Antonio Bruno è Laureato in Scienze Agrarie Dottore Agronomo iscritto all'Ordine di Lecce - Esperto in diagnostica urbana e territoriale e studente all'Università del Salento del Corso di laurea in Viticultura ed Enologia
martedì 31 agosto 2010
Rusciuli del Salento leccese (Corbezzolo Arbutus unedo L.): ne mangio uno! Uno e basta!
Rusciuli del Salento leccese (Corbezzolo Arbutus unedo L.): ne mangio uno! Uno e basta!
di Antonio Bruno*
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Il corbezzolo (rusciulu per il Salento leccese) è un arbusto o alberello sempreverde che può, con una ruvida corteccia scura.
Le foglie sono di colore verde scuro, più chiare nella pagina inferiore, lunghe 4-5 cm., ellittiche, lucide, col margine seghettato. I fiori sono piccoli e a gruppetti, di un colore che va dal bianco al roseo.I frutti sono simili alle fragole, sferici, grandi fino a 2 cm., conuna superficie verrucosa e ruvida.
In questa nota notizie di questo frutto del Salento leccese.
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“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
Cantu nna beddha strìa ca’ passa e tice:
“Rusciuli russi, ci òle rusciuli?”
O Lecce t’amu tantu e su’ felice.
Traduzione
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
Canta una bella ragazza che passa e dice
Corbezzoli rossi, chi vuole corbezzoli?
O Lecce t'amo tanto e son felice
Sarà per il loro colore che mi fa pensare al bel rosso delle labbra di questa donna, sarà che questa bella donna li offre con spensieratezza, ma questi frutti mi mettono allegria e sono stati per tanto tempo mangiati da papà e mamme del Salento leccese. Adesso non li trovi mai!
Scrive Gianni Ferraris in Spigolature Salentine - Autori e pagine sul Salento e per il Salento: “Terra di profumi, e di colori il Salento. Il cielo è azzurro intenso, il mare passa dal verde al bianco, al nero. E la campagna ha il rosso della terra e il verde intenso della vegetazione. In queste terre ho mangiato per la prima volta nelle mia lunga vita i corbezzoli raccolti dall’albero (rusciuli in dialetto), ed ho raccolto rucola spontanea. Ne trovi ovunque qui. Ed ho visto ballare la pizzica. Pizzica e taranta, ritmi simili che hanno contaminazioni africane con l’ossessivo suono dei tamburelli.”
Il Corbezzolo Arbutus unedo L. è un arbusto sempre verde tipico del Salento leccese è una specie appartenente all'ordine delle Ericales, alla Famiglia delle Ericaceae e al genere Arbutus.
Gli antichi lo associavano alla dea Carna, protettrice del benessere fisico, rappresentata con un rametto di corbezzolo tra le mani con cui la dea scacciava gli spiriti maligni.
E' stato descritto da Aristofane, Teofrasto, Virgilio, Plinio, Ovidio e Columella che hanno descritto l'uso dei frutti della pianta attribuendo il nome latino unum edo (Arbutus unedo).
Se Virgilio nelle Georgiche indica questa pianta semplicemente col nome “arbustus”: arbusto, Plinio il Vecchio era entusiasta di queste bacche rosse o di un bell'arancione solo che ne raccomandava un consumo limitato.Plinio diceva "unum tantum edo", che tradotto significa "uno e basta". Ecco il perchè Arbutus unedo, tutto è stato determinato dai i romani che suggerivano cautela nel mangiare le corbezzole. Il nome latino della pianta è Arbutus unedo, da unum edo, ne mangio uno, non di più!
Questa cautela deriva dalla circostanza che vede alcuni individui che mangiano anche poche corbezzole soffrono di gravi disturbi gastrointestinali ed ebbrezza, quest'ultima determinata dal fatto che quando “i rusciuli”sono maturi contengono una discreta quantità d'alcol. Se vi avvicinate all'albero di Corbezzolo raccogliete i frutti si raccolgono quando sono belli rossi e morbidi al tatto.
Un frutto che ti ci possono mandare a raccoglierlo: “Ane! bba cuegghi rusciuli!!E poi dammeli tutti a mie!” che significa “E vai a raccogliere corbezzoli! E poi dalli tutti a me!”
E' originario dell'Irlanda dove si trova ancora oggi. I Romani possono averlo introdotto nel Salento leccese. Lu rusciulu è quasi estinto eppure lo sapete che si racconta che il corbezzolo ha ispirato i colori della bandiera italiana?
Bianco, rosso e verde: il bianco dei suoi fiori, il rosso dei suoi frutti ed il verde intenso delle sue foglie, ed ecco che nel Risorgimento Italiano divenne un simbolo patriottico, perchè proponeva i tre colori della bandiera che guidava i nostri antenati desiderosi di unire l'Italia, fu per questo motivo che il corbezzolo divenne simbolo della lotta di indipendenza.
Il corbezzolo compare anche nello stemma della città di Madrid.
Oltre ai frutti che i nostri papà e mamme hanno abbondantemente mangiato la pianta sta riscuotendo un successo per la presenza contemporanea in inverno di fiori bianchi, frutti rossi e aranciati e foglie verdi.
La pianta di corbezzolo può raggiungere dimensioni ragguardevoli con un diametro di metri 2,5 e un'altezza di 5 – 8 metri.
Ha infiorescenze terminali che pendono con 15 – 30 fiori. La fioritura avviene a partire da questo mese di Settembre sino al Marzo successivo, il frutto è una bacca che pesa da 5 a 8 grammi, si può mangiare ha una polpa ambrata piena di sclereidi (sono quelle parti che formano il guscio di molti semi) con un numero variabile di semi, ed è ricchissimo di zuccheri e vitamina C.
Gli uccelli sono ghiotti dei rusciuli, nutrendosene diventano i responsabili della diffusione di questa pianta, ma è anche riproducibile per parte di pianta visto che la pianta del corbezzolo dopo un incendio ricaccia abbondantemente, facendo questa pianta adatta per l'uso forestale nella nostra zona che è ambiente di macchia mediterranea soggetta agli incendi estivi.
*Dottore Agronomo
Bibliografia
Pizzi - Gentile: Lecce Gentile
Gianni Ferraris: La torre del Serpe
Federico Valicenti: C'era una volta il Corbezzolo
Nieddu, G.; Chessa, I. : Il corbezzolo [Arbutus unedo L.]
Chessa, I.; Mulas, M: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa
Morini, S.; Fiaschi, G.; D°Onofrio, C.: Indagini sulla propagazione per talea di alcune specie arbustive della macchia mediterranea
Chessa, I.; Mulas, M.: Le specie frutticole della macchia mediterranea: la valorizzazione di una risorsa
Salento leccese senza Bonifica: la palude dei sogni
Salento leccese senza Bonifica: la palude dei sogni
di Antonio Bruno*
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Tutti abbiamo dimenticato, tutti pensiamo che le paludi non siano mai esistite, che il nostro territorio è stato sempre bello e salubre com'è oggi. Invece dovremmo tutti tenere bene a mente che solo con la consapevolezza del pericolo incombente di tornare alla palude ci consente di evitare guai peggiori e tale consapevolezza è quella che deriva dal Consorzio di Bonifica del Salento, dalla sua azione quotidiana a salvaguardia dell'ambiente e del territorio.
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I tempi passati, il Paesaggio del Salento leccese era caratterizzato dalle sconfinate distese di acqua stagnante che si situavano sia lungo la costa che nell'entroterra. I nostri antenati convivevano con l’impossibilità di soggiornare in quei luoghi a causa dell’infezione malarica, erano costretti a subire l’impossibilità di coltivare la terra perché sommersa dagli stagni fetidi, e non tentavano nemmeno di raggiungere quelle zone per il difficile cammino da intraprendere per le impervie asperità fisiche del paesaggio e per la mancanza di vere strade.
Che ne è stato di quel Paesaggio? Il Consorzio di Bonifica del Salento leccese ha cancellato tutto questo, e la mia narrazione ha lo scopo di ricordare com'era il nostro territorio, anche perchè sappiamo tutti che in mancanza di una puntuale manutenzione del reticolo idrografico del Salento leccese la natura tornerebbe ad avere la meglio e saremmo di nuovo tutti in mezzo a una palude. Così accadde al territorio del Salento leccese quando nel medio evo fu abbandonato a se stesso dopo le bonifiche realizzate dall'Impero Romano, fu per questo motivo che le paludi si rimpossessarono del territorio.
