Il Medioevo dei contadini
di Marco Dalla Fiora
Un mito da sfatare
Quella dei servi della
gleba schiavizzati e trattati come animali è una delle molte fandonie che
ancora si raccontano sul Medioevo, l’epoca più malfamata della nostra storia.
Il bimestrale «Medioevo misterioso», da cui è stato tratto il presente
articolo, si propone di offrire una visione finalmente realistica dei dieci secoli
che vanno dalla caduta dell’Impero Romano alla scoperta delle Americhe.
Il Medioevo era un
universo contadino.
Ignorati dalla Storia, estromessi
da ogni processo decisionale, vittime di guerre che qualcuno aveva dichiarato a
loro insaputa, i villici rappresentavano la stragrande maggioranza della
popolazione: una marea umana che reggeva le basi della piramide sociale, ai cui
vertici nobili, chierici e artigiani rappresentavano soltanto una sparuta
minoranza.
Sulle facciate di alcune chiese
romaniche sono ancora ben visibili i calendari di pietra, agende scolpite di
una vita contadina immutabile, segnata dall’incedere delle stagioni e dai tempi
dell’agricoltura: il dissodamento, la semina, il raccolto, l’uccisione del
maiale, l’inverno per accomodare gli attrezzi, poi ancora la semina. Con i
ritmi scanditi dalla natura e l’orizzonte limitato al confine del campo, il contadino
chino sul solco si era accorto che l’Impero Romano era andato in frantumi e si approssimava
un mondo nuovo, poi indicato dai posteri come Medioevo?
La fine di Roma aveva significato
la scomparsa della legge e della sicurezza anche nelle province più remote. Al
crollo dell’Impero erano seguiti tempi difficili, in cui le scorribande di
eserciti barbarici erano diventate una tragica abitudine: laddove aveva regnato
il diritto si era fatto strada l’abuso fondato sulla forza. In queste
condizioni, molti piccoli proprietari avevano preferito sacrificare la terra in
cambio della sicurezza: meglio mettersi sotto l’egida del latifondista,
divenirne tributari e così avere garantiti l’ereditarietà della terra,
l’esenzione dagli obblighi militari e il ricorso alla sua giustizia in caso di
reclami e pendenze.
Come ai tempi di Roma
L’antico sistema della villa
romana, che aveva retto per secoli l’organizzazione del lavoro nelle campagne,
fu una delle poche istituzioni che sopravvissero all’arrivo dei nuovi padroni
giunti dal Nord Europa. Gli eredi dell’aristocrazia dell’Urbe che abitavano la
casa padronale e detenevano i cordoni della borsa furono spesso confermati nelle
loro prerogative e nei loro privilegi; in altri casi, il servus dovette
abituarsi a nuovi latifondisti, con lingua e fattezze diverse dai precedenti,
ma tutto sommato non molto differenti da loro. In alcuni casi, il dominus del
contadino divenne una chiesa o un monastero: grazie a imponenti lasciti
testamentari, le istituzioni ecclesiastiche si erano costruite un patrimonio
fondiario sempre più ricco e vasto. In ogni caso, l’organizzazione di
riferimento a cui il villico prestava il suo lavoro prese a definirsi curtis,
non più “villa”, ma la zolla rimaneva dura come ai tempi dell’Impero Romano e
il panorama, tutto sommato, era lo stesso.
I villaggi agricoli sorgevano al
centro di piccole oasi di terreni coltivati che la fatica dell’uomo aveva
sottratto all’incolto, ossia le foreste e le brughiere, dominanti nel paesaggio
europeo prima dell’anno Mille. In prossimità delle case, costruite in legno e
con i tetti di paglia, c’erano orti e frutteti, colture che necessitavano di
una cura certosina e quotidiana. Tutt’attorno si estendevano gli arativi
coltivati a cereali, al termine dei quali cominciava la
distesa di prati spontanei nei quali pascolavano in libertà cavalli, mucche,
capre e pecore. Da lì in avanti era tutta foresta, anche questa perfettamente inserita
all’interno dell’oculata economia curtense.
