domenica 5 ottobre 2025

L’agricoltura rigenerativa eviti il rischio greenwashing

 


L’agricoltura rigenerativa eviti il rischio greenwashing

Autore: Antonio Bruno

Istituzione: Associazione dei Laureati in Scienze Agrarie e Scienze Forestali della Provincia di Lecce

Immaginate un campo. Non quello metaforico delle battaglie politiche, ma uno vero, di terra, radici e lombrichi. Ora provate a visualizzare le mani che lo coltivano: callose, screpolate, piene di futuro. E infine aggiungete un’etichetta verde brillante che recita: “rigenerativo”. Bello, vero? Forse troppo.

L’agricoltura rigenerativa è diventata la nuova frontiera della sostenibilità, la parola magica che tutti vogliono pronunciare. Dai colossi dell’agroindustria alle start-up più visionarie, dalle multinazionali del cibo alle piccole cooperative biologiche, fino a insospettabili aziende di settori lontanissimi dall’agricoltura. Tutti, improvvisamente, si scoprono paladini del suolo.

Eppure, come ricorda Paolo Bàrberi, agroecologo della Scuola Sant’Anna di Pisa, dietro quella parola c’è un mosaico di definizioni, certificazioni e interpretazioni talmente eterogenee da rischiare di svuotarla di senso. Non esiste, oggi, una cornice normativa chiara. Esistono schemi volontari, dal Regenerative Organic Certified del Rodale Institute fino alle esperienze latinoamericane di Jairo Restrepo, che insistono sulle relazioni sociali oltre che sui suoli. Ma esiste anche la tentazione di ridurre tutto a una tecnica, a una ricetta pronta all’uso, a un bollino da appiccicare sulle confezioni.

È qui che il greenwashing fa capolino. Perché se l’agricoltura rigenerativa diventa solo un nuovo slogan per dire “siamo sostenibili” senza mettere davvero in discussione i modelli produttivi dominanti, allora non stiamo rigenerando nulla: stiamo semplicemente riverniciando di verde l’agricoltura conservativa.

Rigenerare significa andare oltre: diversificare i sistemi colturali, ridurre drasticamente gli input chimici ed energetici, riequilibrare i rapporti di forza lungo la filiera, restituendo dignità economica e sociale a chi lavora la terra. In una parola: cambiare.

Non sarà facile, perché ogni attore in campo porta con sé interessi e visioni diverse. Il gruppo di lavoro che l’Uni sta avviando sull’agricoltura rigenerativa dovrà affrontare proprio questo nodo: provare a trovare linee guida comuni, senza ridurre il concetto a una comoda etichetta.

In fondo, la terra ha una memoria che noi cittadini smemorati sembriamo aver perso. Lei sa riconoscere chi la sfrutta e chi la cura. Sa distinguere un campo spremuto fino all’ultima goccia da uno che viene fatto respirare. Sa punire gli imbrogli meglio di qualsiasi authority.

L’agricoltura rigenerativa può essere un’opportunità straordinaria per cambiare il nostro rapporto con il cibo e con l’ambiente. Ma, come in tutte le storie, il lieto fine non è garantito. Dipende da noi. Da quanto avremo voglia di vedere in un campo non solo un’etichetta, ma un patto con la vita.

Agricoltura rigenerativa e rischio greenwashing: evidenze scientifiche, sfide e strategie

Introduzione

L’agricoltura rigenerativa (AR) ha guadagnato crescente attenzione come paradigma alternativo all’agricoltura convenzionale, promettendo benefici ambientali, economici e sociali. Tuttavia, l’assenza di una definizione universalmente accettata, la varietà di pratiche che ricadono sotto questa etichetta, e la crescente domanda delle aziende e dei mercati per “claims verdi” pongono il serio rischio di greenwashing: definire o promuovere pratiche poco radicali o marginali come “rigenerative”, senza che vi siano cambiamenti sostanziali.

Questo saggio esplora: (i) le evidenze scientifiche su cosa funziona (e dove), (ii) casi di studio europei, con attenzione all’Italia, (iii) come il rischio di greenwashing si manifesta, e (iv) proposte metodologiche e politiche per evitarlo.


