sabato 20 luglio 2019

Flavescenza dorata: allarme nelle vigne, fermare la malattia che uccide le viti di CARLO PETRINI




È una malattia della vite che, trasmessa dalla puntura di un insetto che ne è portatore sano, progressivamente ostruisce i vasi linfatici di una pianta fino a portarla alla morte o, nel caso di varietà resistenti, alla improduttività.
Presente sul territorio italiano ormai da quasi vent’anni, recentemente sembra aver raggiunto picchi di aggressività inediti e preoccupanti, specialmente in Piemonte.
Una situazione critica che ha messo in seria difficoltà i produttori di vino.
In alcune zone della regione si parla di quasi il 5% all’anno di piante da estirpare per non diffondere la malattia.


«Quest’anno dovrò togliere una vigna di Barbera che piantò mio bisnonno nel 1926. Ce l’abbiamo messa tutta ma non abbiamo altra scelta».
Così chiosa laconicamente Federico Almondo, giovane enologo e produttore del Roero, erede di una cantina che ha fatto la storia di questo territorio, sollecitato su uno dei temi più spinosi dell’estate enologica piemontese: la flavescenza dorata.
«Molti produttori preferiscono non parlarne perché dispiace dire che le proprie piante di vite stanno morendo, ma la situazione è critica», continua Almondo.
A sentire chi il vino lo fa, e lo fa bene, il problema è serio.
In alcune zone del Piemonte si parla di quasi il 5% all’anno di piante da estirpare per non diffondere la malattia.
I due trattamenti insetticidi obbligatori che la Regione impone (tre nel caso dei biologici, ma con prodotti naturali) sembrano in larga parte inefficaci. «E’ come cercare di combattere la malaria uccidendo tutte le zanzare del mondo, come approccio non è il massimo », commenta di nuovo Almondo.
Ad analizzare un po’ più a fondo la questione, sembra che si stia a tutti gli effetti brancolando nel buio. Il vettore della malattia, lo Scaphoideus titanus, un insetto simile alla metcalfa, è passato negli ultimi anni da essere considerato l’unico trasmettitore della malattia a essere solo una delle sue cause. Noccioleti, boschi e “gerbidi”, i terreni incolti, sono certamente le aree più favorevoli per il proliferare della malattia, e le vigne in prossimità di queste zone sono le più colpite.
«Quello che ci salva è che il nebbiolo e il moscato, le due varietà traino dell’enologia piemontese, sono più resistenti a questa malattia, ma per le altre è un disastro», mi conferma Claudio Conterno, figura storica della viticoltura di Langa. «Quello che manca è il coordinamento e la cooperazione tra tutti i soggetti interessati: produttori, consorzi, università, istituti di ricerca e politica» sottolinea Alessandro Ceretto dell’omonima azienda, altra istituzione dell’enologia langarola nel mondo. Ad oggi non c’è una cura valida e nemmeno un protocollo efficace da seguire per arginare il problema, se non l’attenzione alla pulizia dei boschi che tuttavia non è sufficiente. Il fatto è che, se si confermasse il ritmo del 5% all’anno di viti perse significherebbe che in vent’anni sparirebbe la viticoltura in intere aree della nostra regione. Anche perché i rimpiazzi di barbatelle nuove rischiano di ammalarsi in 7 o 8 anni, il che le rende produttive per appena un paio di vendemmie.
Ergo, vale la pena darsi da fare finché c’è tempo per intervenire. È necessario che i produttori superino le proprie ritrosie a manifestare il problema e urge che nascano tavoli di monitoraggio e di sperimentazione di nuove soluzioni. Serve una task force che includa tutti i soggetti interessati. I consorzi dovrebbero favorire e promuovere questo processo (e non concentrarsi esclusivamente su promozione e tutela del marchio) e la politica dovrebbe farsi carico di coordinare e finanziare una ricerca che è in fase di stallo.
Anche perché, se le varietà piemontesi di punta sono più resistenti, non significa che siano immuni e, soprattutto, non possiamo certo permetterci di perdere una biodiversità vinicola che è la vera forza di un territorio e di un intero settore. E non c’è sistema di conduzione del vigneto che tenga. Convenzionali, biologici e biodinamici sono di fronte alla stessa situazione e questo dovrebbe ancora di più convincere tutti dell’urgenza di trovare una strategia comune.
Qualche anno fa, in Borgogna, all’inasprirsi dei focolai di flavescenza i vigneron iniziarono a fare una sorta di controllo incrociato sotto il coordinamento dei vari comuni.
Ciascuno visitava le vigne di un altro in modo che si superassero le rispettive diffidenze e “timidezze” e non si perdesse tempo nel sollevare l’allarme. Non so se sia la strada giusta, quel che è certo è che una strada va intrapresa e anche in fretta. Non si tratta di sperare che si trovi all’improvviso una soluzione definitiva dal punto di vista fitosanitario quanto piuttosto di auspicare una riflessione seria sul futuro della viticoltura in una delle aree più vocate e celebrate del mondo.
Dal punto di vista della promozione del territorio il concetto di «fare sistema» è in gran parte passato ed è un positivo dato di fatto. È arrivato il momento di fare sistema anche per garantire un futuro sereno alle vigne piemontesi , più in generale, del nord Italia. —

Fonte, La Stampa del 20 luglio 2019

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