E' possibile avere un'idea ancora più espressiva del Salento leccese osservando le carte di Domenico De Rossi stampate nel 1714. La visione di queste carte ci rende consapevoli che le cosiddette “zone umide” non erano presenti solo sulle coste, poiché interi territori all'interno della nostra provincia c'era la presenza di acque stagnanti. Dalle aree a nord di San Pietro Galatino (Galatina), fino al territorio meridionale di Cellino San Marco. E' davvero sorprendente sapere che le “acque chiuse in depressioni” erano così diffuse tanto da essere temute per le infezioni malariche.
Luciano Milo in un suo articolo riferisce di altre paludi visibili in una zona al centro di un cerchio ideale, segnato dai paesi di Neuiano (Neviano), Culpazzo (Collepasso), Sourrano (Scorrano), Sanaria (Sanarica), inoltre Taviano aveva uno specchio isolato. Tutti questi paesi, come è facile verificare su una cartina, sono all'interno del Salento leccese.
Anche allora la costa adriatica, proprio di fronte alla città di Lecce, era caratterizzata dalla presenza di grandi acquitrini e paludi.
Ma c'è di più, dalle carte del De Rossi possiamo finalmente vedere emergere le foreste del Salento leccese, infatti i territori che le ospitavano prendevano il loro nome proprio dalla presenza di fitti boschi come ad esempio il caso della località "La Macchia", sopra Craparica (attuale Caprarica), oppure "Il Bosco", tra Sandonaci, Guagnano e San Brancatio (San Pancrazio, Salentino dei nostri giorni). Boschi anche dietro le colline di Matino, fino al territorio di San Demetrio e altri boschi oltre l'Arneo, fino a San Giuliano.
Nel 1755 il Marciano, riferendosi alla fascia costiera, di Lecce parla dell’esistenza di una palude detta “stornara”, che rendeva “quell’aere molto cattivo; ma né tempi antichi vi erano alcuni canali che trascorrevano nel mare, e spurgavano la palude”. Era un paesaggio, questo descritto dal Marciano, che stava assumendo una ben precisa connotazione ed il cui processo evolutivo contemplava solo traguardi negativi, quali il progressivo restringimento della superficie destinata alle colture ed il dissennato disboscamento (tra Lecce e Roca c’era la famosa foresta di Lecce, di cui si serba memoria solo nei documenti). Questi fenomeni di deterioramento ambientale si saranno certamente aggravati per la crisi economica e demografica del ‘600; verso la metà del XVII secolo, infatti, alcune masserie della zona risultano abbandonate.
Ancora nel ‘700, tuttavia, forse in seguito ad una qualche ripresa economica e demografica, l’area in questione, ossia quella tra i centri abitati e la costa, era intensamente coltivata, anche in relazione alle paludi. Da un documento del 1755, sappiamo che in diverse masserie della zona si coltivava il lino e, nelle stesse masserie, le attività agrofondiarie erano abbastanza intense e redditizie; la presenza delle paludi, quindi, almeno fino al XVIII secolo, non costituì un fattore di repulsività.
Infatti nel nostro territorio in quei tempi il rapporto tra uomini e paludi è stato incentrato su un rispetto reciproco con l'uomo che si guardava bene dall'andare a stabilirsi nelle paludi. Era una paradigma di un modo equilibrato e, si direbbe oggi, sostenibile, di fruire dell'ambiente della palude.
La percezione di chi viveva quotidianamente nel territorio era pertanto informata di sentimenti di positivo pragmatismo nei confronti delle acque.
Se non ci fossero stati i grandi proprietari che tentarono di coltivare le zone paludose e l'azione del Consorzio di Bonifica del Salento leccese, avremmo ancora estesissime parti di territorio paludose.
Le paludi erano il dramma di tanti contadini nostri antenati, sottoposti al pericolo di prendere la malaria e soprattutto privati di una terra che avrebbe potuto dargli di che vivere.
Purtroppo il primo studio dettagliato sulle paludi del Regno d'Italia risale solamente al 1865, ad opera del Pareto, Ispettore centrale delle bonificazioni e irrigazioni. E solo successivamente il Consorzio di Bonifica del Salento leccese sarebbe intervenuto per rendere vivibile il nostro territorio.
Tutti abbiamo dimenticato, tutti pensiamo che le paludi non siano mai esistite, che il nostro territorio è stato sempre bello e salubre com'è oggi. Invece dovremmo tutti tenere bene a mente che solo con la consapevolezza del pericolo incombente di tornare alla palude, ci consente di evitare guai peggiori e, tale consapevolezza, è quella che deriva dal Consorzio di Bonifica del Salento, dalla sua azione quotidiana a salvaguardia dell'ambiente e del territorio.
*Dottore Agronomo
Bibliografia
Lucia Seviroli: LE MODIFICAZIONI RECENTI DEL PAESAGGIO FISICO SALENTINO DALLE DESCRIZIONI DI COSIMO DE GIORGI
Luciano Milo: Salento 1714
Domenico De Rossi: Carta della penisola salentina 1714, tipografia" in Roma, alla Pace, "con privilegio del Sommo Pontefice"
lunedì 30 agosto 2010
La Pecora Moscia del Salento leccese non può scomparire!
La Pecora Moscia del Salento leccese non può scomparire!
di Antonio Bruno*
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Nel Salento leccese ci sono 24.523 ovini che producono quasi 25mila quintali di latte che oggi danno un reddito di circa 1 milione e 500 mila euro.
I pastori del Salento leccese producono il latte che, quando va bene, vendono a 60 centesimi di euro al litro.
Noi dobbiamo tutelare e difendere la pecora Moscia del Salento leccese perchè è dall'allevamento e dall'agricoltura che i nostri antenati hanno tratto di che vivere e grazie a queste attività si è organizzata la società così come la conosciamo noi.
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Vanno dal capo del governo i pastori d'Italia, i pastori del 2010 che si prendono cura di 70mila allevamenti italiani dove sono allevate quasi 7 milioni di pecore.
La pecora è il nome comune degli Artiodattili Ruminanti (famiglia dei Bovidi, sottofamiglia dei Caprini) del genere Ovis, cui appartengono, tra gli altri, oltre alla pecora domestica (Ovis aries), l'argali (Ovis ammon), il muflone (Ovis musimon) e la pecora delle Montagne Rocciose o bighorn (Ovis canadensis).
I pastori del 2010 si occupano delle loro pecore che in cambio gli fanno il dono del latte che poi , quando va bene, loro vendono a 60 centesimi di euro al litro.
I pastori non ce la fanno con così poco, ci vuole di più per produrre il latte! E poi due anni fa gli davano 75 centesimi di euro al litro e cioè il 25 per cento in più rispetto ad oggi! E le pecore il latte lo fanno per gli agnelli, che che sono un altro dono ai pastori, ma siccome gli agnelli nascono in tutto il mondo ecco che con la globalizzazione vengono portati in Italia, e vengono spacciati come agnelli italiani, anche se provengono dalla Nuova Zelanda o dai paesi dell'Est, per la mancanza dell’obbligo di indicare in etichetta l’origine a differenza di quanto avviene per la carne bovina.
La produzione media di latte per pecora è di circa cento litri all’anno con una produzione nazionale complessiva che è di 7 milioni di quintali. La prima regione di allevamento in Italia è la Sardegna con 3 milioni di quintali, Sicilia con 700mila quintali, il Lazio con 600mila, la Toscana con 500mila.
Nel Salento leccese ci sono 24.523 ovini (Fonte: Istat-2002) che producono quasi 25mila quintali di latte che oggi danno un reddito di circa 1 milione e 500 mila euro. Troppo poco per le spese sopportate dai pastori del nostro territorio.
Potreste dirmi che vi dispiace ma che non è un vostro problema, che è cosa che riguarda i pastori. Invece è cosa che riguarda tutti noi! E' grazie ai nostri antenati che cominciarono ad allevare gli animali che c'è stato il progresso che ci fa vivere così come viviamo oggi.
Abbiamo dimenticato che l’allevamento del bestiame è probabilmente stato avviato circa 9000 anni fa, quando gli insediamenti umani erano troppo popolosi perché caccia e raccolta potessero soddisfare le esigenze nutrizionali della popolazione.
Ma come fecero i nostri antenati a ottenere la domesticazione di ovini e caprini?
Per prima cosa seguirono i branchi di ungulati per la caccia; poi li tennero sotto controllo radunando i branchi di ungulati selvatici per esempio nei pressi di fonti d’acqua e poi hanno selezionato gli individui che più tolleravano l’uomo.
