mediterranei devono adattarsi. Molti stanno già
piantando le cosiddette colture di copertura, che competono con le viti per
acqua e sostanze nutritive, rallentando la maturazione dei frutti. Altri hanno
abbandonato la pratica della potatura, lasciando che le foglie non tagliate
proteggano l’uva dal calore intenso del sole. In Toscana i vigneti vengono
piantati ad altitudini più elevate, dove le notti più fresche rallentano la
maturazione. “L’obiettivo non è solo sopravvivere, ma produrre vini che
esprimano ancora la loro identità unica”, dice Frescobaldi. Tuttavia, per molti
viticoltori le innovazioni più efficaci sono anche le più controverse:
scegliere vitigni più adatti al nuovo clima e irrigare il terreno.
Alcuni grandi produttori, come lo spagnolo Torres, stanno
recuperando varietà autoctone dimenticate e più resistenti al calore, mentre a
Bordeaux è stata presa la decisione storica di consentire l’uso, secondo le
regole della denominazione controllata, di vitigni mediterranei come il
marselan e la touriga nacional, originaria del Portogallo. Tuttavia, introdurre
nuove varietà di uva o modificare le pratiche può richiedere decenni, per le
difficoltà fisiche e logistiche, e per gli ostacoli normativi. Molti produttori
ritengono che il sistema sia ancora troppo rigido. Altri, invece, temono che
questi cambiamenti minaccino la qualità dei vini delle regioni storiche, come
la Borgogna, mettendo a rischio la fiducia e l’attaccamento dei consumatori, costruiti
nel corso dei secoli.
Le autorità francesi stanno consentendo ai produttori di
vini a denominazione controllata di irrigare le viti con maggior frequenza a
causa delle scarse precipitazioni e delle ondate di calore. Van Leeuwen
racconta che molti viticoltori stanno facendo pressione per un ulteriore
allentamento delle regole. Ma è irremovibile nel sostenere che la regione di
Bordeaux non ne ha bisogno. “Abbiamo 800 millimetri di pioggia all’anno. E se
consideriamo le annate migliori, sono sempre quelle più secche”. Nella regione
della Linguadoca, nel sudovest della Francia, oggi circa il 20 per cento dei
vigneti è irrigato, spiega van Leeuwen, che poi aggiunge: “Sono piuttosto
preoccupato per questa tendenza”. Il motivo è che sfrutta risorse idriche già
limitate e rischia di abbassare la qualità del vino.
L’uso di varietà ibride appositamente selezionate è un altro
tema di dibattito. Se in Danimarca, Svezia e nei paesi baltici oggi si fa il
vino, in gran parte è merito di vitigni resistenti alle intemperie, come il
solaris. Nell’Europa meridionale, gli ibridi garantiscono invece resistenza
alla siccità e alle muffe, consentendo ai viticoltori di adattarsi a un clima
più caldo e secco senza ricorrere all’irrigazione o alla chimica. “Gli ibridi
sono promettenti perché richiedono meno irrorazioni e hanno un impatto
ambientale minore. Ma hanno ancora molta strada da fare”, dice Frescobaldi. “In
Toscana abbiamo piantato piccoli terreni di prova con degli ibridi, ma non
stanno dando risultati soddisfacenti. Per il momento non li imbottiglierei”.
Wolkovich nota che il processo di selezione è ancora agli inizi: “Coltiviamo
pinot nero da duemila anni. Gli ibridi, invece, stanno ancora cercando la loro
strada”.
La sostituzione dei vitigni e l’uso di nuove pratiche in
vigna sfidano il concetto stesso di terroir. “Il vino deve essere il riflesso
del suo territorio, della sua posizione”, sostiene Frescobaldi. “Se coltiviamo
tutto dovunque, perdiamo il senso del luogo, l’identità del vino. La nostra
responsabilità di produttori è insistere su questo senso di origine”.
“Come si può fare un bordeaux con il touriga?”, chiede
Robineau. “È ovvio che il concetto di terroir si perde, perché il touriga non è
un’uva originaria del bordolese”. Ma Wolkovich ricorda che, per quanto riguarda
i più drastici casi di adattamento, un precedente c’è già. Alla fine
dell’ottocento un’epidemia di fillossera (un parassita della vite) devastò i
vigneti europei e costrinse i coltivatori a un grande sforzo di reimpianto. Il
carattere dei bordeaux o dei borgogna di oggi “è il risultato di decisioni
prese poco più di un secolo fa”, spiega Wolkovich. “Il vitigno è solo una
piccola componente della magia del vino. Non so se i consumatori lo capiranno,
ma spetta anche all’industria spiegarglielo”. ◆ bt
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