Come si fa a non
ricordare il paziente lavorio della gente di campagna, che vive accanto alla
terra, immersa nella vite? La pianta della vite, così semplice eppure così
piena di storie scritte nei suoi nodi. Ogni increspatura del tronco racconta un
anno, un passaggio, un segno che il tempo lascia, invisibile eppure indelebile,
nel respiro della natura. Ogni nodo è come una cicatrice, una memoria, una
promessa di crescita che sa di fatica e di dolcezza.
Quarant’anni, una
vita, e poi la fine del ciclo. Eppure, dentro quel tronco stanco c’è ancora
qualcosa da dare, prima di cedere il posto a una nuova pianta, giovane e piena
di speranza. La vite, non più alta dell’uomo, ma capace di donare un frutto che
non ha bisogno di misurarsi in centimetri, ma in qualità, in generosità. Una
pianta che ha scelto di non sfidare il cielo, ma di offrire l’uva, grappoli
che, come per magia, diventano vino.
Il miracolo. È lì, in
quei grappoli, che avviene la trasformazione. Ogni anno, in una notte precisa,
un liquido inizia a sgorgare, impastato di odori e sapori che raccontano di
terre lontane e di radici profonde. È il vino, rosso, bianco, rosato, come un
sogno che s’insinua nel cuore, che racconta la vita e la morte, la dolcezza e
l’amaro. Ogni bicchiere è una storia, ogni sorso un respiro della terra. E noi,
testimoni di questo miracolo, non possiamo fare a meno di ricordare.
La notte dell'11 novembre, la notte di San Martino!
La notte che precede l'11 novembre segna una tappa fondamentale
nella vita del contadino salentino. Non è una notte come le altre, è la notte
dell'anno agricolo, quella che separa un ciclo di fatica e speranza
da un altro. L’annata agraria, che nel Salento si estende dal 12 novembre fino
all'11 novembre dell’anno successivo, è una sorta di orologio della vita
rurale, scandito dal ritmo del lavoro nei campi, delle stagioni e delle
preghiere. Qui, dove la terra e il cielo si incontrano ogni giorno, il
calendario agricolo non coincide con quello civile. Se per il resto del mondo
l’ultimo giorno dell’anno è il 31 dicembre, per i contadini, quello che conta
davvero è l’11 novembre, giorno di San Martino, simbolo di speranza, ma anche
di ansia.
Per chi non lo sa, il contadino, quella notte, non viveva la
serenità di chi sa che il raccolto è stato abbondante e che l'inverno non
porterà privazioni. L'11 novembre, infatti, non era solo l’ultimo giorno di un
anno che si concludeva con il frutto del lavoro, ma anche il primo di un altro,
pieno di incognite. Da un lato c’era la gioia di aver superato l’estate, di
aver visto il frutto della terra crescere e maturare, ma dall’altro c’era la
paura, una paura che non abbandonava mai chi viveva di agricoltura, perché il
futuro è sempre in bilico, sospeso tra il cielo che può essere generoso e il
vento che può portare la miseria.
In quel mix di emozioni contrastanti, tra il sollevarsi di un
brindisi a un anno di buon raccolto e il pensiero che il futuro potesse essere
di nuovo incerto, risiedeva l’essenza della vita agricola. Una vita che
conosceva la fatica, ma anche la speranza. La speranza che la terra ti
restituisse quello che le avevi dato, che le stagioni fossero clementi e che la
carestia non tornasse a minacciare la tua famiglia. Quel timore era sempre lì,
come una presenza silenziosa, che non si vedeva, ma che aleggiava sopra ogni
decisione, ogni speranza, ogni sorriso.
Così, mentre fuori le luci della festa di San Martino rischiarano
la notte, dentro il cuore di ogni contadino c’era una preghiera silenziosa per
il nuovo anno che stava iniziando, perché la vita, lì fuori nei campi, non
perdonava gli errori e la natura non faceva sconto. Ma si sapeva che, come San
Martino con la sua generosità, anche la terra avrebbe dato la sua risposta, che
sarebbe stata di abbondanza o di miseria, ma che sarebbe sempre arrivata.