Che cosa si intende per agricoltura rigenerativa

Nella letteratura recente, l’AR è caratterizzata dall’adozione di pratiche agricole che promuovono:

  • la salute del suolo (aumento della sostanza organica, diversità microbica, struttura del suolo);
  • la biodiversità;
  • la riduzione degli input esterni di sintesi (fertilizzanti, pesticidi);
  • l’uso integrato di coltivazioni e allevamento, agroforestry;
  • sistemi colturali più diversificati quali coperture del suolo, rotazioni, sovesci, cover crop, ecc. OpenFields+3MDPI+3Agribios+3

Tuttavia, come evidenziato da numerosi autori, manca ancora una definizione univoca e vincolante: le soglie, le pratiche ammissibili, cosa si intende per “riduzione” o “assenza” di input, come misurare gli outcome (suolo, biodiversità, emissioni, resa) rimangono variabili nei diversi schemi. MDPI+3MDPI+3CREAF+3


Evidenze scientifiche: cosa dicono gli studi

Benefici osservati

  1. Salute del suolo, aumento di materia organica, miglioramento della struttura e attività biologica. Il review di Khangura, Ferris, Wagg, Bowyer (2023) sotto l’egida di Sustainability mostra che pratiche come minima lavorazione, cover crops, residui delle colture possono migliorare carbonio organico nel suolo, rendimento e salute del suolo in molti agrosistemi, purché le condizioni climatiche e pedologiche siano favorevoli. MDPI
  2. Riduzione degli input chimici, con relazione spesso inversamente proporzionale tra uso di pesticidi/fertilizzanti di sintesi e diversità biologica, qualità dell’ecosistema. CREAF+3MDPI+3OpenFields+3
  3. Resilienza e stabilità nel lungo termine, soprattutto in scenari di stress ambientale (drought, eventi estremi). Sistemi che mantengono copertura del suolo, rotazioni, integrano coltivazione con allevamento o agroforestazione mostrano maggiore capacità di resistere a siccità, erosione, degrado. MDPI+2Il Secolo XIX+2
  4. Aspetti socio-economici: alcuni studi europei mostrano che i costi di produzione possono ridursi grazie alla riduzione degli input, e che in certi casi la produttività non diminuisce in modo sostanziale. Ad esempio, lo studio EARA su 78 aziende in 14 Paesi (oltre 7000 ettari) ha riportato riduzioni del 62 % nei fertilizzanti azotati sintetici e del 76 % negli agrofarmaci, con rese comparabili (–2 % circa) in termini di proteine e chilocalorie rispetto a sistemi convenzionali. Alberami+1

Limiti, variabilità, condizioni critiche

  • Variabilità agroecologica: il beneficio dipende fortemente dal tipo di suolo, clima, storia agricola del terreno, management preesistente. Pratiche che funzionano bene in zone temperate o con suoli profondi possono dare risultati molto diversi in suoli poveri, aridi, o dove la struttura del terreno è già degradata. MDPI+2Cahiers Agricultures+2
  • Fase di transizione: quasi tutti gli studi segnalano che durante la fase iniziale di passaggio da un sistema convenzionale a uno rigenerativo, può esserci perdita di resa o aumenti dei costi, specialmente in aree marginali o non irrigate; inoltre è richiesta formazione, adeguamento delle macchine, cambiamenti organizzativi. Terra e Vita+1
  • Misurazione e verificabilità: problemi di baseline (cioè cosa misurare prima dell’intervento), tempi di monitoraggio insufficienti, uso di indicatori non standardizzati. Spesso manca trasparenza o dati empirici su outcome come sequestri di carbonio persistenti, biodiversità, impatti a scala di paesaggio. FoodNavigator.com+1

Il rischio greenwashing: come si manifesta

Greenwashing nell’ambito dell’agricoltura rigenerativa può assumere varie forme:

  1. Uso vago del termine “rigenerativo” per pratiche che sono solo marginalmente migliorative rispetto al convenzionale, senza impegno su riduzione significativa di input, diversificazione, pratiche di suolo.
  2. Certificazioni rigenerative “soft” che permettono l’uso di pesticidi chimici o fertilizzanti sintetici, senza limiti rigorosi o monitoraggio indipendente. Questo è oggetto di critica da parte di gruppi scientifici e di associazioni. CREAF+1
  3. Comunicazione aziendale e marketing che enfatizza benefici climatici (es: sequestri di carbonio) senza fornire prove scientifiche robuste, o con tempi molto corti che non garantiscono stabilità dei benefici.
  4. “Rigenerativo” come bollino di moda: aziende che adottano solo alcune pratiche rigenerative, ma mantengono modelli produttivi intensivi, importazioni estensive di mangimi, scarsa attenzione al contesto locale e sociale.