La scelta della pecora non è casuale poiché sia le pecore che le capre selvatiche hanno struttura sociale organizzata in gerarchia, hanno un home range (area che gli animali frequentano in cerca di cibo) ma non difendono un territorio (area che gli animali difendono attivamente dai conspecifici) tanto quanto le gazzelle o i cervi. Queste sarebbero le ragioni principali che ne hanno fatto i progenitori di animali domestici. Ma potereste chiedervi: quando sono state addomesticate le pecore? I resti più antichi che sono pervenuti risalgono a siti archeologici di Israele e Iraq (datati 8000 a.C.) e poi in Grecia.
E cosa distingue le pecore domestiche da quelle selvatiche? Quali sono i caratteri che indicano la domesticazione della pecora?
Possiamo coglierli osservando l'alterazione della forma delle corna con l'assenza nelle femmine, la capacità di accumulo di grasso, la presenza di vello lanoso e chiaro e l'assenza di giarra ed infine la struttura sociale basata su gerarchia di dominazione. Questi caratteri sono già presenti nell’iconografia mesopotamica (3000 a. C.) e egizia (prima del 2000 a. C.). Tali prove dimostrano che probabilmente la pecora è stata resa domestica prima della capra.
La “Worldwatch List” della FAO descrive con accuratezza la formazione “storica” delle razze degli animali domestici. Ad eccezione del cavallo, reso domestico nell’Europa dell’Est, la maggior parte delle specie animali domestiche utilizzate in Europa e nel Mediterraneo furono addomesticate in Medio Oriente, e poi diffuse attraverso le conquiste militari e le migrazioni. Ma fu soprattutto nel Medioevo che gli animali di ogni nazione divennero localmente tipici.
Le varietà locali furono selezionate in base ai tipi di colore, alla produttività e all’ambiente in cui vivevano. Sebbene non altamente produttivi, essi si erano adattati bene alle condizioni locali. Nel territorio del Salento leccese si è affermata la razza Moscia leccese. Nei trattati si scriveva che la razza di pecore Moscia della zona di Lecce, produce lana ricercata per materassi e fabbricazione di tessuti grossolani e che è pregevole anche per la produzione di latte. Può essere di due varietà: bianca e nera. I piccoli allevamenti stanziali sono costituiti per lo più da pecore di razza leccese a lana moscia.
La pecora Moscia leccese deriverebbe dagli ovini di razza asiatica o siriana del Sanson (ovis aries asiatica) e precisamente dal ceppo di Zackel. Dalla pecora Moscia originaria si sono diversificate nel corso degli anni due razze a diversa attitudine produttiva: l’Altamurana, a vello bianco e a preminente produzione di lana e la Leccese a prevalente produzione di latte, con faccia e arti a pigmentazione scura, che costituisce una protezione nei confronti dell’Hipericum crispum (erba tossica) molto diffusa nel Salento e il cui contatto procura dermatite nei soggetti con pelle rosata. La consistenza numerica della razza supera i 180.000 capi e la dimensione media, anche se esistono pochissimi allevamenti di dimensioni superiori, si aggira sui 70-150 capi, generalmente tenuti con forme di allevamento semibrado. L’indirizzo di miglioramento tende alla produzione del latte anche ai fini di un incremento della produzione ponderale negli agnelli. Della Leccese, poi, se ne distinguono tre tipi: leggero, medio e pesante, (quest’ultimo il più diffuso). Il tipo gigante deriverebbe dall’incrocio del genotipo medio-piccolo con arieti di razza bergamasca.
Storia e archeologia, ma anche fauna e paesaggio, il cui valore è riconosciuto a livello europeo, non possono essere spazzati via da un problema di prezzo del latte e per gli agnelli che si spacciano per italiani.
Mi sento di fare attraverso questa nota un invito rivolto a tutti i cittadini e agli amministratori pubblici del Salento, ad una «riflessione» perché sia salvaguardato e tutelato questo nostro lembo di terra: è un dovere che abbiamo verso i nostri figli e le nuove generazioni. Noi dobbiamo tutelare e difendere la pecora Moscia del Salento leccese perchè è dall'allevamento e dall'agricoltura che i nostri antenati hanno tratto di che vivere e grazie a queste attività si è organizzata la società così come la conosciamo noi.
Bibliografia
La protesta dei pastori si estende a tutte le Regioni http://www.europadeidiritti.it/TdifendiamociI895.html
Allevamenti Ovini e bovini ISTAT 2002
The 2006 IUCN Red List of threatened species – International Union for Conservation of Nature and Natural Resources, 2006
Worldwatch List for domestic animal diversità, 3d edition, FAO 2000
G. Vittorio Villavecchia,G. Eigenmann: Nuovo dizionario di merceologia e chimica applicata, Volume 4
La Puglia tra Medioevo ed età moderna: città e campagna
Istituto nazionale di economia agraria 1947: La distribuzione della proprietà fondiaria in Italia, tavole statistiche: Puglie
domenica 29 agosto 2010
A Supersano ritrovata la varietà di vite del Salento Leccese coltivata nel Medioevo
A Supersano ritrovata la varietà di vite del Salento Leccese coltivata nel Medioevo .
di Antonio Bruno*
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I ricercatori dell'Università del Salento leccese stanno lavorando per ottenere la ricostruzione della economia di alcuni villaggi medievali abbandonati.
E' vicina la vendemmia 2010, pare sia caratterizzata da una qualità dell'uva eccezionale, ma a Supersano c'è stato l’eccezionale rinvenimento dei vinaccioli non combusti.
Anche se l'Ateneo del Salento leccese non ha nella sua offerta formativa la Facoltà di Agraria, quando intraprende studi che affrontano problematiche del Paesaggio rurale sarebbe bene si raccordasse con l'Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Lecce gli unici professionisti del Paesaggio rurale.
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Se dovessi descrivere l'agricoltura della mia infanzia io sono certo che molti di voi che state leggendo non ci credereste. Eppure ho ricordi che risalgono a 50 anni fa, mezzo secolo, un tempo infinito per la memoria umana. Ma anche solo 25 anni fa c'era un agricoltura del tutto diversa da quella di oggi. Ecco che sono più che legittime le domande: Come vivevano i nostri antenati? Di cosa si nutrivano? Quali erano le piante che coltivavano? E quali animali allevavano?
L'Università del Salento con il Laboratorio di Archeobotanica diretto dal Responsabile Scientifico Prof. G. Fiorentino hanno tentato di dare una risposta.
I ricercatori del Salento leccese stanno lavorando per ottenere la ricostruzione della economia dei villaggi medievali abbandonati di Apigliano, Quattro Macine, loc. Scorpo, presso Supersano e anche attraverso materiali ritrovati negli scavi di Muro Leccese, e Lecce- Castello Carlo V. Le informazioni vengono elaborate dopo che si è provveduto a riconoscere specie di valore alimentare per l’uomo e per gli animali.
Gli studi condotti ad Apigliano e Quattromacine hanno permesso di ricostruirne il paesaggio caratterizzato da piante della macchia mediterranea sia alta con chiome che raggiungono i 4 metri d'altezza e con la presenza delle specie arboree del genere QUERCUS sezione suber (leccio e sughera), il CORBEZZOLO, alcune specie del genere JUNIPERUS (in particolare Ginepro rosso),
il LENTISCO. Arbusti come l'ERICA il CORBEZZOLO, il MIRTO, l'EUFORBIA ARBOREA, le
GINESTRE e altre cespugliose quali i CISTI e il ROSMARINO. In questi villaggi sono state inoltre individuate piante coltivate dall'uomo medievale come i pruni e, rispetto a tutte le altre piante, si è dovuto prendere atto della presenza, in maniera assolutamente preponderante e maggioritaria, dell’olivo.
Gli studiosi dell'Università del Salento attraverso lo studio dei legni (xiloresti), dei carboni (antracoresti), dei semi e dei frutti (carporesti) e dei pollini sono riusciti ad ottenere informazioni dettagliate riguardo le attività proprie dell’uomo medievale del Salento leccese, in campo agroicolo, silvo- pastorale, in campo cultuale e dell’artigianato.
Gli studiosi sono riusciti a fare una contestualizzazione ambientale da cui è emerso un paesaggio fortemente degradato: infatti il paesaggio del Salento leccese era originariamente costituito da bosco mediterraneo maturo (leccio e carpino nero). Gli studiosi hanno potuto raccogliere dati da indicatori specifici che hanno dimostrato gli incendi e il sovrapascolamento: prevalentemente erica, ma anche mirto e ramno, e poi attraverso indicatori antropici diretti (pruni e pomi).
