"È probabile, è molto probabile che un contadino di Squinzano
non riuscirebbe a riconoscere nel vino che si beve con questo nome in Italia il
vino della sua terra, che è fortissimo, sui sedici e persino sui diciotto
gradi, ed ha un cupo spessore in cui esalano i zolfi dei diavoli conficcati
nelle profondità di questo suolo". (Vittorio Bodini)
VinoAmaro
II vino del Salento e i produttori del Nord negli anni
Cinquanta.
I l 5 dicembre 1950 sulle pagine di una rivista milanese, Omnibus
(1), si poteva leggere un articolo di Vittorio Bodini, futura gloria poetica
della Puglia e grande studioso ed intellettuale, dal titolo “Squinzano vino a
Milano”, una variopinta descrizione di un fenomeno di grandissima rilevanza
sociale ed economica per quei tempi: l’accaparramento, a condizioni molto
vantaggiose, da parte dei produttori settentrionali di grandi quote della
produzione vitivinicola salentina destinata a conferire corposità ai vini del
Nord. Il vino proveniente dagli stabilimenti di Squinzano conquistò in breve
tempo in Italia una notorietà che gli stessi abitanti della povera cittadina
del Salento non potevano neanche lontanamente sospettare. «È probabile, o molto
probabile - scriveva Bodini - che un contadino di Squinzano non riuscirebbe a
riconoscere nel vino che si beve con questo nome in Italia il vino della sua
terra, che è fortissimo, sui sedici e persino sui diciotto gradi, ed ha un cupo
spessore in cui esalano i zolfi dei diavoli conficcati nelle profondità di
questo suolo». Lo Squinzano era figlio del Negroamaro il vitigno più diffuso
nelle provincie di Brindisi e Lecce. Per la sua alta gradazione alcolica era
stato denominato anche “doppio rosso” perché bere un bicchiere di Squinzano era
considerato come berne due di un altro vino meno robusto. Sulla particolare caratteristica
dei vini come lo Squinzano non ancora ‘addomesticati’ dalla moderna enologia rimangono
ancora significative le impressioni riportate da Paolo Monelli nel suo
ineguagliabile O.P. ossia il vero Bevitore, un classico della enogastronomia
letteraria italiana: «Ma più spesso gustai, offerto da mercanti e produttori di
vini da taglio o bevuto in modeste trattorie, il vino corrente di sedici gradi,
vino vinoso, vino di pura uva del luogo, mjere come si chiama in quel dialetto
conservando il merum con cui i latini indicavano il vino schietto; detto nero
perché è viola …»(2). A Squinzano, all’epoca in cui Bodini scrisse
quell’articolo, convergevano durante il periodo della vendemmia carri carichi d’uva
da tutta la penisola salentina. Nel resoconto pittoresco di Bodini Squinzano
infatti si distingueva dagli altri paesi del brindisino e del leccese per una
maggiore povertà perché il suo suolo, largamente sfruttato, non poteva produrre
in media più di 35 quintali per tomolo contro una media di altre terre che si
aggirava sugli 80-90 quintali. La natura del paradosso illustrato da Bodini era
il seguente: Squinzano «come centro di produzione ha dunque scarsa importanza,
e non sono rare le annate in cui i produttori locali chiudono le stagioni in
perdita. Non così come centro di lavorazione. Della sua epoca d’oro le son restati
infatti un centinaio di stabilimenti, fra grandi e piccoli, dove si lavora
qualcosa come 800.000 ettolitri di vino ogni anno, quasi la metà dell’intera
produzione della provincia di Lecce.(…) Su questo centinaio di stabilimenti, una
quindicina appartengono a settentrionali, tutti lombardi. La proporzione non è
forte, apparentemente; ma quei quindici stabilimenti sono i più grossi e lavorano
l’80% dei mosti che escono da Squinzano». Se leggiamo oggi questo articolo di
Bodini alla luce della sua cifra poetica successiva a partire da La luna dei Borboni
(3), la “questione meridionale”, vista nell’ottica particolare della produzione
vitivinicola, si carica di quelle note pessimistiche che già preludevano, nel
sentire dell’autore, a quella “catastrofe antropologica” imminente.
Sulla scorta dello scritto di Vittorio Bodini
l’attore-regista Enzo Pascal Pezzuto ha realizzato una interessante docu-fiction
di 25’ prodotta da Khàrisma con il contributo dell’Apulia Film Commission e la
collaborazione della Regione Puglia (Assessorato alle Risorse Agroalimentari).