Casi di studio e esperienze dall’Italia / Europa

  • Lo studio EARA (European Alliance for Regenerative Agriculture) già citato: 78 aziende rigenerative, 14 Paesi, 7000 ettari—dato europeo quasi su scala reale, non solo sperimentale. Alberami
  • In Italia, Paolo Bàrberi e colleghi hanno condotto studi di cost–beneficio dell’agroecologia (vicina nei principi all’agricoltura rigenerativa) mostrando che in oltre la metà dei casi esaminati, reddito, produttività ed efficienza migliorano o non peggiorano rispetto al convenzionale. la Repubblica
  • Progetto “Knorr agricoltura rigenerativa” nelle risaie del Pavese: caso concreto in Italia di applicazione con impattto su carbon footprint e suolo. Stream24
  • In territori italiani caratterizzati da agricoltura non irrigua, zone collinari o montane, l’adozione di pratiche rigenerative ha incontrato difficoltà economiche e tecniche significative durante la transizione. Terra e Vita

Strategie per evitare il greenwashing

Sulla base della letteratura e delle esperienze pratiche, e ispirandosi anche agli approcci del Gruppo di Agroecologia dell’Istituto di Scienze delle Piante, Sant’Anna, Pisa (ricerca partecipativa, attenzione al contesto locale, monitoraggio lungo termine), si delineano alcune strategie:

  1. Definizione chiara e trasparente
    • Stabilire criteri minimi obbligatori per usare il termine “rigenerativo” (per esempio, limiti sull’uso di pesticidi/fertilizzanti di sintesi; obbligo di diversificazione; obbligo di copertura permanente del suolo).
    • Standard scientifici, con baseline definite e indicatori misurabili: salute del suolo, biodiversità, emissioni GHG, resilienza ai cambiamenti climatici.
  2. Certificazione indipendente e credibile
    • Schemi che prevedono verifiche sul campo; trasparenza dei dati; pubblicazione degli outcome; penalità per claim falsi.
    • Coinvolgere enti scientifici, istituzioni accademiche locali, agricoltori nella definizione degli standard.
  3. Ricerca, sperimentazione e monitoraggio a lungo termine
    • Studi interdisciplinari che includono componenti agronomiche, ecologiche, economiche e sociali.
    • Progetti partecipativi: coinvolgere agricoltori, comunità, stakeholder, per adattare pratiche alle realtà locali (suolo, clima, cultura agricola). Il gruppo di Bàrberi usa questo approccio. agroecologia.eu+2Alimenti&Salute+2
  4. Politiche pubbliche e incentivi coerenti
    • Sostegno finanziario per la fase di transizione (cofinanziamenti, compensazioni per perdite iniziali).
    • Politiche che penalizzino pratiche degradanti del suolo, incentivino diversificazione, integrazione delle filiere.
  5. Comunicazione responsabile
    • Evitare slogan generici (“rigenerativo”, “naturale”, “carbon negative”) se non supportati da dati.
    • Promuovere la trasparenza, accesso ai dati per il cittadino/consumatore.
    • Educare consumatori su cosa significhi veramente “rigenerativo”.

Conclusione

L’agricoltura rigenerativa offre opportunità concrete: rigenerazione del suolo, riduzione degli input chimici, diversificazione, resilienza, vantaggi economici in molti casi. Tuttavia i suoi rischi non sono marginali: senza definizioni chiare, senza prove a lungo termine, senza trasparenza, rischia di diventare strumento di greenwashing.

Perché ciò non accada, serve un approccio combinato: criteri scientifici rigorosi, partecipazione locale, monitoraggi trasparenti, incentivi politici, certificazioni affidabili. Il contributo della ricerca (come quella coordinata da Paolo Bàrberi) è fondamentale: non solo nel produrre dati, ma nel mediare fra teoria e pratica, fra norme internazionali e bisogni locali, fra idealità e realtà contadina.