Le strutture che sono state rinvenute dagli studiosi a Supersano- Loc. Scorpo, che erano pertinenti a fondi di capanna, sono state indagate tramite l’analisi dei resti dei carboni (analisi antracologica) che ha permesso di ipotizzare che avessero una struttura lignea portante in quercia e copertura straminea di erica. La determinazione tassonomica degli resti dei carboni (antracoresti) ha delineato la presenza del bosco mediterraneo caratterizzato da un querceto misto di caducifoglie e sempreverdi a fondo valle, sfruttato anche per il pascolo dei suini che sono stati individuati dagli studiosi del Salento leccese dall’indagine archeozoologica. Sulla Serra è stato ipotizzato, al contrario, un ambiente di macchia, probabilmente sfruttato per il pascolo degli ovi- caprini che sono stati anch’essi individuati dall’indagine archeozoologica)
Durante l’ultima campagna di scavo è stato individuato, all’interno della medesima area, un pozzo, che consentiva agli abitanti della zona di prelevare acqua direttamente dalla falda acquifera.
Il pozzo è stato poi completamente abbandonato e al suo interno nel corso dei secoli si è buttato materiale di diverso tipo. La cosa sorprendente è che i materiali organici che sono stati riversati, oggi sono stati ritrovato perfettamente conservati grazie all’ambiente anaerobico che si è creato nel pozzo.
Per le particolari modalità di conservazione dei resti questo pozzo è un unicum per l’Italia Meridionale medioevale.
I ricercatori dell'Università del Salento da una prima visione dei materiali organici provenienti dal pozzo hanno appurato la presenza di manufatti in legno. Inoltre hanno trovato anche semi e porzioni di frutto che sono materiali organici che permetteranno di delineare con chiarezza cosa mangiassero gli abitanti di Supersano. Sono stati ritrovati anche vinaccioli, noccioli di prunoideae e d’olivo e leguminose.
E' vicina la vendemmia 2010, pare sia caratterizzata da una qualità dell'uva eccezionale, ma a Supersano c'è stato l’eccezionale rinvenimento dei vinaccioli non combusti, che dunque presentano ancora intatte le caratteristiche molecolari, e questo ritrovamento eccezionale può consentire, attraverso lo studio del D.N.A., di risalire alla varietà del vitigno coltivato nel medioevo.
Come Dottore Agronomo auspico che al più presto venga fornito materiale per la propagazione di quel vitigno del medioevo perchè è estremamente interessante il confronto con le varietà impiantate attualmente, e sarebbe bello riuscire a impiantare un vigneto con le varietà del vitigno di allora anche se è bene che i ricercatori dell'Università del Salento sappiano che per fare questo sarebbe necessario DNA di una qualunque parte della pianta della vite perchè i semi che, come tutti noi Dottori Agronomi sappiamo, non riproducono le caratteristiche della varietà.
Ma nel pozzo ci sono anche i rametti di Vitis vinifera che presentano tracce di potatura, e dalla loro osservazione sarebbe interessante avanzare ipotesi sulle modalità di coltura. Infine l’analisi palinologica che permette di ottenere informazioni sulla origine geografica e botanica, sul sistema di produzione e sulla biodiversita' presente nell'ambiente circostante si potrà ottenere uno spettro vegetazionale dettagliato per la ricostruzione delle variazioni ambientali e le caratteristiche compositive del Bosco di Belvedere.
Per concludere anche se l'Ateneo del Salento leccese non ha nella sua offerta formativa la Facoltà di Agraria, quando intraprende studi che affrontano problematiche del Paesaggio rurale sarebbe bene si raccordasse con l'Ordine dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali della Provincia di Lecce gli unici professionisti del Paesaggio rurale.
*Dottore Agronomo
Bibliografia
Annamaria Grasso: Archeobotanica nel Salento Medievale
Fiorentino, G., 1999, "Ricerche archeobotaniche e paleoambientali", in P. Arthur (a cura di). Da Apigliano a Martano. Tre anni di archeologia medievale (1997- 1999), Congedo Editore, Galatina, pp. 54-56.
Fiorentino, G., 2004, "Il bosco di Belvedere a Supersano: un esempio di archeologia forestale, tra archeologia del paesaggio ed archeologia ambientale", in P. Arthur e V. Melissano (a cura di). Supersano. Un paesaggio antico del basso Salento, Congedo Editore, Galatina, pp. 20-28.
sabato 28 agosto 2010
Cicoria di Galatina (Chicorium Intybus, Cv. Catalogna) : il “subbra taula” del Salento leccese
Cicoria di Galatina (Chicorium Intybus, Cv. Catalogna) : il “subbra taula” del Salento leccese
di Antonio Bruno*
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Il mio bisnonno Giovanbattista Gabellone di Galatina la coltivava, una Cicoria Catalogna che è gustosa e croccante. Nel Salento leccese si mangia cruda annaffiandola con il buon vino di questo territorio. Scopriamo la Cicoria di Galatina leggendo questa nota.
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La “Memmi te Galatina” così mia nonna era conosciuta a San Cesario di Lecce perchè il suo papà Giovanbattista Gabellone, mio bisnonno, faceva il fruttivendolo e mio padre mi raccontava che spesso lo aiutava ad innaffiare gli alberi e le verdure “allu sciardinu” che gestiva in fondo a Via Umberto I, più nota agli indigeni come “la spallata”. Il mio bisnonno tra le altre piante aveva portato con se dalla natia Galatina la cicoria che avrebbe venduto come “subbra taula”. Tu che sei del Salento leccese con ogni probabilità sai benissimo che cosa sia il “subbra taula” traduzione: SULLA TAVOLA. Ma se sei un Salentino leccese troppo giovane, oppure se non sei di queste parti, cosa sia “lu subbra taula” non lo sai: ed ecco che io ti svelerò l'arcano!
In inverno quando non c'era la globalizzazione che ti fa arrivare la frutta da ogni parte del mondo e quando ancora non c'erano le serre che in un ambiente artificiale ricreano le condzioni climatiche dell'estate la frutta del Salento leccese era lu “subbra taula” ovvero il dopo pasto che poteva essere una serie di finocchi, oppure una serie di sedani ma anche una bella CICORIA MAMMALURA ovvero la cicoria di Galatina (catalana).
Ma la bellezza te lu subbra taula (traduzione: del sopra la tavola) è che deve essere rigorosamente annaffiato dal Negroamaro o dal Primitivo, i vini del Salento leccese!
Sapete dove c'è una consuetudine identica a questa del “subbra taula” del Salento leccese? No? Allora ve lo scrivo io: in Spagna, in alcune regioni della penisola iberica! Qui finocchi, sedani e cicorie di Galatina prendono il nome di SOBRE MESA (traduzione: in tavola). E' probabile che la tradizione “te lu subbra taula” sia un eredità della dominazione spagnola del Salento leccese. Infatti nel 1463, sotto Ferrante d'Aragona, termina l'epoca della contea, e Lecce si trasforma in ”Sacro Regio Provinciale Consiglio Otrantino“ e acquista sempre più importanza fino a divenire una delle città del Regno più ricche e culturalmente vive, seconda solo a Napoli.
Sotto Carlo V in seguito all’invasione dei Turchi che nel 1480 attaccarono e saccheggiarono Otranto, Lecce diventò una roccaforte spagnola: venne ricostruito il Castello e in tutto il Salento iniziarono a sorgere torri costiere e masserie fortificate è probabile che gli spagnoli abbiano portato la Cicoria catalana che veniva mangiata dopo i pasti.
C'è una vecchia filastrocca del Salento leccese che così dice:
Tice lu fenucchiu: al mieru me ngenucchiu
respunne la cecora: mieru n'ci ole ancora
Traduzione:
Dice il finocchio: al vino m'inginocchio
risponde la cicorio: vino ce ne vuole ancora.
Siccome la Cicoria di Galatina si mangia cruda è sicuramente fonte di beneficio per chi la consuma. La Cicoria appartiene alla famiglia delle Compositae e i Romani la conoscevano molto bene non solo per uso alimentare ma anche per le qualità terapeutiche, infatti, Galeno, medico greco, la considerava amica del fegato. Apicio il più noto e importante esperto di gastronomia dell’epoca romana consigliava di cucinare la cicoria selvatica con garum (salsa a base di pesce), olio e cipolla affettata, dimostrando di saperla lunga in fatto di contrappunti. Già nel 1700 la radice della cicoria essiccata, tostata, macinata e preparata come infuso, era utilizzata come correttivo o surrogato del caffè, dal medico padovano Prospero Alpini che ne aveva scoperto le proprietà curative. Un uso che venne ripreso alla grande durante l’ultimo conflitto mondiale come succedaneo del caffè a quei tempi diventato una rarità assoluta.
