ORA BISOGNA PROMUOVERE UN RITORNO AL TERRITORIO
di DANIELE ERRICO
(Agronomo territorialista)
(Agronomo territorialista)
Gazzetta del Mezzogiorno
Martedì 13 settembre 2016
Martedì 13 settembre 2016
Questo contributo si associa al “richiamo d’attenzioni per il nostro territorio” che i colleghi agronomi hanno voluto portare sulle testate di questo giornale.
Obiettivo di questo contributo è quello di evidenziare le ragioni di una “questione” tanto rinomata, quanto irrisolta, e il ruolo che assume il territorio nella costruzione delle politiche di sviluppo locale. Per raggiungere questo obiettivo l’articolo intende chiarire uno dei problemi contenuti nella questione, e cioè il difficile riconoscimento del territorio nelle azioni di “sviluppo locale”, siano esse politiche o piani; mettendo in evidenza la necessità di superare quella visione semplificata del territorio, che ci porta a pensarlo come un insieme materiale di cose senza attori e quindi come mero supporto sul quale proiettare le nostre politiche (spesso decise altrove) o le nostre attività.
Per entrare però nel merito della questione, dal momento che al “consumo” si potrebbe contrapporre la “produzione di suolo” o la sua rigenerazione, si direbbe che la questione esiste più nella possibilità che nella realtà, ovvero la sua attualità coincide con una serie vaga di discorsi possibili, piuttosto che con una serie definita di discorsi già attuati. Non mancano, infatti, in Puglia, leggi (L.R. 20/2001), indirizzi e criteri (DRAG, 2007) o piani (PPTR, 2015) che dialogano con la possibilità di essere finalmente attuati. Ma quella possibilità non ha a che fare solo con norme, piani e indirizzi, ma anche e soprattutto con una particolare forma di consapevolezza o “coscienza di luogo”; e se il paradosso della questione è implicito nei termini del discorso, le ragioni possono essere facilmente rintracciate nelle “credenze” o ‘visioni’ che negli ultimi 30-40 hanno informato il nostro modo di “costruire” il territorio: credenze che trovano nel modello di “sviluppo economico” vigente la loro principale ragione d’essere.
Si tratta di credenze che, poggiando le loro basi sui modelli descrittivi del mondo in nostro possesso, hanno permesso di ridurre la conoscenza del territorio alla descrizione della sua rappresentazione cartografica: fino al punto di credere che una “mappa ” sia la copia del territorio rappresentato, senza accorgerci invece che è vero soprattutto il contrario: e cioè che il territorio ha assunto la forma di una mappa (Farinelli F., 2003), finendo così per diventare, per la nostra cultura, l’oggetto passivo delle nostre attività. E se, fino ad oggi, è stato possibile “territorializzare” il mondo, senza preoccuparci di fare i conti con la terra così come essa è veramente, con l’avvento della globalizzazione, che letteralmente ci dice che non possiamo più ridurre su un piano la sfera terrestre, il nostro rapporto con la realtà non può più confidare sulla mediazione cartografica di una mappa: d’ora in poi “Il centro del mondo è al tempo stesso in ogni luogo, ma quando uno si trova momentaneamente in un certo punto, allora è soltanto lì (Noteboom C., 2011). Questo aspetto ci dice anche che il futuro dei luoghi non risiede più «in una esasperata accelerazione degli scambi, della standardizzazione dei prodotti, della mobilità di merci e persone sul mercato mondiale, ma nella capacità di innovare, produrre e scambiare beni che solo in quel luogo del mondo possono venire alla luce in quanto espressione culturale di una identità di lunga durata che il paesaggio, a ben interpretarlo, racconta» (A. Magnaghi, 2007).
Si capisce bene, quindi, come la questione del consumo di suolo sia in realtà una questione ben più profonda di quanto appare, legata principalmente alla nostra cultura, ai modelli interpretativi della realtà e alle teorie tradizionali dello sviluppo, che hanno considerato e usato il territorio in forme sempre più riduttive e strumentali e che, negli ultimi 30-40 anni, l’hanno ridotto semplicemente a un supporto tecnico di attività e funzioni economiche, sempre più indipendenti dalle relazioni e dai caratteri specifici dei luoghi e dalle qualità ambientali, territoriali, culturali e identitarie, ovvero quei caratteri che derivano dalla sua costruzione storica di lunga durata.
È bene ricordare, infine, che il consumo di suolo è poi direttamente collegato al concetto di dimensionamento dei piani nella pianificazione territoriale e che questo concetto è a sua volta collegato a quello di carriyng capacity o capacità di carico.
Proprio su questo aspetto A. Magnaghi ha utilizzato la metafora della bestia da soma, che non può essere caricata oltre un certo limite superato il quale stramazza, ricordandoci così che Il territorio non è un asino! Forse, solo oggi, cominciamo a intuire che il consumo di suolo, che è avvenuto nei nostri comuni in un’epoca di irresponsabilità, se nel breve periodo ha prodotto una qualche forma di “ricchezza”, questa stessa “ricchezza” oggi è alla base di più profonde forme di povertà, che prendono il nome di degrado della qualità ambientale e paesaggistica, della qualità urbana e territoriale.