Bibliografia

  • Khangura, R., Ferris, D., Wagg, C., Bowyer, J. (2023). Regenerative Agriculture — A Literature Review on the Practices and Mechanisms Used to Improve Soil Health. Sustainability, 15(3), 2338. MDPI
  • Regenerative Agriculture: Insights and Challenges in Farmer Adoption. MDPI. MDPI
  • Duru, M., Sarthou, J.-P., Therond, O. (2022). L’agriculture régénératrice : summum de l’agroécologie ou greenwashing? Cahiers Agricultures, 31, 17. Cahiers Agricultures
  • Food giants at risk of ‘greenwashing’ over regenerative agricultural practices: report warns. Food and Land Use Coalition. FoodNavigator.com+1
  • European Alliance for Regenerative Agriculture (EARA), report su aziende agricole rigenerative in Europa (2020-2023). Alberami+1
  • Bàrberi, P., et al. “Le evidenze dell’agroecologia: reddito, produttività ed efficienza” (studio congiunto Sant’Anna-ISARA) su Agronomy for Sustainable Development. la Repubblica
  • Bàrberi, P. “Agricoltura rigenerativa: quando la soluzione è più vicina di quello che sembra” (Alimenti & Salute, Emilia-Romagna) intervista/profilo. Alimenti&Salute
  • Progetto Knorr agricoltura rigenerativa, risaie del Pavese. Stream24
  • Articoli su “Terra e Vita” su agricoltura rigenerativa in Italia: pratiche, benefici attesi, limiti di transizione. Terra e Vita

Criteri scientifici minimi per definire l’Agricoltura Rigenerativa

Destinatari: enti di certificazione, legislatori, organismi di standardizzazione (es. UNI), organismi di ricerca, stakeholder della filiera agroalimentare.

Scopo del documento: proporre un quadro scientifico-operativo minimo, basato sulla letteratura e su casi di studio europei e italiani, per definire, monitorare e certificare pratiche e sistemi agricoli come "rigenerativi" evitando fenomeni di greenwashing.


Sintesi esecutiva

L’agricoltura rigenerativa (AR) deve essere definita e valutata attraverso criteri multidimensionali che includano risultati ambientali, criteri agronomici operativi, impatti socioeconomici e requisiti di governance. Il rischio di greenwashing si riduce imponendo: (1) requisiti minimi obbligatori; (2) indicatori misurabili e protocolli di monitoraggio; (3) controlli indipendenti e trasparenti; (4) obblighi di pubblicazione dati; (5) misure di sostegno alla transizione agricola.


1. Principi guida

  1. Approccio sistemico e contestuale: l’AR è un paradigma di sistema; i criteri devono tener conto di suolo, clima, colture, allevamento, filiera e contesto socioeconomico locale.
  2. Risultati misurabili (outcomes): non basta documentare pratiche adottate; le dichiarazioni rigenerative devono essere supportate da indicatori di risultato sul suolo, biodiversità, emissioni e resilienza.
  3. Precauzione e trasparenza: claims rigenerativi devono includere baseline, metodi e frequenza di monitoraggio, e accesso ai dati.
  4. Equità socioeconomica: definire la rigenerazione anche in termini di distribuzione del valore aggiunto e condizioni lavorative.

2. Requisiti minimi obbligatori (per l’uso del termine “rigenerativo”)

Questi requisiti devono essere soddisfatti contemporaneamente e dimostrati con prove documentali e misurazioni indipendenti.