La cicoria di Galatina si semina in semenzaio a fine Maggio- inizio Giugno per raccoglierla in Novembre-Dicembre.
Si può seminare anche a file, lasciando trenta centimetri tra le piante, occorre irrigare perchè la pianta non accetta il secco, utile pacciamare facendo attenzione ai ristagni, possono favorire i rari attacchi dell'oidio.
Il trapianto si effettua dopo circa un mese e mezzo dalla semina, con piantine che hanno 4-5 foglie, spuntando leggermente la radice a fittone, in piena terra ben livellata ad una distanza di 25-30 cm tra le piante.
La varietà di Galatina produce i cuori (puntarelle) per questo motivo viene sottoposta a tecniche di forzatura e imbianchimento come per i radicchi.
Bisogna forzare la piante come altre cicorie, come la Cicoria di Bruxelles, i radicchi, la barba di frate....
Se la temperatura lo permette ovvero se non scende oltre i 5C° lo si fa in loco, se no bisogna portarle in locali o in serre o in risorgive, tenendole sempre al buio affinché crescano i germogli centrali eziolati e privi di clorofilla.
Si tagliano le foglie a circa un centimetro abbondante dal colletto-mondate e pulite da foglie secche e marce, si seppelliscono con materiale sano e asciutto (fino al colletto con pula di riso o segatura) e poi si mettono 50-60 cm di paglia di orzo o frumento a mò di cumulo, infine si copre con un telo nero di PVC. Si può anche tenere l'ortaggio in campo a patto che sia asciutto e sano. Dopo ottobre novembre le cicorie e le catalogne per ottenere l'imbianchimento vanno ritirate in zone riscaldate. Si deve aspettare circa 28-40 giorni a seconda delle preferenze di gusto, delle temperature e della conservazione.
La raccolta và fatta recidendo la pianta al colletto, la pianta ricaccerà dalla base con puntarelle singole. La raccolta deve essere fatta al momento giusto, quando i cespi sono sviluppati ma ancora teneri, e le puntarelle vanno tagliate appena sono sufficientemente grandi. La catalogna verde si raccoglie gradualmente nel corso dell’autunno, mentre la catalogna Brindisina solo nel tardo autunno o all’inizio dell’inverno, dopo che avrà perso il suo sapore amarognolo. La produzione va dai 2 ai 4 kg per metro quadrato.
Questi cuori (puntarelle) vengono mangiati crudi, sono teneri e poco amari. Si mangiano anche cotti, lessati semplicemente in acqua e conditi solo con un pizzico di sale e olio, si utilizzano anche le foglie più tenere oltre ai cuori (ciccioli - puntarelle), naturalmente.
La cicoria di Galatina ha scarsa resistenza al gelo infatti resiste fino a +5°, se la pianta gela quando si và a tagliare il grosso germoglio, si notano i Cuori (ciccioli) cotti e l'interno cavo pieno di ghiaccio.
Ho già scritto delle spiccate proprietà depurative della Cicoria (Chicorium inthibus) in una mia precedente nota http://centrostudiagronomi.blogspot.com/2010/06/curarsi-con-la-cicoria-selvativa-cecore.html ho già scritto che queste proprietà sono dovute all'azione coleretica (stimola l'eliminazione della bile), diuretica e lassativa, dovuta al fatto che sono presenti in maniera consistente l'apporto di fibre cellulosiche e dell'azione coleretica.
E' sempre preferibile consumare la cicoria cruda, magari in un'insalata mista: infatti la cicoria cotta perde gran parte delle proprietà terapeutiche e l'effetto decongestionante epatico è pressoché nullo. Per recuperarlo, almeno parzialmente, è opportuno bere qualche bicchiere dell'acqua di cottura, ricca di minerali e di vitamine.
Ricca di calcio, fosforo e vitamina A, la cicoria catalogna va comprata quando ha il fusto chiuso e turgido, ed è di un bel verde brillante. Si conserva per un paio di giorni in frigo nel cassetto delle verdure.
Valori nutrizionali della CICORIA CATALOGNA DI GALATINA [CHICORIUM INTYBUS, CV CATALOGNA]
Valori per 100 grammi:
Parte edibile: 80 g - 24 Kcal - Proteine animali: 0 g - Proteine vegetali: 1,8 g - Carboidrati: 3,2 g - Grassi: 0,5 g - Fibre: 3,1 g - Ferro: 0,7 mg - Calcio: 74 mg - Vitamina C: 17 mg
*Dottore Agronomo
Bibliografia
Clifford A. Wright: Mediterranean vegetables: a cook's ABC of vegetables and their preparation
Acta horticulturae, Edizione 533
Andrea Grignaffini: Bianca, belga o di Catalogna Ecco l'«erba» dai mille volti
Angelo Passalacqua: CICORIA PUNTARELLE
Cristina Cortese: La cicoria catalogna, madre delle puntarelle romane
Venerdì 15 maggio 2009 - palazzo della Cultura di Galatina – Convegno sulla tipizzazione e valorizzazione dei prodotti locali:”La cicoria di Galatina”
Grecia Salentina la Cultura Gastronomica
Journal of applied seed production, Volumi 13-16
Grazia Balducci: Gli ortaggi dalla A alla Z
venerdì 27 agosto 2010
La bonifica del Salento leccese
La bonifica del Salento leccese
di Antonio Bruno*
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Quali sono stati i motivi che hanno portato i nostri antenati a eliminare le zone umide la cui salvaguardia fu sancita il 2 febbraio 1971 dalla convenzione di Ramsar (Iran). Perchè i nostri antenati hanno eliminato le zone umide del Salento leccese nel 1800 per poi essere smentiti a Rasmar nel 1971 dove si stabilì che le zone umide sono ambienti molto particolari ed importanti per l'accumulo delle acque, per il controllo delle alluvioni e della regimazione del flusso dei corsi d'acqua, per l'azione termoregolatrice sul microclima e per l'amplissima varietà di esseri viventi che trovano in queste zone il loro habitat naturale?
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A cosa serve il Consorzio di Bonifica del Salento leccese? Le cronache regionali degli ultimi anni riferiscono di “spinte” per la totale soppressione del Consorzio del Salento leccese, visto come Ente inutile e sprecone, al pari o peggio delle Province. Ma perchè c'è un Consorzio di Bonifica nel Salento leccese?
Questa domanda è frutto della nostra clamorosa perdita di memoria e della mancanza di una narrazione di ciò che era il Paesaggio del Salento leccese. Infatti ciò che è accaduto da più di vent'anni per la memoria umana è ormai irrimediabilmente dimenticato, chiuso nella cassaforte dei ricordi. Nel 2010 il paesaggio del Salento leccese è una foresta di ulivi minacciata dagli incendi. Già è più raro vedere i vigneti che per anni hanno caratterizzato il nostro territorio, e il tabacco che dominava nei seminativi è oramai scomparso lasciando per lo più incolti i terreni che sino a qualche anno fa ospitavano questa coltivazione.
Ma lo sapete che non è stato sempre così? Com'era il paesaggio del Salento leccese nei secoli scorsi? E' importante saperlo perchè è stata l'opera del Consorzio di Bonifica che ha realizzato il paesaggio così come lo vediamo oggi.
Ma noi abbiamo la possibilità di sapere com'era consultando i documenti storici a nostra disposizione per comprendere cos'è e cosa ha realizzato il Consorzio di Bonifica del Salento leccese.
Nel 1400 l’Università di Lecce aveva comprato da un barone la “palude di Cassano”, dove normalmente si esercitava la pesca.
Il 16 maggio del 1450 il barone Giovanni dell’Acaya, attraverso una apposita convenzione, concedeva agli abitanti della città di Lecce di tagliare, asportare e bruciare canne dalle seguenti paludi del suo territorio: la “Cucuzza de Segine (la futura Acaya)”, la “Palude de Banze (Vanze)” e quella “de Campo Vetrano”. Per la palude “de Segine” si riservava la facoltà esclusiva di farne scorrere l’acqua fino al mare o altrove.
Come è possibile che la città di Lecce nel 1400 fosse circondata da paludi? La risposta è che in quel periodo moltissimo territorio del Salento leccese era occupato da paludi che partivano dalle coste e che si estendevano anche nell'entroterra. I documenti dimostrano che le paludi avevano un valore economico tanto da rappresentare oggetto di scambio come abbiamo potuto leggere.
