domenica 21 luglio 2019

I ricercatori universitari in agricoltura



di Roberto Bartolini

Oggi per il ricercatore universitario l’importante non è portare un contributo per risolvere un problema dell’agricoltore o del territorio, quanto piuttosto pubblicare le proprie ricerche su riviste internazionali che concorrano a migliorare la propria carriera accademica.

Questo è il pensiero di Geremia Gros dell’Università di Trento in un recente editoriale per l’Informatore Agrario.

Per superare questo impasse, Gros propone di valutare i ricercatori in funzione della loro capacità di trovare soluzioni concrete, efficaci e utili per gli operatori. Si tratta più o meno della scoperta dell’acqua calda e la soluzione proposta ben difficilmente troverà consensi nel mondo accademico, che troppo spesso si specchia in cervellotiche inutili sperimentazioni ma non dà segnali confortanti di voler voltare pagina.

Ma per fortuna, e lo ammette anche Gros, non tutti i ricercatori sono alla mercé del cosiddetto “impact factor”, quel diabolico indice che misura quante volte la dotta pubblicazione sulle prestigiose riviste internazionali è stata citata dai colleghi e che quindi concorre a “far carriera”.

La nostra ultraquarantennale esperienza agronomica e giornalistica ci permette di affermare che il mondo accademico agricolo si è sempre diviso in due parti ben distinte: i ricercatori che non ne vogliono sapere di divulgare e i ricercatori che, oltre alle pubblicazioni scientifiche, si impegnano periodicamente e con continuità esemplare a scrivere articoli divulgativi utili agli agricoltori. Quindi, come sempre, non è il metodo di valutazione del valore del ricercatore a determinare la distanza attuale che c’è tra agricoltori e mondo della ricerca, quanto piuttosto l’interpretazione del proprio ruolo che dà il singolo ricercatore e professore universitario e il desiderio di andare un po’ al di là della consuetudine.

È chiaro che riassumere in poche cartelle i risultati di una ricerca o di una sperimentazione richiede a chi non ha tanta dimestichezza con la divulgazione spicciola uno sforzo e un impegno notevoli, ed è proprio per questo che la maggior parte dei nostri ricercatori si ferma al primo step. Se prendiamo come esempio il settore delle colture erbacee ed estensive, i ricercatori e i docenti che divulgano ci sono anche se non sono molto numerosi, e i loro articoli sono fonte di importanti indicazioni operative per gli agricoltori. Perché lo fanno? Perché interpretano in modo giusto il loro ruolo, che non è solo quello di rendere noti i risultati delle loro ricerche e sperimentazioni a un numero ristretto di individui, bensì di metterli a disposizione di quante più persone possibile.

Caro Geremia Gros, le regole di valutazione possono rimanere così per un altro secolo, l’importante è che i nostri ricercatori scendano dalla torre d’avorio e si impegnino di più per essere utili agli agricoltori, prendendo esempio dai colleghi che già lo fanno con ottimi risultati.

 Roberto Bartolini
Roberto Bartolini
Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.

Fonte:http://www.ilnuovoagricoltore.it/i-ricercatori-universitari-servono-allagricoltura-italiana/?fbclid=IwAR2sV-03v6bkYBTYWBaV6RSro5pnUmckh0uC0HE59zJYnER3vzKPiOCn-0U#comment-5986