Ogni curtis comprendeva più villaggi
ed era divisa in due parti distinte: la pars
dominica, gestita direttamente dal proprietario o dai suoi delegati, che
comprendeva, oltre alle abitazioni del padrone e dei contadini, i ricoveri per
il bestiame, gli orti, i magazzini, i frutteti e i forni, il tutto protetto da
un modesto sistema di recinzioni costituito per lo più da steccati, muretti o
siepi.
Accanto a questa vi era la pars massaricia, gestita da contadini
tributari che, in cambio di un canone in natura (più raramente in denaro) e
dell’obbligo di svolgere alcuni lavori per il signore (le corvée), ricevevano
un appezzamento (il manso) della dimensione di circa due ettari. “Dominico” e
“massaricio” di un unico proprietario raramente confinavano l’uno con l’altro,
e anche i singoli mansi erano sovente distanti tra loro, intervallati da quelli
di altri possidenti.
Che fosse in condizione servile o
libera, il contadino medievale coltivava il suo manso (oggi diremmo podere), un
lotto di terra sufficiente a sfamare la famiglia, tirando personalmente l’aratro
se non poteva disporre di un bue o di un cavallo. A coadiuvarlo nelle fatiche
dei campi c’erano la moglie e i figli, mentre qualche altro membro del nucleo
familiare, spesso un bambino, aveva l’incarico di tenere d’occhio pecore, capre
e maiali. Molto tempo era assorbito dallo sfruttamento dell’incolto: le ghiande
delle querce nutrivano i suini, la maggiore fonte di carne e grassi, ma il
bosco forniva molto altro, a cominciare dalla legna, l’unico combustibile conosciuto
e il materiale con cui si fabbricavano case e oggetti d’uso quotidiano.
Le foreste offrivano in quantità
frutti spontanei, funghi ed erbe, ma anche selvaggina; fiumi e stagni fornivano
pesci in abbondanza. Non vanno poi dimenticate le numerose corvée dovute per
contratto al dominus: una quantità di ore lavorative che, a seconda degli usi e
delle regioni, variavano da qualche decina di giorni all’anno fino a tre giorni
alla settimana. Queste giornate, che sottraevano il contadino al campo di
famiglia aggravando il carico di lavoro dei suoi familiari, lo impegnavano
nelle attività più disparate, dallo scavo di fossi al ripristino di fabbricati,
dal trasporto della legna fino al lavoro agricolo su mansi sfitti che
altrimenti sarebbero rimasti infruttiferi.
Improntato alla totale
autosufficienza, il sistema curtense era il cardine dell’economia altomedievale.
Ogni villa ospitava un piccolo mercato dove si smerciavano non solo generi agricoli,
ma anche prodotti artigianali, e le eccedenze potevano essere scambiate fuori dalla
curtis con altri articoli, dato che la moneta, dopo un periodo di contrazione
(che non significa assenza, come spesso si legge), tornò a diffondersi a
partire dall’VIII secolo grazie ai conii d’argento di Carlo Magno.
Liberi, semiliberi e
servi
Generalmente, nella pars dominica
lavoravano contadini in condizione servile, detti “prebendari”, perché
remunerati con la prebenda (vitto e alloggio). Tra questi c’erano i ministeriales,
in possesso di competenze tecniche qualificate, quindi docti et probati, ossia esperti
che insegnavano il lavoro a numerosi apprendisti. In maggioranza, però, erano
porcari, mandriani di bovini e ovini, “bubulci” (conducenti di carri trainati
da buoi) e “rusticani” (contadini veri e propri). Nella pars massaricia,
invece, operavano i “casati” (o massarii), che coltivavano un manso e potevano vendere
i prodotti (ma mai la terra) che eccedevano il fabbisogno familiare e il canone
dovuto al padrone, generalmente pari a un terzo o a un quarto della produzione.
