sabato 6 luglio 2019

Il Medioevo dei contadini


Il Medioevo dei contadini
di Marco Dalla Fiora
Un mito da sfatare
Quella dei servi della gleba schiavizzati e trattati come animali è una delle molte fandonie che ancora si raccontano sul Medioevo, l’epoca più malfamata della nostra storia. Il bimestrale «Medioevo misterioso», da cui è stato tratto il presente articolo, si propone di offrire una visione finalmente realistica dei dieci secoli che vanno dalla caduta dell’Impero Romano alla scoperta delle Americhe.

Il Medioevo era un universo contadino.
Ignorati dalla Storia, estromessi da ogni processo decisionale, vittime di guerre che qualcuno aveva dichiarato a loro insaputa, i villici rappresentavano la stragrande maggioranza della popolazione: una marea umana che reggeva le basi della piramide sociale, ai cui vertici nobili, chierici e artigiani rappresentavano soltanto una sparuta minoranza.
Sulle facciate di alcune chiese romaniche sono ancora ben visibili i calendari di pietra, agende scolpite di una vita contadina immutabile, segnata dall’incedere delle stagioni e dai tempi dell’agricoltura: il dissodamento, la semina, il raccolto, l’uccisione del maiale, l’inverno per accomodare gli attrezzi, poi ancora la semina. Con i ritmi scanditi dalla natura e l’orizzonte limitato al confine del campo, il contadino chino sul solco si era accorto che l’Impero Romano era andato in frantumi e si approssimava un mondo nuovo, poi indicato dai posteri come Medioevo?
La fine di Roma aveva significato la scomparsa della legge e della sicurezza anche nelle province più remote. Al crollo dell’Impero erano seguiti tempi difficili, in cui le scorribande di eserciti barbarici erano diventate una tragica abitudine: laddove aveva regnato il diritto si era fatto strada l’abuso fondato sulla forza. In queste condizioni, molti piccoli proprietari avevano preferito sacrificare la terra in cambio della sicurezza: meglio mettersi sotto l’egida del latifondista, divenirne tributari e così avere garantiti l’ereditarietà della terra, l’esenzione dagli obblighi militari e il ricorso alla sua giustizia in caso di reclami e pendenze.
Come ai tempi di Roma
L’antico sistema della villa romana, che aveva retto per secoli l’organizzazione del lavoro nelle campagne, fu una delle poche istituzioni che sopravvissero all’arrivo dei nuovi padroni giunti dal Nord Europa. Gli eredi dell’aristocrazia dell’Urbe che abitavano la casa padronale e detenevano i cordoni della borsa furono spesso confermati nelle loro prerogative e nei loro privilegi; in altri casi, il servus dovette abituarsi a nuovi latifondisti, con lingua e fattezze diverse dai precedenti, ma tutto sommato non molto differenti da loro. In alcuni casi, il dominus del contadino divenne una chiesa o un monastero: grazie a imponenti lasciti testamentari, le istituzioni ecclesiastiche si erano costruite un patrimonio fondiario sempre più ricco e vasto. In ogni caso, l’organizzazione di riferimento a cui il villico prestava il suo lavoro prese a definirsi curtis, non più “villa”, ma la zolla rimaneva dura come ai tempi dell’Impero Romano e il panorama, tutto sommato, era lo stesso.
I villaggi agricoli sorgevano al centro di piccole oasi di terreni coltivati che la fatica dell’uomo aveva sottratto all’incolto, ossia le foreste e le brughiere, dominanti nel paesaggio europeo prima dell’anno Mille. In prossimità delle case, costruite in legno e con i tetti di paglia, c’erano orti e frutteti, colture che necessitavano di una cura certosina e quotidiana. Tutt’attorno si estendevano gli arativi
coltivati a cereali, al termine dei quali cominciava la distesa di prati spontanei nei quali pascolavano in libertà cavalli, mucche, capre e pecore. Da lì in avanti era tutta foresta, anche questa perfettamente inserita all’interno dell’oculata economia curtense.
Ogni curtis comprendeva più villaggi ed era divisa in due parti distinte: la pars dominica, gestita direttamente dal proprietario o dai suoi delegati, che comprendeva, oltre alle abitazioni del padrone e dei contadini, i ricoveri per il bestiame, gli orti, i magazzini, i frutteti e i forni, il tutto protetto da un modesto sistema di recinzioni costituito per lo più da steccati, muretti o siepi.
Accanto a questa vi era la pars massaricia, gestita da contadini tributari che, in cambio di un canone in natura (più raramente in denaro) e dell’obbligo di svolgere alcuni lavori per il signore (le corvée), ricevevano un appezzamento (il manso) della dimensione di circa due ettari. “Dominico” e “massaricio” di un unico proprietario raramente confinavano l’uno con l’altro, e anche i singoli mansi erano sovente distanti tra loro, intervallati da quelli di altri possidenti.