Dottori Agronomi a San Martino
Nel Salento, l’11 novembre, si respira una sensazione un po'
strana, qualcosa che non è facile da spiegare a parole. La morte e la vita, in
qualche modo, si intrecciano, come se l’aria stessa fosse carica di quel
binomio che ci accompagna sempre, in silenzio. I Dottori Agronomi, sono
probabilmente quelli che più di tutti hanno a che fare con questo tema: la
morte, la rinascita. Il ciclo delle stagioni, che torna ogni anno, inizia e
finisce, come una grande danza che non ha mai veramente una fine.
Se ci pensi, forse l'unico che può capire un po' questo nostro
mondo è il medico di famiglia. È lui che, in qualche modo, ci segue per tutta
la vita, ma anche lui non ha la stessa profondità del nostro lavoro. Il medico
è lì nei momenti cruciali: quando nasciamo, quando moriamo. Ma noi, gli
agricoltori, i Dottori Agronomi, siamo come compagni di viaggio della natura.
Ogni anno è una storia diversa, fatta di attimi di gloria e di momenti di buio.
Viviamo in bilico, costantemente tra il rischio di una grande fortuna e il
timore di una catastrofe, come se fossimo su una montagna russa, sempre in
movimento, sempre incerti, ma comunque con la sensazione che la vita non possa
mai fermarsi.
I
vignaioli e San Martino
Fabio Volo, con il suo stile narrativo che mescola riflessione e leggerezza, potrebbe rielaborare questo testo in modo più personale, descrivendo la scena con un tocco più intimo e un po' filosofico. Potrebbe usare un linguaggio che fa riflettere sulla semplicità dei momenti e sulle sensazioni che evocano, mantenendo il focus sull'importanza della tradizione e del legame con la terra. Ecco come potrebbe riscrivere il testo:
I contadini
aspettavano il giorno di San Martino, quel giorno che sapeva di primavera,
nonostante fosse novembre. Perché l'estate di San Martino è così: un respiro di
caldo tra il gelo che arriva. È il momento giusto per aprire le
"ozze", le anfore di creta, o le botti e assaporare quel vino che è
la promessa di un anno che è appena passato, ma che già ci fa sentire ricchi.
Ricchi di quel liquido che, come oro, scivola tra le mani e riscalda il cuore.
Quel giorno, il mondo sembrava fermarsi per un attimo, il tempo si concentrava
in ogni goccia di vino, nelle speranze e nei sudori di una vendemmia che
portava con sé il frutto di una stagione intera.
Tutti intorno a quel
contenitore, quel misterioso scrigno di terra e vino, cercavano di capire, di
giudicare, di dare un nome a quello che stavano bevendo. Era come una
discussione che non finiva mai, un dibattito dove ognuno portava la propria
esperienza, la propria passione. Un incontro di sguardi e opinioni che si
mescolavano come il vino nel bicchiere, e che lasciavano senza fiato.
Perché il vino ha
bisogno di essere accompagnato, non solo nel gusto, ma anche nei pensieri. E
allora, dopo aver assaporato il primo sorso, il viaggio proseguiva in cucina.
Lì, tra i profumi del Salento, il vino si trasformava, si lasciava conoscere
meglio. E noi, mentre assaporavamo quel cibo che sembrava fatto apposta per
quel momento, sapevamo che in ogni assaggio c'era qualcosa che non si poteva
spiegare: solo da vivere.
San
Martino degli adolescenti negli anni 70
L’11 novembre per me è l’eco di risate e mani sporche di farina, è
il calore di un fuoco acceso, che scoppietta come una promessa. È il giorno in
cui il mondo si svela tra amici, quando le ore si dilatano, sospese nell'aria
fragrante di salsiccia arrostita e dell'odore d'olio che frizza nel tuffo delle
pittule, quelle che solo noi, nel nostro angolo di mondo, sappiamo fare come
nessun altro. Ogni pugnetto di pasta fritta è una carezza al cuore, ogni morso
un abbraccio che unisce passato e presente, tra cicorie di Galatina e finocchi
mangiati crudi, insieme alle castagne che scoppiettano, alle noci che
raccontano storie di un tempo che non torna, ma che resta nel sapore.