Pare che le paludi del Salento leccese abbiano avuto origine nel periodo dell'alto medioevo, quando il potere di Roma non c'era più e il Salento indifeso, era soggetto delle scorrerie dei pirati, che contribuivano a spingere la popolazione verso i centri dell'interno.
Le coste abbandonate a se stesse insieme alle parti di territorio dell'interno abbandonate hanno dato la possibilità alla natura di esprimersi di nuovo su vaste aree e, senza l'opera della bonifica, le paludi ritornavano a interessare un'area estesissima, da Brindisi ad Otranto sull'Adriatico, da Leuca a Gallipoli e poi tra Nardò e Taranto lungo il litorale ionico.
Antonio De Ferrariis, detto il Galateo nel suo De Situ Japygiae (1511), scrive della grande palude vicino a Roca località sulla costa del Comune di Melendugno (Lecce) che rendeva malsana l’aria. Lo scrittore nella stessa opera scrive del litorale che dai laghi Limini arrivava fino a Brindisi, dove, in molti punti, “iuxta mare sunt paludes”, tali da rendere quel tratto di bassa costa povero di porti e privo di centri abitati.
Tutti sappiamo che tra la prima e la seconda metà del ‘500 si concretizzò il programma di costruzione delle torri costiere a difesa dalle continue incursioni dei turchi, torri che possiamo ammirare ancora oggi, nell'ubicazione delle Torri di difesa la presenza delle paludi fu ritenuta un elemento essenziale all’interno di tale programma, ed è per questo motivo che in corrispondenza delle paludi non furono costruite torri di difesa costiere.
Comunque anche se nel territorio c'erano le paludi comunque c'era la presenza di insediamenti e di coltivazioni; infatti, da alcuni documenti del 1564, che riguardano Gian Giacomo dell’Acaya, barone dell’omonimo feudo, sappiamo che nei territori di Segine (l'odierna Acaya) vi era “chiusura” coltivata detta “li cucurachi”, un’altra olivata detta “lo Camillo”, e più “orticelli” con “alberi comuni”; tutt’altro, quindi, che una zona abbandonata o improduttiva.
Si hanno addirittura notizie di battute di caccia fatte dal barone all’interno delle zone paludose. In altri termini, almeno fino ad allora, si trattava di formazioni paludose che non costituivano un serio pericolo per l’uomo ed è per questo motivo che sino a qual momento nessuno si era sognato di intervenire per eliminare le paludi.
Ma cosa accadde dopo?
Quali sono stati i motivi che hanno portato i nostri antenati a eliminare le zone umide la cui salvaguardia fu sancita il 2 febbraio 1971 dalla convenzione di Ramsar (Iran). Perchè i nostri antenati hanno eliminato le zone umide del Salento leccese nel 1800 per poi essere smentiti a Rasmar nel 1971 dove si stabilì che le zone umide sono ambienti molto particolari ed importanti per l'accumulo delle acque, per il controllo delle alluvioni e della regimazione del flusso dei corsi d'acqua, per l'azione termoregolatrice sul microclima e per l'amplissima varietà di esseri viventi che trovano in queste zone il loro habitat naturale?
Per rispondere a queste ed altre domande dovrete leggere le mie prossime note sapendo sin d'ora che il Consorzio di Bonifica del Salento leccese è la risposta a tutte queste domande.
Bibliografia
Lucia Seviroli: LE MODIFICAZIONI RECENTI DEL PAESAGGIO FISICO SALENTINO DALLE DESCRIZIONI DI COSIMO DE GIORGI
*Dottore Agronomo
giovedì 26 agosto 2010
I casali del Salento leccese abitati dalle persone venute da lontano
I casali del Salento leccese abitati dalle persone venute da lontano
di Antonio Bruno*
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Il casale rappresenta il supporto organizzativo per un tipo di economia basato prevalentemente sulla coltura dell’olivo e della vite; un insediamento rurale stabile.
Perché non proporre alle persone venute da lontano di vivere tra di noi nei casali esistenti? Avete visto le nostre campagne abbandonate? Perché non divenire un esempio, un paradigma per il mediterraneo?
In questa nota la proposta di rendere il Salento leccese un modello di convivenza tra i popoli.
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Uomini come me e come te che arrivano da lontano, che desiderano lavorare e che lo fanno nella terra del Salento leccese, una penisola che dopo la guerra ha mandato i suoi figli nel nord del paese e dell'Europa perchè qui non c'era abbastanza da vivere per tutti.
Uomini che arrivano dall'Africa, come i nostri progenitori spinti sempre più lontano, giorno dopo giorno dalla fame, dai figli che chiedevano pane. E' difficile dire di no a tuo figlio quando ti chiede un regalo, non posso pensare a ciò che proverei se mia figlia mi chiedesse da mangiare e io non avessi nulla da dargli, non ci posso pensare!
Masseria Boncuri a Nardò, ventotto tende che possono ospitare 8 persone ognuna, c'è l'assistenza, nessuno dei cittadini di Nardò che manifesta contro i 400 braccianti neri che quest'estate sono stati ospitati in quelle tende per raccogliere angurie, pomodori e peperoni, anche se il 13 luglio c'è stata una rissa con feriti.
Intanto Intorno alle 2 di oggi 26 ottobre 2010 a Marina Serra località balneare di Tricase (LE), gli uomini della Guardia di Finanza hanno rintracciato 26 extracomunitari, probabilmente di origine afghana, tutti uomini tra cui un minore. Questo sbarco fa alzare il numero dei clandestini arrivati nel Salento dall’inizio dell’anno ad oggi a 955. Nel Salento leccese c'è posto per uomini che vengono da lontano? Questa terra che possiede risorse ambientali di qualità integrate con un ricco patrimonio storico ed artistico, che insieme costituiscono l'essenza e l'immagine del territorio sappiamo tutti che è il frutto di secoli di accoglienza di persone giunte da ogni parte del mondo. E perchè oggi c'è l'indifferenza nei riguardi delle persone venute da lontano?
Eppure la nostra vocazione è di essere porta aperta verso i popoli del mediterraneo. Avevamo un modello che funzionava: il casale. E' un nucleo formato da quattro, cinque o più case, da una torre, una chiesa, un luogo per la sepoltura, uno o più trappeti per la lavorazione delle olive, i palmenti per pigiare l’uva, cisterne per le riserve di acqua, recinti e stalle per gli animali.
Il casale rappresenta il supporto organizzativo per un tipo di economia basato prevalentemente sulla coltura dell’olivo e della vite; un insediamento rurale stabile, provvisto delle strutture necessarie per la trasformazione dei prodotti dei campi e che risponde ad un’economia naturale, nella quale il necessario per vivere si ricavava dal lavoro fatto nei campi.
Il casale, dunque, non è soltanto un insieme di abitazioni, ma è un piccolo nucleo economico composto, come dice il Lizier, «da più fondi di natura e di cultura diversa situati nella medesima località, con le loro pertinenze, con una o più case con fabbriche ed edifici necessari all’azienda rurale, assegnati a una o più famiglie di coltivatori».
Perché non proporre alle persone venute da lontano di vivere tra di noi nei casali esistenti? Avete visto le nostre campagne abbandonate? Perché non divenire un esempio, un paradigma per il mediterraneo?
Questa proposta è finalizzata a gustare insieme il territorio, per sfruttare le differenti caratteristiche provenienti dalla cultura e dalle tradizioni dei popoli che sbarcano sulle nostre coste e dei prodotti tipici del mediterraneo che possono trovare il loro ambiente naturale nel Salento leccese.
Questo rappresenterebbe la dimostrazione della peculiarità della nostra terra che è stata per millenni terra d'accoglienza, rappresenterebbe una nuova finestra per le azioni di promozione del nostro territorio nella diffusione delle peculiarità e tipicità della nostra terra. La mia proposta ha l’obiettivo di contribuire a portare sul mercato globale le bontà della nostra tavola, ma anche le opere realizzate dalle mani dei nostri artigiani, le risorse ambientali e artistiche dei nostri paesi, per dare impulso allo sviluppo socio-economico e produttivo del Salento leccese.
L'insediamento stabile dei popoli del mediterraneo, nel territorio del Salento leccese, consentirebbe di attuare le “tradizioni” che risultano certamente innovative perché attuate “dal basso”.