Che fosse in condizione servile o libera, il contadino medievale coltivava il suo manso (oggi diremmo podere), un lotto di terra sufficiente a sfamare la famiglia, tirando personalmente l’aratro se non poteva disporre di un bue o di un cavallo. A coadiuvarlo nelle fatiche dei campi c’erano la moglie e i figli, mentre qualche altro membro del nucleo familiare, spesso un bambino, aveva l’incarico di tenere d’occhio pecore, capre e maiali. Molto tempo era assorbito dallo sfruttamento dell’incolto: le ghiande delle querce nutrivano i suini, la maggiore fonte di carne e grassi, ma il bosco forniva molto altro, a cominciare dalla legna, l’unico combustibile conosciuto e il materiale con cui si fabbricavano case e oggetti d’uso quotidiano.
Le foreste offrivano in quantità frutti spontanei, funghi ed erbe, ma anche selvaggina; fiumi e stagni fornivano pesci in abbondanza. Non vanno poi dimenticate le numerose corvée dovute per contratto al dominus: una quantità di ore lavorative che, a seconda degli usi e delle regioni, variavano da qualche decina di giorni all’anno fino a tre giorni alla settimana. Queste giornate, che sottraevano il contadino al campo di famiglia aggravando il carico di lavoro dei suoi familiari, lo impegnavano nelle attività più disparate, dallo scavo di fossi al ripristino di fabbricati, dal trasporto della legna fino al lavoro agricolo su mansi sfitti che altrimenti sarebbero rimasti infruttiferi.
Improntato alla totale autosufficienza, il sistema curtense era il cardine dell’economia altomedievale. Ogni villa ospitava un piccolo mercato dove si smerciavano non solo generi agricoli, ma anche prodotti artigianali, e le eccedenze potevano essere scambiate fuori dalla curtis con altri articoli, dato che la moneta, dopo un periodo di contrazione (che non significa assenza, come spesso si legge), tornò a diffondersi a partire dall’VIII secolo grazie ai conii d’argento di Carlo Magno.
Liberi, semiliberi e servi
Generalmente, nella pars dominica lavoravano contadini in condizione servile, detti “prebendari”, perché remunerati con la prebenda (vitto e alloggio). Tra questi c’erano i ministeriales, in possesso di competenze tecniche qualificate, quindi docti et probati, ossia esperti che insegnavano il lavoro a numerosi apprendisti. In maggioranza, però, erano porcari, mandriani di bovini e ovini, “bubulci” (conducenti di carri trainati da buoi) e “rusticani” (contadini veri e propri). Nella pars massaricia, invece, operavano i “casati” (o massarii), che coltivavano un manso e potevano vendere i prodotti (ma mai la terra) che eccedevano il fabbisogno familiare e il canone dovuto al padrone, generalmente pari a un terzo o a un quarto della produzione. Sotto di loro c’era la massa dei semiliberi, che godevano di libertà personale ma erano sottoposti al mundio, ossia alla potestà del padrone, dal quale potevano riscattarsi solo pagando un “guidrigildo”. Ma c’erano anche i coloni, contadini liberi legati al latifondista da contratti non scritti, la cui scadenza era lunghissima e veniva trasmessa di padre in figlio.
In questo sovrapporsi di diversi status attribuiti ai lavoratori della curtis, contadini destinati spesso a lavorare fianco a fianco, nell’alto Medioevo gli schiavi scomparvero dalle campagne, a compimento di un lungo processo che aveva avuto inizio durante il tardo Impero.
Questi infelici erano stati vere e proprie macchine da lavoro, prive di diritti, e avevano fatto la fortuna delle ville romane. Il progressivo assottigliarsi di questo esercito di “fantasmi giuridici” si era realizzato parallelamente al rallentamento della politica espansiva dell’Urbe (meno guerre, meno schiavi) e all’affermarsi dei precetti cristiani, contrari alla riduzione dell’uomo alla stregua di un animale. Affrancati a centinaia, finalmente gli schiavi ottennero la possibilità di farsi una famiglia e detenere dei beni. La loro liberazione si poté dire quasi completa alla fine del regno longobardo. Il nuovo corso, assai insicuro data la vacanza di forti poteri centrali, servì a rimuovere almeno in parte la piaga della schiavitù, ma d’altro canto impose a molti contadini proprietari di piccoli appezzamenti indipendenti (i cosiddetti “allodi”) la rinuncia a una parte della libertà conquistata. Il risultato fu un livellamento sociale ed economico verso il basso e la creazione di quella società fortemente polarizzata tra ricchi e poveri che contraddistinse il Medioevo almeno fino al XII secolo.
Nella curtis, il grande proprietario, oltre a detenere il potere economico, esercitava anche la giustizia, una signoria fondiaria che tra l’XI e il XII secolo, in corrispondenza di una nuova ondata di incastellamenti, si trasformò in signoria territoriale: l’esercizio del potere politico e amministrativo, lasciato vacante dalle autorità centrali, fu esteso a tutta la popolazione residente nel territorio, vero e proprio embrione del feudalesimo.