Proprio su questo aspetto A. Magnaghi ha utilizzato la metafora della bestia da soma, che non può essere caricata oltre un certo limite superato il quale stramazza, ricordandoci così che Il territorio non è un asino! Forse, solo oggi, cominciamo a intuire che il consumo di suolo, che è avvenuto nei nostri comuni in un’epoca di irresponsabilità, se nel breve periodo ha prodotto una qualche forma di “ricchezza”, questa stessa “ricchezza” oggi è alla base di più profonde forme di povertà, che prendono il nome di degrado della qualità ambientale e paesaggistica, della qualità urbana e territoriale.
Quindi, per correggere l’annosa questione è soprattutto necessario cambiare visioni e modelli, promuovere un “ritorno al territorio” e “produrre” nuove forme di territorialità, perché si tratta soprattutto di capire che solo in questa maniera di “produrre”, la “ricchezza” può tradursi in una forma durevole e autosostenibile. Pertanto, come dice G. Paba, al sentimento morfologico dell’asino occorre forse riaffidarsi alla fine: alla sua capacità di individuare la curva più economica e più pura, collaborando con la terra, in un’adesione intelligente al suolo e alle culture materiali e umane che lo costituiscono.
Di cosa si parla quando parliamo di paesaggio dell’olivo?
Ogni epoca ha il suo paesaggio (... quello che si merita!) e ogni paesaggio sembra essere legato a una particolare visione del ‘mondo’ che esprime le tendenze e le caratteristiche di un popolo.
Inteso come immagine dei luoghi il paesaggio è una forma di conoscenza, il risultato irreversibile di una moltitudine di trasformazioni, ma anche il punto di arrivo di un movimento continuo che ci restituisce sensibilmente le origini stesse del territorio.
Nel Salento, a ben guardare, il paesaggio della campagna olivetata ci permette di leggere i capitoli salienti della nostra storia: il modificarsi dei modi di produzione, delle attività lavorative ed economiche, il modo di costruire e abitare le forme urbane e rurali, i mutamenti sociali e gli stili di vita, dove storia, tradizione e cultura sembrano essere i caratteri di questo paesaggio, che si offre come testo per la comprensione delle specifiche realtà locali, delle loro dinamiche di trasformazione, legate ai 'modi di vita', alla cultura e al mutare delle condizioni delle singole comunità.
L'oliveto storico è un paesaggio che ci parla dei suoi abitanti, alludendo al modo in cui essi si sono identificati nel proprio territorio; ci parla delle relazioni con i luoghi di vita e di lavoro in cui si è formata l’identità individuale e collettiva, ovvero il senso di appartenenza, la coscienza sociale e le diversità locali, che si sono impresse in questo paesaggio come caratteri che esprimono la peculiarità delle forme .
È questo un paesaggio che ci informa del rapporto concitato e dialettico che l’uomo ha instaurato con l’ambiente, dove colpisce soprattutto il legame che il contadino ha stretto con la terra e le colture tradizionali, un rapporto di coesistenza che ha trovato da sempre nella pianta d’ulivo un referente privilegiato.
Per questi motivi possiamo affermare che se ogni paesaggio, come sostiene Martin Schwind, è un’opera d’arte creata da un intero popolo, come emanazione della sua cultura e impronta del suo agire nel tempo, la “campagna olivetata” del Salento è un “tipo” di paesaggio che restituisce il senso di un’“opera d’arte collettiva” per questo territorio.
Un paesaggio non solo dove l'uomo sembra ribadire l'unità estetica di tutte le cose, ma anche e soprattutto un paesaggio etico, poiché ha a che fare con l’ambiente di vita delle popolazioni e che, per questo, implica l’assunzione di responsabilità rispetto alle potenziali trasformazioni, al modo di ‘abitarlo’ e preservarlo nel tempo.
La campagna olivetata, guardando alle sue peculiarità o specificità locali, non è solo il prodotto di un accordo dialettico tra cultura e natura, dove le singole componenti, materiali e immateriali, restituiscono nel complesso l’immagine univoca di un paesaggio che in ogni caso contiene più di ciò che l’occhio oggi vede; ma è anche, attraverso quell’accordo, un continuo adattamento di regole e saperi alle “invarianti climatiche”, dove l’aridità o la “siccità estiva”, pervadendo profondamente i luoghi, hanno messo a dura prova le capacità dei contadini e le loro speranze sui raccolti.
La “campagna olivetata”, restituendo la storia di un continuo mutamento, che svela gli accadimenti passati impressi in modo indelebile nell’immagine attuale del paesaggio, costituisce quindi l’”esperienza paesaggistica” di un’evoluzione culturale che ha prodotto una particolare configurazione morfotipologica del territorio salentino.
Parlare di paesaggio dell’olivo significa, quindi, parlare di una “struttura di lunga durata” che si mostra come esito di specifici atti di ‘territorializzazione’: una struttura forte che caratterizza le permanenze da un’epoca all’altra e che, una volta “sedimentate”, svelano quell’identità territoriale che tutti noi possiamo identificare nei segni di questo paesaggio storico.