2.1 Requisiti agronomici e gestionali

  • Copertura del suolo minima: almeno il 50% di copertura viva o residui organici in ogni anno agrario per colture a rischio di erosione (soglie più elevate in aree fragili).
  • Diversificazione colturale: rotazione pluriennale con almeno 3-4 elementi diversi nella rotazione annuale o integrazione colture polifunzionali (inserimento di leguminose, sovesci, cover crop).
  • Minima lavorazione del suolo: limitare lavorazioni profonde; favorire lavorazioni superficiali o non-till dove agronomicamente possibile.
  • Gestione integrata della fertilità: priorità a fonti organiche e pratiche che favoriscano cicli interni di nutrienti; uso di fertilizzanti sintetici ammesso solo entro limiti percentuali stabiliti (es. <30% del fabbisogno N totale aziendale) e con obblighi di riduzione progressiva.
  • Uso limitato di prodotti fitosanitari: riduzione documentata e misurabile degli agrofarmaci sintetici rispetto a baseline nazionali/regionale; favorire strategie non chimiche (IPM, controllo biologico).
  • Integrazione zootecnina-coltivazione quando presente: promozione di cicli chiusi (reimpiego di letame/effluenti dopo adeguato trattamento), pascolamento rotazionale e limiti alla importazione massiccia di mangimi esterni che rompono la circolarità.

2.2 Requisiti ambientali e di outcome

  • Aumento/sostentamento del contenuto di materia organica del suolo (SOC): obiettivo realistico e misurabile su scala aziendale o parcella (es. incremento netto rispetto alla baseline su 5–10 anni o arresto del declino).
  • Indicatori di salute del suolo: prioritari: SOC, stabilità degli aggregati, capacità di ritenzione idrica, attività microbica (es. respirazione del suolo o biomassa microbica) misurati con protocolli standard.
  • Biodiversità funzionale: presenza/assorbimento di insetti impollinatori e organismi utili, copertura vegetale non coltivata, diversità di colture e habitat seminaturali; misurata tramite indicatori standard (indice di diversità di Shannon per comunità vegetali/insetti a scala aziendale o di parcella).
  • Bilancio GHG aziendale: misurazione e reporting delle emissioni dirette e indirette (scope 1–3 se possibile); target di riduzione progressiva con tempistica definita.
  • Resilienza e stabilità di resa: analisi delle variazioni di resa in periodi di stress (ad es. siccità) e misure di mitigazione adottate.

2.3 Requisiti socioeconomici

  • Equità di filiera: meccanismi contrattuali che garantiscano redistribuzione del valore (es. premialità per pratiche dimostrate rigenerative), trasparenza nei prezzi e nelle condizioni di lavoro.
  • Partecipazione e formazione: piani aziendali di formazione per agricoltori e lavoratori, e dimostrazione di partecipazione attiva in reti locali/agroecologiche.

3. Indicatori raccomandati e protocolli di misurazione

Nota: i seguenti indicatori rappresentano un nucleo minimo. La scelta finale e le soglie devono essere contestualizzate (zona climatica, tipologia colturale, storia del terreno).

3.1 Indicatori di suolo (misurazioni standard)

  • SOC (% in strato 0–30 cm): metodo: laboratorio (analisi combustione/elementale) con standard ISO; baseline con almeno 2 campionamenti pre-intervento e successivi ogni 3 anni.
  • Stabilità degli aggregati (%>0.25 mm): metodo: test di stabilità all’acqua.
  • Capacità di campo e ritenzione idrica (mm): metodo: misure in campo o stima pedotransfer function normalizzata per texture.
  • Biomassa microbica/respirazione del suolo (mg CO2/kg suolo/24h): metodo: incubazione in laboratorio.
  • Disponibilità di N minerale (N-NO3 + N-NH4): metodo: estrazione KCl e analisi colorimetrica.

3.2 Indicatori di biodiversità e paesaggio

  • Copertura flora spontanea/aree semi-naturali (% superficie aziendale).
  • Indice di diversità delle colture (numero effettivo di colture/anni).
  • Abbondanza relativa di insetti utili e impollinatori: monitoraggi standard (transect, trappole pan o vane) con cadenza annuale.

3.3 Indicatori agricoli ed economici

  • Uso di input per ettaro (kg N sintetico, kg pesticidi attivi) rispetto a baseline.
  • Resa per coltura e variazione rispetto a baseline.
  • Reddito aziendale reale e indicatori di redditività (valore aggiunto per UAA).

3.4 Indicatori clima/GHG

  • Bilancio N2O, CO2, CH4: stima mediante inventari aziendali standard (IPCC Tier 2/3 se possibile) o misure puntuali in siti rappresentativi; reporting annuale.

3.5 Protocollo di campionamento

  • Stratificazione per unità di gestione (parcella, appezzamento).
  • N campioni minimi per unità (es. 10–20 sottocampioni per ettaro per SOC, combinati in un campione composito per parcella).
  • Controlli di qualità: duplicati, campioni blind, laboratorio accreditato.