Era la cena di San Martino, quella che si faceva solo tra amici,
un rito sacro che non ammetteva genitori, un privilegio tutto nostro. Il vino
nuovo si mescolava con la risata, il bicchiere sempre colmo, l'anima sempre più
leggera. E tutto aveva il sapore del presente che sapeva di tradizione, di anni
di lavoro sotto il sole, di sacrifici che diventavano dolcezza, di una terra
che ci apparteneva, perché in quel giorno si celebrava il frutto di un'annata
intera, il sudore di mani esperte che avevano lavorato per noi, per noi soli.
La vendemmia era finita, l'anno si chiudeva con il brindisi che sapeva di
"noi", della nostra piccola grande famiglia, fatta di sorrisi, di
vino che scivolava giù come la promessa di un futuro che sarebbe stato, ancora
una volta, tutto da scrivere.
La
distruzione del vigneto allevato come alberello
Da
anni assistiamo inermi alla lotteria dei premi e dei riconoscimenti che hanno
condotto, senza pietà, allo svellimento dei vigneti, frutto di una scellerata
Politica Agricola Comune che affonda le radici negli anni '70 e arriva fino a
noi, giorno dopo giorno, ettaro dopo ettaro. Quel che resta della tradizione,
quei 'alberelli pugliesi' tanto amati, sono ormai quasi spariti. Per un pugno
di euro, abbiamo visto distruggere quelle distese di vigneti che, con la loro
bellezza, decoravano i paesaggi più affascinanti d’Italia. Le zone che ancora
conservano il colore rossastro delle foglie, pronte a cadere in autunno, sono
sempre più rare. Eppure, queste viti hanno vissuto anni di fatica, affrontando
le stagioni con l’unico scopo di prepararsi al letargo invernale, per poi
risvegliarsi con la primavera. Un patrimonio che, nel silenzio e
nell’indifferenza, rischia di svanire.
E
la notte di San Martino oggi che senso ha?
Eppure, nonostante tutto, nonostante che ormai il vino non porti
più guadagno per la maggior parte dei Salentini, l’11 novembre, il giorno di
San Martino, nelle case del Salento si continua a mettere in tavola lo stesso
banchetto di sempre. Arrosti alla brace, verdure, castagne, frutta secca,
mandarini, arance… e ovviamente il vino. Quel vino che, anche se oggi non è più
la linfa vitale di nessuna famiglia, continua a scorrere nei bicchieri come un
rito senza tempo, un riflesso condizionato che ci portiamo dietro senza nemmeno
sapere più perché.
Il senso, quella motivazione profonda che ci spinge a festeggiare,
ormai l'abbiamo perso. È svanito nel nulla, nascosto tra gli scaffali degli
Ipermercati, quelle grandi cattedrali del consumismo dove ormai non sappiamo
nemmeno da dove arrivano i prodotti che ci propinano. E noi, come automi,
mettiamo in cesto cibo e vino senza mai scambiare una parola con chi ci sta
accanto. Eppure continuiamo a farlo, anno dopo anno.
Io faccio parte di quella generazione che ha avuto l’adolescenza
lunga, perché è durata fino agli studi universitari, fino al matrimonio che è
arrivato troppo tardi. E così, anche se non ho un vigneto da cui ricavare il
vino, anche se la tradizione che festeggiavamo non ha più senso economico, l’11
novembre io continuo a ritrovarmi con gli amici, come ai vecchi tempi. Lo facevamo
nella casa in campagna di uno di noi, e ora, finalmente sposato, lo faccio di
nuovo, a casa mia.
Perché, alla fine, quello che davvero ci lega, è la persistenza.
La resistenza a lasciar andare quei riti, quei piccoli atti di ribellione e di
appartenenza che danno senso alla nostra vita. Il 11 novembre, per tutto il
Salento, è il giorno in cui tutti, senza troppe domande, ci ritroviamo insieme.