Gentili dr. #Bartolini e prof. #Gros,
leggo l’articolo e mi sento in dovere di fare alcuni commenti, che spero vengano accolti e dibattuti. Premetto che condivido solo parte l'articolo.
Se da un canto è innegabile la frenesia, sempre crescente, di collocare molti “prodotti della ricerca” (termine esecrabile) presso riviste internazionali “impattate” per rimpinguare il proprio curriculum ai quasi esclusivi fini di accesso alle carriere accademiche, dall’altro va affermato in maniera incisiva che la valutazione del corpo ricercatore italiano viene fatta prevalentemente su queste voci. Amo, in materia, fare un esempio: se io sono un idraulico ma vengo pagato per la quantità di muri che costruisco e non per i tubi che riparo, allora costruirò muri. L’impact factor è, appunto e indubbiamente, una misura distorsiva del valore del ricercatore e perfino chi ha fondato tale indice ne sconsiglia l’uso per questa applicazione. In tale frangente evito di scendere nel particolare del ginepraio delle valutazioni dei ricercatori, con tutte le distorsioni che lo affliggono. Accenno comunque alla necessità di una riforma del sistema di valutazione, dando più peso alla divulgazione, ma non solo.
Affrontando il caso particolare, la ricerca scientifica in agricoltura, come altrove, comporta spesso grossi e articolati lavori per lunghi tempi e, in un primo momento, possono apparire non applicativi/applicabili. Si tratta spesso di ricerche di base che servono come piattaforma di lancio per moltissime applicazioni pratiche. Tali lavori di ampio respiro vengono spesso tacciati di essere cervellotiche inutili sperimentazioni proprio perché non appaiono di immediata applicazione, come ad esempio lo studio dell’espressione di una singola proteina in una radice. A loro volta, ogni singola applicazione e innovazione può comportare un vantaggio, ma è spesso un vantaggio contenuto.
Cercare di valutare i ricercatori prevalentemente per la loro capacità di trovare soluzioni concrete, efficaci e utili per gli operatori nell'immediato porterebbe quindi tutti a fare ricerche che non contribuiscono a un grosso avanzamento dell'agricoltura.
In Italia, nella ricerca scientifica (che non è fatta solo dalle università ma anche da altri enti di ricerca, come ad esempio il CREA o il CNR) ci sono sicuramente carenze e nessuno nega che certi ricercatori e professori siano scollati dalle realtà operative.
Al contempo, sussistono due condizioni importanti: non tutte le attività di ricerca, ivi incluse in ambito agronomico, hanno a che fare con le realtà operative degli operatori  (immaginate alla salvaguardia degli ambienti naturali), né la filiera dalla produzione del sapere alla sua applicazione può essere completamente demandata a chi fa ricerca anche alla luce del miserabile finanziamento al comparto.
L’Italia, infatti, investe poco nella ricerca e i ricercatori italiani sono poco pagati. Inoltre, le strutture di trasferimento della ricerca scientifica, il cosiddetto trasferimento tecnologico, sono alquanto carenti. Eppure il trasferimento tecnologico è fondamentale nel mondo agricolo, nel quale gli operatori sono tanti e spesso, ammettiamolo, poco aperti e formati e nel quale le variabili di studio sono molteplici (suoli, temperature, disponibilità di mezzi tecnici, pressione dei patogeni, etc.). Per questi aspetti, il trasferimento tecnologico (ossia l’adattamento dei risultati della ricerca ai contesti operativi) dovrebbe essere capillare e assistito da strutture ad hoc che non sempre sono efficienti in questa attività.
Ma esiste un altro aspetto fondamentale del dibattito che interviene in questo mancato trasferimento e che travalica anche la sfera delle scienze agrarie, ossia il suolo del personale docente e ricercatore.
Le ricerche, come ben si accenna nell’articolo, andrebbero messe a disposizione di quante più persone possibile ma questo processo non dipende solo dalla produzione di pubblicazioni divulgative o, nel mio caso, anche di convegni a scala tecnica e divulgativa, oltre che scientifica. Questo processo dipende anche dalla capillarità con cui le competenze accademiche raggiungono la popolazione, sia la popolazione generale, sia quella degli agricoltori. Tale capillarità dipende in forte misura dalla percentuale di laureati, alquanto bassa in Italia, la cui attività comporta tale trasferimento anche fuori dai convenzionali sistemi di divulgazione, in serate tra amici o in occasioni mondane nelle quali, fortuitamente, si affrontano questi argomenti. Per quanto non ami i casi aneddotici, né li ritenga affatto forieri di prova, posso dire di esserne un esempio vivente in tale frangente. Pressappoco sempre mi ritrovo in queste situazioni in cui dibatto di (e spesso spiego la) questione agronomica alle categorie più disparate: altri genitori in una riunione, avventori di varie estrazioni in treni, autobus o altri mezzi pubblici, in fila alla posta, etc. E spesso ho anche avuto il piacere di scambiare l’indirizzo email, ricevere richieste di chiarimenti, pubblicazioni e informazioni.
La percentuale di laureati funziona allora, se la mia percezione della cosa corrisponde alla realtà, esattamente come la percentuale di vaccinati in una popolazione, abbassando appunto la diffusione di notizie false o non confermate, che nei tempi attuali vengono messe volutamente in giro con i peggiori fini.
Cari Roberto e Geremia, le regole di valutazione possono quindi essere perfettibili, i nostri ricercatori dovrebbero indubbiamente impegnarsi a scendere qualche scalino della torre d’avorio e riconquistare la dimensione reale del vivere, ma il problema del contributo della ricerca scientifica all’agricoltura non verrebbe comunque risolto in quanto entrambi questi aspetti (encomiabili e da perseguire) non rappresentano, da soli, un approccio sistemico al problema. Tale approccio richiede, volenti o nolenti, anche un intervento del legislatore sulla dimensione minima delle aziende, sul beneficio dell’aggregazione, sulla cultura media della popolazione, in particolare in ambito agricolo, e un robusto sistema di trasferimento tecnologico che possa dare agli agricoltori un esempio tangibile dei risultati della ricerca.
Indubbiamente, concordo, alcuni lo fanno già con riscontri positivi per il settore, ma limitando la propria carriera, con il rischio che, se non adeguatamente incentivati, smetteranno presto di fare questa attività nella ricerca di altre opzioni lavorative. Andrebbe quindi creata, a mio avviso, una struttura divulgativa a scala nazionale che dialoghi sia con i ricercatori, sia con gli operatori in tutte le fasi della filiera e che possa incentivare l’integrazione orizzontale e verticale delle strutture del sapere, che si rifletterà sulle strutture economiche.
Saluti.
Sergio Saia
https://www.researchgate.net/profile/Sergio_Saia
Assegnista di ricerca presso Consiglio per la ricerca in agricoltura e l'analisi dell'economia (CREA), Centro di Ricerca Cerealicoltura e Colture industriali (CREA-CI) e professore a contratto presso Università Politecnica delle Marche (UNIVPM), Dipartimento di Scienze Agrarie, Alimentari ed Ambientali (UNIVPM-D3A), amante della divulgazione.

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Fonte: https://www.facebook.com/sergiosaia


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