4. Monitoraggio, baseline e tempi di verifica

  • Baseline obbligatoria: misurazioni prima dell’adesione (almeno 12 mesi antecedenti o dati storici verificabili).
  • Frequenza minima di monitoraggio: indicatori chiave (SOC, uso input, resa, GHG stimato) ogni 3 anni; indicatori rapidi (copertura suolo, pratiche gestionali) annualmente.
  • Periodo minimo di impegno rigenerativo: 5 anni per concessione iniziale del riconoscimento; revisioni e rinnovi su base quinquennale con reporting intermedio.
  • Valutazione indipendente: audit sul campo da organismi terzi accreditati; pubblicazione dei risultati in formato aperto (dataset aggregati per protezione privacy).

5. Elementi di governance e certificazione

  • Schema multilivello: (1) adesione alle pratiche minime; (2) dimostrazione degli outcome; (3) premialità per performance superiori (es. maggior sequestro SOC, maggiore biodiversità).
  • Organismo di certificazione: accreditamento secondo norme internazionali (es. ISO/IEC 17065) con esperti agronomi, pedologi, ecologi e sociologi.
  • Registro pubblico: elenco delle aziende certificate con sintesi dei risultati a livello aziendale (indicatori chiave).
  • Meccanismi sanzionatori: revoca del riconoscimento in caso di claim ingannevoli o di infrazioni rilevanti; periodo di sospensione con obblighi di rimedio.

6. Supporto alla transizione e misure politiche raccomandate

  • Incentivi economici temporanei per la fase di transizione (compensazioni per perdite di resa iniziali).
  • Finanziamenti per formazione, ricerca applicata e servizi di consulenza tecnica.
  • Programmi di mercato e filiera: contratti di fornitura con premi per pratiche rigenerative dimostrate; etichettatura trasparente e tracciabile.
  • Reti e cooperazione locale: favorire scambi di conoscenze tra agricoltori, demo-farm, e partenariati pubblico‑privati.

7. Esempi e casi di studio (esempi tipici di pratiche e risultati)

  • Sistemi cerealicoli con cover crop e rotazione estesa: incremento SOC e riduzione input N sintetico dopo 5–8 anni.
  • Aziende miste coltivazione‑allevamento che chiudono i cicli nutrienti: miglioramento della fertilità e riduzione acquisto di fertilizzanti.
  • Colture permanenti con gestione della copertura del suolo e integrazione agroforestale: aumento biodiversità ed efficienza idrica.

8. Raccomandazioni operative per UNI / gruppo di lavoro

  1. Adottare un approccio di standardizzazione progressiva: definire requisiti minimi essenziali e un sistema modulare per livelli di performance.
  2. Coinvolgere esperti accademici (es. istituti come Scuola Superiore Sant’Anna), rappresentanti di agricoltori e organismi di certificazione nella redazione dei criteri.
  3. Introdurre obbligo di monitoraggio minimo e registrazione dei dati in forma interoperabile.
  4. Prevedere misure transitorie di sostegno per ridurre il rischio economico e sociale della trasformazione.
  5. Assicurare trasparenza pubblica dei risultati e fascicoli aziendali sintetici accessibili.

9. Allegato: Tabella sintetica degli indicatori minimi

  • SOC 0–30 cm (%), baseline e ogni 3 anni.
  • Stabilità aggregati (%), baseline e ogni 3 anni.
  • Copertura suolo (%) annuale.
  • Uso N sintetico (kg N/ha/anno) annuale.
  • Uso pesticidi (kg a.i./ha/anno) annuale.
  • Diversità colture (indice) annuale.
  • Bilancio GHG stimato annuale.
  • Indicatori socioeconomici (valore aggiunto per UAA) annuale.

10. Conclusioni

La definizione e la certificazione dell’agricoltura rigenerativa devono combinare criteri gestionali, risultati ecologici e indicatori socioeconomici con protocolli di monitoraggio e governance che garantiscano trasparenza e indipendenza. Solo così il termine "rigenerativo" potrà mantenere credibilità scientifica e sociale, evitando derive di marketing e greenwashing.

 

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