È il giorno in cui tutti possiamo trasgredire, e in qualche modo, senza neanche
accorgercene, iniziamo anche i più giovani a quella stessa trasgressione che
segna il passaggio, l’ingresso in un mondo di adulti che a volte sembra un po’
troppo serio. Ma in fondo, forse, il segreto è proprio questo: non prendere mai
troppo sul serio nemmeno le tradizioni, se non con il sorriso di chi sa che
tanto non cambieranno mai davvero.
Il
Novello non è il vino che bevevano i nostri padri
A chi, per la notte di San Martino, si lascia incantare dalla
tradizione del vino novello, vorrei ricordare con dolcezza e senza pretese che
questo nettare non è semplicemente "vino nuovo". No, non è una
creazione del Salento leccese né una rivendicazione tutta italiana. Il vino
novello ha radici francesi, là, nei primi del Novecento, nel cuore del
Beaujolais. È lì che è stata perfezionata la tecnica della macerazione
carbonica, e il vino che ne nasceva ha preso il nome dalla terra che lo ha
visto nascere: Beaujolais Nouveau.
Nel Salento, quelle stesse terre, sanno bene che il novello è un
vino giovane, fresco e delicato, che non ha il tempo di invecchiare. La sua
forza risiede nell’istante in cui è stato pensato, nell’immediatezza del gusto
che si sprigiona. È un vino che, per la sua natura, non può essere conservato a
lungo. Quindi, se quest'11 novembre vi capita di ricevere una bottiglia di vino
novello, ricordate: non aspettate, non conservate, non lasciate che l’attimo
svanisca. Bevetelo subito, con la stessa fretta con cui arriva, per celebrare
l’oggi, il presente, il vino che vive nell’immediatezza.
San
Martino 2024
Ogni anno, come se il tempo fosse una danza che sa di vino novello
e di fuoco, torniamo a fare la festa di San Martino, perché ogni anno, come una
ruga che racconta storie di vita, ci ricordiamo che ci sono modi di stare
insieme che non cambiano mai. Siamo fatti di radici, di quelle radici che si
intrecciano tra le strade del Salento, di quelle che non temono il passare dei
secoli, che non hanno paura di uscire dai pub, dalle pizzerie, dalle discoteche,
per accendersi in un’altra luce: quella del fuoco che unisce, che scalda, che
diventa casa.
L’11 novembre non è solo una data. È l’eco di un ritmo antico, il
suono di un tradizione che arriva da lontano, da un tempo che ci sorride come
un vecchio amico. Ogni bicchiere che si alza, ogni risata che riempie la
stanza, è un atto di ribellione al mondo che corre troppo veloce, un atto di
pace con la nostra lentezza, quella che sa che il miglior divertimento non è
mai quello che si guarda, ma quello che si vive. L'11 novembre non è solo il
giorno del vino che scorre come un fiume impetuoso, ma è il giorno in cui il
cuore diventa un calice traboccante di gioia. La nostra febbre non è mai quella
del domani, ma quella di stare insieme, qui e ora, dove la tradizione diventa
musica e la musica diventa un abbraccio.
Noi, figli del fuoco, lo sappiamo bene. Ogni anno ci ritroviamo,
intorno a un caminetto acceso, a vivere quella che è la nostra realtà: un mondo
fatto di voci che si intrecciano, di mani che si sfiorano, di corpi che danzano
in una circonferenza di serenità. L'11 novembre, come nel 2010 e come ogni
volta, ci ricordiamo che non siamo soli. Siamo intorno a un fuoco che brucia
dentro di noi, e che, anche se sembra scemare, è sempre lì. Perché l’amore,
come il fuoco, non finisce mai.
E così, nella notte che non si dimentica, siamo un unico cerchio,
una sola luce, un solo respiro. Perché in quel fuoco che ci scalda e ci unisce,
c'è l'Universo intero.
Bibliografia
Irene
Maria Malecore: Magie di Japigia: etnografia e folklore del Salento
Tommaso
Schirinzi: SANTU MARTINU Storia di un marchio
Michele
Bucci: Buongiorno... NOVELLO
Andrea
Zanon: S. Martino: l’annata agraria e il capitale di anticipazione
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