Sotto di loro c’era la massa dei semiliberi, che godevano di libertà personale
ma erano sottoposti al mundio, ossia alla potestà del padrone, dal quale
potevano riscattarsi solo pagando un “guidrigildo”. Ma c’erano anche i coloni,
contadini liberi legati al latifondista da contratti non scritti, la cui
scadenza era lunghissima e veniva trasmessa di padre in figlio.
In questo sovrapporsi di diversi
status attribuiti ai lavoratori della curtis, contadini destinati spesso a
lavorare fianco a fianco, nell’alto Medioevo gli schiavi scomparvero dalle
campagne, a compimento di un lungo processo che aveva avuto inizio durante il
tardo Impero.
Questi infelici erano stati vere
e proprie macchine da lavoro, prive di diritti, e avevano fatto la fortuna
delle ville romane. Il progressivo assottigliarsi di questo esercito di
“fantasmi giuridici” si era realizzato parallelamente al rallentamento della
politica espansiva dell’Urbe (meno guerre, meno schiavi) e all’affermarsi dei
precetti cristiani, contrari alla riduzione dell’uomo alla stregua di un
animale. Affrancati a centinaia, finalmente gli schiavi ottennero la
possibilità di farsi una famiglia e detenere dei beni. La loro liberazione si
poté dire quasi completa alla fine del regno longobardo. Il nuovo corso, assai
insicuro data la vacanza di forti poteri centrali, servì a rimuovere almeno in
parte la piaga della schiavitù, ma d’altro canto impose a molti contadini
proprietari di piccoli appezzamenti indipendenti (i cosiddetti “allodi”) la
rinuncia a una parte della libertà conquistata. Il risultato fu un livellamento
sociale ed economico verso il basso e la creazione di quella società fortemente
polarizzata tra ricchi e poveri che contraddistinse il Medioevo almeno fino al
XII secolo.
Nella curtis, il grande
proprietario, oltre a detenere il potere economico, esercitava anche la
giustizia, una signoria fondiaria che tra l’XI e il XII secolo, in
corrispondenza di una nuova ondata di incastellamenti, si trasformò in signoria
territoriale: l’esercizio del potere politico e amministrativo, lasciato vacante
dalle autorità centrali, fu esteso a tutta la popolazione residente nel
territorio, vero e proprio embrione del feudalesimo.
La rotazione delle colture
Fino all’anno Mille, il sistema adottato abitualmente nelle
campagne per permettere ai terreni di riposare era quello della rotazione biennale
delle colture, secondo il quale ogni anno si alternavano cereali e maggese.
Gradualmente, partendo dal Nord Europa, s’impose un nuovo
sistema, quello della rotazione triennale, che rappresentò un’autentica rivoluzione,
garantendo quell’aumento della produzione agricola che si rivelò uno dei motori
della ripresa economica. Funzionava in tre tempi: nello stesso terreno, il
primo anno si coltivavano i cereali, seminati in autunno e raccolti in inverno;
il secondo anno, cereali primaverili e legumi; il terzo anno, il maggese. Il
vantaggio di questo sistema stava nel fatto che solo un terzo del terreno era costretto
a fermarsi ogni anno.
Liberi dalla zolla
Il servo della gleba, senza diritti, legato alla sua zolla
ed esposto alla mercé del più forte, è in larga parte un cliché prodotto dagli
storici del diritto nell’Ottocento. Dal Mille in poi, al contrario, la ripresa
dell’economia, l’aumento demografico e l’allargamento della campagna a spese
dell’incolto generarono il concetto di “terra” come bene che poteva essere
comprato e venduto, portando così all’ascesa sociale.
Il contadino medievale aveva la possibilità di affittare un
terreno a lungo termine, in cambio di un canone generalmente sopportabile: era legato
al proprietario da un rapporto di dipendenza, certo, ma non era affatto
“schiavo” della zolla che coltivava. Men che meno per dovere ereditario o
contro la sua volontà, visto che non gli fu mai negata, pur nel vincolo di subordinazione,
la libertà personale.
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