Il documentario di Pezzuto è stato presentato in prima nazionale alla Bit di
Milano il 22 febbraio 2008. Successivamente è passato per il Festival del
Cinema Europeo di Lecce e per il IevanteFilmFest di Bari. Vino amaro,
volutamente ‘cinematografico’ già nel titolo perché rimanda alla memoria il
film di Giuseppe De Santis, Riso amaro (1949), è strutturato in fase di
sceneggiatura sulle riflessioni avanzate da Bodini nel suo articolo circa il fenomeno
degli scarsi guadagni dei produttori di vino salentini dovuto a due principali
fattori, l’atavica pigrizia della gente del Sud e il forte potere d’acquisto
degli industriali del Nord appoggiate dalle banche paragonate dallo scrittore a
divinità invisibili: «Queste divinità sono le Banche, che pesano crediti e
prestiti con disuguali bilance». Come afferma il regista, il vino ‘amaro’ del
titolo si spiega col fatto che i salentini furono «spettatori e non compartecipi
dei lauti guadagni ricavati dai produttori settentrionali… Questi ultimi
seppero commercializzare il vino locale usandolo per dar corpo al loro Chianti
e Barbera.
Una formula milionaria!». Vino amaro si apre con alcune
belle e rare immagini degli anni Cinquanta in bianco e nero: la vendemmia, il
trasporto dell’uva, la pesatura… Queste immagini rappresentano un vero e
proprio sigillo di ‘autenticità’ impresso alla ricostruzione storica messa in
scena da Enzo Pascal Pezzuto. II regista, nella sua filologica impaginazione
visiva del testo bodiniano, riesce in maniera abbastanza convincente ad evocare
la sottile fascinazione di un’atmosfera e di un periodo così cruciale del
nostro Sud con tutto quel carico di contraddizioni (sociali, economiche,
culturali) che persiste ancora oggi. Nel film-documento di Pezzuto
quell’universo antropologico sconfitto dalla Storia così ben descritto da
Bodini ‘rivive’ attraverso personaggi e situazioni quasi del tutto scomparsi: i
carrettieri che arrivano a Squinzano da ogni angolo della Terra d’Otranto
guidando i loro traìni (4) stracolmi d’uva per tremila lire al giorno. La loro
quotidiana fatica è appena mitigata da un pasto spartano all’aperto e da uno
scomodo riposo notturno “dentro le stalle con le bestie”; la figura canonica
dell’ubriaco del paese; il complesso bandistico di Squinzano, orgoglio
strapaesano perché elogiato dal Maestro Pietro Mascagni; il ‘sarto’ e il ‘barbiere’
che attendono con impazienza il periodo della vendemmia per impiegarsi negli
stabilimenti come pesatori e rinforzare per un po’ le loro scarse entrate; gli
operai guardati a vista dal ‘caporale’ mentre puliscono le botti e durante
l’intervallo discutono animatamente sull’aria di una romanza; le autorità
cittadine (‘Otorità’ nel lessico locale) e tutti gli altri squinzanesi.
Su questo sfondo di varia umanità si innesta la vicenda di
un piccolo imprenditore del luogo, il signor Cillis, vanamente proteso a
cercare di ottenere un finanziamento dalla banca, mentre il Sig. Cezzi,
imprenditore del Nord (nell’articolo di Bodini si accenna a Folonari, giunto a
Squinzano quarantacinque anni prima) gode dei favori dei responsabili della
stessa banca pronti con manifesta sudditanza ad esaudire ogni sua richiesta. Il
cast di Vino amaro composto da attori professionisti e da figuranti locali è
abbastanza funzionale nell’economia del racconto. Da segnalare la
partecipazione straordinaria del campione del mondo di pallavolo che interpreta
Bodini nel suo soggiorno milanese. II film-documentario di Enzo Pascal Pezzuto
si chiude con l’augurio che in futuro le risorse del Salento vengano utilizzate
prevalentemente dai salentini.
Note
(1) Da non confondersi con l’omonimo Omnibus, settimanale di
attualità politica e letteraria fondato da Leo Longanesi nel 1937. Per il suo
carattere fortemente innovativo e critico la rivista risultò incompatibile con
la linea ufficiale del regime fascista e per ordine del Ministero della Cultura
Popolare fu chiusa nel 1939.
(2) Longanesi, Milano, 1963; seconda edizione 1981, pag.
155.
(3) Edizioni della Meridiana, Milano, 1952.
(4) Sulle caratteristiche di questi fondamentali mezzi di
trasporto della nostra cultura contadina cfr. la ‘voce’ Traìnu in: Gregorio
Contessa, L’altro ieri a Manduria e... dintorni, Filo Editore, Manduria, 2005,
pp. 38-39.
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