In questo tessuto pieno di stimoli e di cooperazione tra i popoli si potrebbero attivare le attività di sostegno ad iniziative di innovazione tecnologica per i prodotti di qualità, di valorizzazione culturale a favore delle popolazioni del Salento leccese, di attività di educazione ambientale rivolte alle scuole
ed alle popolazioni rurali.
* Dottore Agronomo
mercoledì 25 agosto 2010
C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo
C'è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo
di Antonio Bruno*
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L'autunno ci costringe ad essere in un Salento leccese letteralmente flagellato da insiemi di fenomeni atmosferici che sempre più spesso si caratterizzano per una violenza certamente fuori dal comune e che causano ingenti danni e in alcuni casi modificano profondamente il paesaggio delle zone colpite.
In questa nota è spiegato come fare a non subire i danni provocati dall'insieme dei fenomeni atmosferici e dalle alluvioni.
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Siamo a fine agosto e tra qualche giorno le nuvole gonfie di pioggia annunceranno l'autunno ed i primi temporali faranno correre al riparo gli ultimi bagnanti nelle spiagge del Salento leccese.
Il temporale, l'odore della pioggia, la fine dell'estate e le spiagge con un cielo grigio che smettono di essere le accoglienti culle del refrigerio dalla calura estiva per divenire grigie e spoglie.
Ed ecco l'autunno che sempre più spesso ci costringe ad essere in un Salento leccese letteralmente flagellato da insiemi di fenomeni atmosferici che sempre più spesso si caratterizzano per una violenza certamente fuori dal comune e che causano ingenti danni e in alcuni casi modificano profondamente il paesaggio delle zone colpite.
Tutta quell'acqua che cade dal cielo sulla superficie del nostro Salento leccese dalle parti più alte ruscella verso quelle più basse e, se è troppa, ecco che può divenire un fiume di acqua che si può riversare per le strade causando danni ingenti a case, negozi, fabbricati industriali e terreni agricoli.
Ma l'acqua quando cade su una superficie piana che cosa provoca? Ce l'ha spiegato Davis nel 1922 che ci ha detto che all'inizio quando per movimenti tettonici un ampio tratto del fondo marino viene spinto a una certa altitudine è da quel momento sottoposto all'azione delle piogge che ruscellando dalle parti più alte a quelle più basse forma i corsi d'acqua, l'insieme dei quali altro non è, che il reticolo idrografico. Questa azione determina la degradazione del territorio e in questo stadio detto di giovinezza i corsi d'acqua lavorano approfondendo i corsi d'acqua sino a rendere nello stato di maturità un reticolo idrografico perfettamente compiuto. Oggi questo reticolo del Salento leccese nella porzione di territorio gestita dal Consorzio di Bonifica “Ugento e Li Foggi” è costituito da 127 canali realizzati con modalità costruttive diverse (in terra o in roccia non rivestita, oppure rivestiti con pietrame a secco o in calcestruzzo ed in alcuni casi costeggiati da stradelle di servizio). Questi canali si sviluppano per una lunghezza complessiva di 423 Km e intersecano 32 dei 78 Comuni ricadenti nel comprensorio di bonifica, necessitano di continua manutenzione per cui si rende necessario rimuovere la vegetazione che quando è abbondante e rigogliosa costituisce un impedimento al normale fluire dell'acqua.
Ecco perchè dovremmo tutti essere consapevoli che le manutenzioni dei canali e su tutti i corsi d'acqua rappresentano il fondamento della tutela del territorio e della salvaguardia della pubblica incolumità.
Il territorio del Salento leccese è caratterizzato da un pericoloso disordine idraulico determinato negli anni della ricostruzione dopo la seconda guerra mondiale e dal successivo periodo di grande crescita economica che ha causato profonde ripercussioni nel territorio del Salento leccese per l'aumento delle strade e delle costruzioni (tutte superfici impermeabili) che hanno determinato un accrescimento della quantità d'acqua che perviene ai canali e conseguentemente anche un aumento della velocità con la quale l'acqua affluisce in alveo.
Quali le conseguenze?
I violenti temporali riverseranno nel prossimo autunno sul territorio del Salento leccese tantissima acqua che è facile prevedere allagherà case, cantine, garage e negozi, fabbriche, centri commerciali e aziende agricole. Molti cittadini denunceranno ingenti danni, che richiederanno moltissime risorse finanziarie per essere quantificati. Ci saranno moltissime chiamate al 115 che è il numero dei vigili del fuoco che effettueranno numerosi interventi presso abitazioni, scantinati, terreni agricoli, centri commerciali e negozi allagati. I danni saranno pagati da tutti noi attraverso soldi dati dallo stato ai danneggiati se sarà dichiarato l'ennesimo stato di calamità naturale. Ma perchè non impiegare queste somme per prevenire i danni?
L’acqua piovana in città e nelle campagne segue dei percorsi ben precisi, come fossero dei rivoli. Il percorso è sempre uguale, ma la quantità di acqua fermata dalla vegetazione presente e da altri ostacoli paralizza il territorio del Salento leccese. La forza devastante delle acqua ha già fatto vedere nelle cronache delle TV locali del Salento leccese uno scenario inquietante: auto trasportate dalla forte corrente delle acque. Sempre per gli stessi motivi molte volte ecco che è possibile vengano bloccati i sottopassaggi che potranno risultare allagati a causa dei tombini otturati. Il maltempo non risparmia le colture nelle campagne, dove i contadini contano danni ingenti.
Siccome tutto questo è prevedibile ecco che è importante che si provveda annualmente alla manutenzione della rete idrografica, la qual cosa oggi non si fa per mancanza di fondi. L'autunno è alle porte e possiamo tutti essere certi che siccome non si è provveduto ad effettuare la manutenzione dell'intera rete idrografica del Salento leccese si verificheranno sicuramente problemi di deflusso delle acque meteoriche. Se si dovesse verificare un ciclo di avversità meteorologiche, si abbatterebbe su un sistema agricolo che, con fatica, cerca di tenere testa alla grave crisi congiunturale. Ecco perchè è necessario immediatamente garantire l’immediata attivazione della manutenzione della rete idrografica del Salento leccese fornendo al Consorzio di Bonifica “Ugento e Li Foggi” le risorse finanziarie necessarie.
Come dici? Pensavi che i Consorzi di Bonifica fossero enti inutili? Adesso hai capito a cosa servono? Bene! Allora vai dal tuo Sindaco e digli di attivarsi per chiedere a tutti i governanti di fornire le risorse finanziarie ai consorzi per scongiurare la minaccia di danni al territorio e per salvaguardare la pubblica incolumità.
*Dottore Agronomo
martedì 24 agosto 2010
SALVIAMO L'AZZERUOLO DEL PARCO DEI PADULI - BOSCO BELVEDERE SULLA MAGLIE COLLEPASSO
SALVIAMO L'AZZERUOLO DEL PARCO DEI PADULI - BOSCO BELVEDERE SULLA MAGLIE COLLEPASSO
Caro Alfredo,
pubblica per favore sul sito del Forum questo stupendo poetico ed importante contributo scientifico del Dott. Antonio Bruno su un antichissimo frutto salentino a rischio di locale scomparsa. Trova delle belle foto in internet per correlare il testo. L'unico esemplare di Azzeruolo (Crataegus azarolus L.) che ho scovato sin ora per il nostro Salento è nel Parco dei Paduli-Bosco Belvedere sulla Maglie-Collepasso, superato l'incrocio con la provinciale Cutrofiano-Supersano (proseguendo verso Collepasso), ed il curvone che si incontra poco dopo, lo si osserva al margine della strada sulla destra, di fronte ad un gruppo di querce caducifoglie (queste sulla sinistra), in una zona in cui la strada è bordata da canneti, mentre proseguendo poco oltre si giunge alla svolta sulla destra per Cutrofiano. E' un azzeruolo della varietà gialla, alto circa 4-5 m . I miei pensieri vanno con tanto affetto a quell'albero perché presto sarà tagliato per l'ampliamento della Maglie-Collepasso-Gallipoli; già gli olivi al margine son stati segnati da un cerchio rosso sul tronco segno del loro (mi auguro) espianto, o forse taglio! Spero che i lavori non iniziano subito così da poter in autunno raccoglierne i semi, gli ultimi.