Oggi, alla luce di quanto sta accadendo, ciò che il paesaggio della <> ci chiede è un <> come struttura profonda del nostro territorio: un <> che, nella responsabilità di un’etica pubblica, deve tradurre il senso e il valore di questo paesaggio storico: un riconoscimento che comporta soprattutto la necessità di ripensare e correggere quei paradigmi che stanno determinando un progressivo e diffuso declino dei paesaggi culturali.
Un aspetto fondamentale del problema, dunque, non è solo quello di capire <>, ma anche di comprendere come mai oggi la cultura e le forme dell’immaginario, non ci permettono più di considerare i paesaggi agrari tradizionali come un sistema evolutivo di relazioni complesse che esprimono valori.
Eppure, una cosa è certa, ovunque si guardi nel Salento, l’olivo è la pianta che nei diversi paesaggi locali restituisce i caratteri di un giardino mediterraneo di altri tempi.
Di cosa si parla quando parliamo di paesaggio dell’olivo?
Ogni epoca ha il suo paesaggio (... quello che si merita!) e ogni paesaggio sembra essere legato a una particolare visione del ‘mondo’ che esprime le tendenze e le caratteristiche di un popolo.
Inteso come immagine dei luoghi il paesaggio è una forma di conoscenza, il risultato irreversibile di una moltitudine di trasformazioni, ma anche il punto di arrivo di un movimento continuo che ci restituisce sensibilmente le origini stesse del territorio.
Nel Salento, a ben guardare, il paesaggio della campagna olivetata ci permette di leggere i capitoli salienti della nostra storia: il modificarsi dei modi di produzione, delle attività lavorative ed economiche, il modo di costruire e abitare le forme urbane e rurali, i mutamenti sociali e gli stili di vita, dove storia, tradizione e cultura sembrano essere i caratteri di questo paesaggio, che si offre come testo per la comprensione delle specifiche realtà locali, delle loro dinamiche di trasformazione, legate ai 'modi di vita', alla cultura e al mutare delle condizioni delle singole comunità.
L'oliveto storico è un paesaggio che ci parla dei suoi abitanti, alludendo al modo in cui essi si sono identificati nel proprio territorio; ci parla delle relazioni con i luoghi di vita e di lavoro in cui si è formata l’identità individuale e collettiva, ovvero il senso di appartenenza, la coscienza sociale e le diversità locali, che si sono impresse in questo paesaggio come caratteri che esprimono la peculiarità delle forme .
È questo un paesaggio che ci informa del rapporto concitato e dialettico che l’uomo ha instaurato con l’ambiente, dove colpisce soprattutto il legame che il contadino ha stretto con la terra e le colture tradizionali, un rapporto di coesistenza che ha trovato da sempre nella pianta d’ulivo un referente privilegiato.
Per questi motivi possiamo affermare che se ogni paesaggio, come sostiene Martin Schwind, è un’opera d’arte creata da un intero popolo, come emanazione della sua cultura e impronta del suo agire nel tempo, la “campagna olivetata” del Salento è un “tipo” di paesaggio che restituisce il senso di un’“opera d’arte collettiva” per questo territorio.
Un paesaggio non solo dove l'uomo sembra ribadire l'unità estetica di tutte le cose, ma anche e soprattutto un paesaggio etico, poiché ha a che fare con l’ambiente di vita delle popolazioni e che, per questo, implica l’assunzione di responsabilità rispetto alle potenziali trasformazioni, al modo di ‘abitarlo’ e preservarlo nel tempo.
La campagna olivetata, guardando alle sue peculiarità o specificità locali, non è solo il prodotto di un accordo dialettico tra cultura e natura, dove le singole componenti, materiali e immateriali, restituiscono nel complesso l’immagine univoca di un paesaggio che in ogni caso contiene più di ciò che l’occhio oggi vede; ma è anche, attraverso quell’accordo, un continuo adattamento di regole e saperi alle “invarianti climatiche”, dove l’aridità o la “siccità estiva”, pervadendo profondamente i luoghi, hanno messo a dura prova le capacità dei contadini e le loro speranze sui raccolti.
La “campagna olivetata”, restituendo la storia di un continuo mutamento, che svela gli accadimenti passati impressi in modo indelebile nell’immagine attuale del paesaggio, costituisce quindi l’”esperienza paesaggistica” di un’evoluzione culturale che ha prodotto una particolare configurazione morfotipologica del territorio salentino.
Parlare di paesaggio dell’olivo significa, quindi, parlare di una “struttura di lunga durata” che si mostra come esito di specifici atti di ‘territorializzazione’: una struttura forte che caratterizza le permanenze da un’epoca all’altra e che, una volta “sedimentate”, svelano quell’identità territoriale che tutti noi possiamo identificare nei segni di questo paesaggio storico.
Oggi, alla luce di quanto sta accadendo, ciò che il paesaggio della <
Un aspetto fondamentale del problema, dunque, non è solo quello di capire <
Eppure, una cosa è certa, ovunque si guardi nel Salento, l’olivo è la pianta che nei diversi paesaggi locali restituisce i caratteri di un giardino mediterraneo di altri tempi.
Nessun commento:
Posta un commento