È una malattia della vite che, trasmessa dalla puntura di un
insetto che ne è portatore sano, progressivamente ostruisce i vasi linfatici di
una pianta fino a portarla alla morte o, nel caso di varietà resistenti, alla
improduttività.
Presente sul territorio italiano ormai da quasi vent’anni,
recentemente sembra aver raggiunto picchi di aggressività inediti e
preoccupanti, specialmente in Piemonte.
Una situazione critica che ha messo in seria difficoltà i
produttori di vino.
In alcune zone della regione si parla di quasi il 5%
all’anno di piante da estirpare per non diffondere la malattia.
«Quest’anno dovrò togliere una vigna di Barbera che piantò
mio bisnonno nel 1926. Ce l’abbiamo messa tutta ma non abbiamo altra scelta».
Così chiosa laconicamente Federico Almondo, giovane enologo
e produttore del Roero, erede di una cantina che ha fatto la storia di questo
territorio, sollecitato su uno dei temi più spinosi dell’estate enologica
piemontese: la flavescenza dorata.
«Molti produttori preferiscono non parlarne perché dispiace dire
che le proprie piante di vite stanno morendo, ma la situazione è critica»,
continua Almondo.
A sentire chi il vino lo fa, e lo fa bene, il problema è
serio.
In alcune zone del Piemonte si parla di quasi il 5% all’anno
di piante da estirpare per non diffondere la malattia.
I due trattamenti insetticidi obbligatori che la Regione
impone (tre nel caso dei biologici, ma con prodotti naturali) sembrano in larga
parte inefficaci. «E’ come cercare di combattere la malaria uccidendo tutte le zanzare
del mondo, come approccio non è il massimo », commenta di nuovo Almondo.
Ad analizzare un po’ più a fondo la questione, sembra che si
stia a tutti gli effetti brancolando nel buio. Il vettore della malattia, lo
Scaphoideus titanus, un insetto simile alla metcalfa, è passato negli ultimi
anni da essere considerato l’unico trasmettitore della malattia a essere solo
una delle sue cause. Noccioleti, boschi e “gerbidi”, i terreni incolti, sono
certamente le aree più favorevoli per il proliferare della malattia, e le vigne
in prossimità di queste zone sono le più colpite.
«Quello che ci salva è che il nebbiolo e il moscato, le due varietà
traino dell’enologia piemontese, sono più resistenti a questa malattia, ma per
le altre è un disastro», mi conferma Claudio Conterno, figura storica della
viticoltura di Langa. «Quello che manca è il coordinamento e la cooperazione
tra tutti i soggetti interessati: produttori, consorzi, università, istituti di
ricerca e politica» sottolinea Alessandro Ceretto dell’omonima azienda, altra istituzione
dell’enologia langarola nel mondo. Ad oggi non c’è una cura valida e nemmeno un
protocollo efficace da seguire per arginare il problema, se non l’attenzione alla
pulizia dei boschi che tuttavia non è sufficiente. Il fatto è che, se si
confermasse il ritmo del 5% all’anno di viti perse significherebbe che in vent’anni
sparirebbe la viticoltura in intere aree della nostra regione. Anche perché i
rimpiazzi di barbatelle nuove rischiano di ammalarsi in 7 o 8 anni, il che le
rende produttive per appena un paio di vendemmie.
Ergo, vale la pena darsi da fare finché c’è tempo per
intervenire. È necessario che i produttori superino le proprie ritrosie a
manifestare il problema e urge che nascano tavoli di monitoraggio e di
sperimentazione di nuove soluzioni. Serve una task force che includa tutti i
soggetti interessati. I consorzi dovrebbero favorire e promuovere questo
processo (e non concentrarsi esclusivamente su promozione e tutela del marchio)
e la politica dovrebbe farsi carico di coordinare e finanziare una ricerca che
è in fase di stallo.
Anche perché, se le varietà piemontesi di punta sono più resistenti,
non significa che siano immuni e, soprattutto, non possiamo certo permetterci di
perdere una biodiversità vinicola che è la vera forza di un territorio e di un
intero settore. E non c’è sistema di conduzione del vigneto che tenga.
Convenzionali, biologici e biodinamici sono di fronte alla stessa situazione e
questo dovrebbe ancora di più convincere tutti dell’urgenza di trovare una
strategia comune.
Qualche anno fa, in Borgogna, all’inasprirsi dei focolai di
flavescenza i vigneron iniziarono a fare una sorta di controllo incrociato
sotto il coordinamento dei vari comuni.
Ciascuno visitava le vigne di un altro in modo che si superassero
le rispettive diffidenze e “timidezze” e non si perdesse tempo nel sollevare l’allarme.
Non so se sia la strada giusta, quel che è certo è che una strada va intrapresa
e anche in fretta. Non si tratta di sperare che si trovi all’improvviso una
soluzione definitiva dal punto di vista fitosanitario quanto piuttosto di
auspicare una riflessione seria sul futuro della viticoltura in una delle aree
più vocate e celebrate del mondo.
Dal punto di vista della promozione del territorio il
concetto di «fare sistema» è in gran parte passato ed è un positivo dato di
fatto. È arrivato il momento di fare sistema anche per garantire un futuro sereno
alle vigne piemontesi , più in generale, del nord Italia. —
Fonte, La Stampa del 20 luglio 2019
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