La rotazione delle colture
Fino all’anno Mille, il sistema adottato abitualmente nelle campagne per permettere ai terreni di riposare era quello della rotazione biennale delle colture, secondo il quale ogni anno si alternavano cereali e maggese.
Gradualmente, partendo dal Nord Europa, s’impose un nuovo sistema, quello della rotazione triennale, che rappresentò un’autentica rivoluzione, garantendo quell’aumento della produzione agricola che si rivelò uno dei motori della ripresa economica. Funzionava in tre tempi: nello stesso terreno, il primo anno si coltivavano i cereali, seminati in autunno e raccolti in inverno; il secondo anno, cereali primaverili e legumi; il terzo anno, il maggese. Il vantaggio di questo sistema stava nel fatto che solo un terzo del terreno era costretto a fermarsi ogni anno.

Liberi dalla zolla
Il servo della gleba, senza diritti, legato alla sua zolla ed esposto alla mercé del più forte, è in larga parte un cliché prodotto dagli storici del diritto nell’Ottocento. Dal Mille in poi, al contrario, la ripresa dell’economia, l’aumento demografico e l’allargamento della campagna a spese dell’incolto generarono il concetto di “terra” come bene che poteva essere comprato e venduto, portando così all’ascesa sociale.

Il contadino medievale aveva la possibilità di affittare un terreno a lungo termine, in cambio di un canone generalmente sopportabile: era legato al proprietario da un rapporto di dipendenza, certo, ma non era affatto “schiavo” della zolla che coltivava. Men che meno per dovere ereditario o contro la sua volontà, visto che non gli fu mai negata, pur nel vincolo di subordinazione, la libertà personale.

Nessun commento:

Posta un commento