Allo stesso modo chiedo al Dott. Bruno, nell'ipotesi che conosca coloro che in Provincia curano i lavori per l'ampliamento della strada, di scoprire se vi sono le possibilità per l'espianto anche di quell'azzeruolo che sarebbe un peccato perdere. Magari non è da escludere la possibilità di un articolo sui quotidiani con richiesta di simbolico salvataggio di quell' azzeruolo, da espiantare con cura agronomica e ripiantare altrove, che può servire da volano anche mediatico per fare conoscere questa specie al grande pubblico salentino, punto di partenza per una ridiffusione di questa importante pianta! Sempre al Dott. Bruno chiedo informazioni su come poter produrre alberelli da quell'azzeruolo, se da seme o/e da talea, come e quando procedere. Per chi fosse interessato, a quest'esemplare, dei suoi amici agronomi e non, segnali loro le indicazioni relative a quest'albero. Tanta mia premura anche perché non conosco la consistenza e diffusione della cultivar gialla di azzeruolo nel nostro Salento, ecco perché a priori sento importante non perdere il patrimonio genetico di quell'esemplare adattato ai terreni sabbiosi e argillosi dei Paduli. Per tanti ormai, quell'albero pieno di spine altri non è che un cespuglio selvatico, al più, i più attenti lo credono un biancospino (albero-cespuglio spinoso diffuso nel Salento e dello stesso genere dell'azzeruolo, ha nome scientifico infatti Crataegus monogyna L.), e così sarebbe stato anche per me se non fossi stato attratto, pochi anni fa, passando da lì in auto, dai suoi frutti dalla forma di piccole mele gialle, o mi pare di ricordare giallo-arancio in piena maturazione. Frutti di cui era densamente carico.
Leggono questa lettera anche gli amici Donato e Roberta interessati a questi antichi frutti del Salento. Così cara Roberta ti invito a inoltrare questa mail a quel tuo amico di cui mi hai parlato e che abbiam messo in contatto con il CEA (Centro di Educazione Ambientale) di Andrano per il suo grande interesse per i frutti antichi del Salento che tanto meritoriamente ha il desiderio di piantare in un suo appezzamento di terreno qui in provincia di Lecce. Una scelta saggia veramente e illuminata.
Saluti a tutti
e grazie a tutti voi per questo spontaneo moto dell'anima del nostro Salento volto al recupero di ciò che ci appartiene, che è tanto connaturato vitalmente alla nostra storia e cultura e che stavamo, e ancora purtroppo rischiamo, di perdere!
Oreste Caroppo
Nel Salento leccese si mangia il pane con le azzeruole
Nel Salento leccese si mangia il pane con le azzeruole
di Antonio Bruno*
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Secondo una recente indagine sui frutti dimenticati curata da una categoria professionale agricola a guidare la classifica c'è proprio l'azzeruolo conosciuto solo dal 15 per cento degli italiani.
Con il legno di azzeruolo i Romani facevano le tende, e, secondo Plinio, il ratto delle Sabine ebbe luogo al chiarore di tende di questa specie.
Scopriamo insieme questo piccolo gustoso frutto del Salento leccese.
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Un ferragosto bello ed esclusivo: io e la mia famiglia nella casa di Piero e Luisa a chiacchierare anche di agricoltura. Tante palme, dico a Piero che sono tutte a rischio Punteruolo Rosso, il Rhynchophorus ferrugineus killer delle palme, io gli riferisco dell'endoterapia preventiva del Prof. Porcelli dell'Università degli Studi di Bari (entomologo), gli dico dei trattamenti endoterapici di tipo "nuovo" che sperimentati in collaborazione con lo IAM (Istituto Agronomico Mediterraneo) hanno dato grossi risultati che però sono preventivi e curativi solo nelle primissime fasi di infestazione, quando cioè ci vuole un occhio esperto per verificarla.
Luisa mi ha offerto un frutto piccolo e rosso un po' più piccolo di una ciliegia, che ho subito assaggiato e gradito. Dolce, il sapore simile a quello di una mela, solo più intenso, più profumato. “Mio padre piantò un albero e quando i primi frutti maturarono mi disse che per lui il sapore di quei frutti piccoli era uno dei sapori della sua infanzia...” . E' commossa Luisa mentre me lo racconta e poi insieme telefoniamo alla sua mamma per chiedere di che frutto si tratti, il suo nome, dove è stato coltivato, ma nulla, Luisa ha ancora la fortuna di avere la nonna, la chiamiamo ma nemmeno lei rammenta nulla di quel gustoso frutto.
Passano i giorni e quel frutto mi rimbalzava dentro, potevo sentirne ancora il gusto, era saporito come il viso di una donna bellissima che hai incontrato per strada e di cui non conosci il nome. Ed ecco che chiedi in giro informazioni, racconti della circostanza che te l'ha fatta incontrare, speri che qualcuno la riconosca attraverso la tua descrizione, e lo fai perchè speri di rivederla ancora, per poter provare ancora lo stresso piacere che hai provato quando l'hai vista la prima volta.
E' stato in questo modo che Luisa ha scoperto che il frutto dolce e profumato veniva dall'albero di azzeruolo. Ha chiamato mia moglie e gliel'ha detto e mia moglie l'ha riferito a me.
L'albero che produce questo frutto saporito cresce spontaneamente nei boschi per questo viene chiamato comunemente “mela di bosco”. La circostanza accaduta mi ha definitivamente convinto che molti frutti rischiano l'estinzione infatti sono pochissimi gli esemplari di Azzeruolo sopravvissuti. Ma c'è di più: secondo una recente indagine sui frutti dimenticati curata da una categoria professionale agricola a guidare la classifica c'è proprio l'azzeruolo conosciuto solo dal 15 per cento degli italiani. In Italia alla fine dell'Ottocento si contavano 8000 varietà di frutta, mentre oggi si arriva a poco meno di 2000 e di queste ben 1.500 sono considerate a rischio di estinzione.
E pensare che Carlo De Cesare nel 1859 nel suo Libro Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia scriveva “La lazzeruola abbonda nelle due province di Bari e Lecce. Se ne coltivano due qualità, la gialla detta di Germania che è la più comune, e la rossa che è più piccola dell'altra”.
L'azzeruolo appartiene appartenente alla famiglia delle Rosaceae, sottofamiglia delle Maloideae ed al genere Crataegus la cui specie da frutto più interessante è il Crataegus azarolus.
Il Crataegus azarolus L. è anche chiamato lazzeruolo, è un albero termofilo ricordando che si definisce SPECIE TERMOFILA una specie di vegetali di ambienti caldi. Il Crataegus azarolus L. è presente in tutto il bacino Mediterraneo in particolare nella fascia climatica della roverella e del leccio. E quel frutto che tanto mi ha colpito è costituito da un pomo globoso di dimensioni variabili a seconda che la provenienza sia selvatica o coltivata. L'albero di azzeruolo raggiunge l'altezza di 2 - 3 metri ed un diametro alla base di 12 a 15 centimetri, preferendo un terreno calcareo-argilloso giunge al suo sviluppo massimo in 20 a 25 anni. Si presta particolarmente per le siepi vive, sopportando benissimo la potatura con la forbice e divenendo sicura difesa per molti anni contro gli uomini e le bestie per le moltissime spine di cui è munito.
Il tronco dell'azzeruolo presenta una corteccia di colore marrone scuro ed ha le branche irregolari e ricche di nodi. I rami giovani sono pelosi, la loro corteccia è nerastra e sono provvisti di spine. I fiori sono riuniti spesso in infiorescenze a corimbo, portate all'apice dei rami dell'anno. I fiori sono piccoli e bianchi. I frutti sono dei pomi di forma depressa, con un'ampia cavità calicina, di piccole dimensioni, con una buccia di colore rosso, giallo o biancastro a seconda delle varietà. La polpa invece è di colore crema, a volte farinosa a volte butirrosa, che mi ha colpito per il sapore gradevole. I semi presenti in un numero variabile da 1 a 5 e hanno consistenza legnosa.
Il legno pesante, duro, tenace, elastico, di fibra morta e di colore rossiccio a macchie, si adatta a diversi usi, fra i quali principalmente per pialle e bastoni, i quali ricevono una tinta rosso bruna passandoli con la corteccia nel fuoco ed immergendoli successivamente nella calce.
Questo legno dà molto calore. Un decimetro cubo di legno secco pesa chilogrammi 0,862.
Di questo legno i Romani facevano le tende, e, secondo Plinio, il ratto delle Sabine ebbe luogo al chiarore di tende di questa specie.
Siccome l'azzeruolo si propaga essenzialmente per innesto, usando come portainnesto principalmente il biancospino, o più raramente il pero selvatico, il cotogno e il nespolo comune, sarebbe auspicabile che ogni agricoltore ne conservasse qualche esemplare nella propria azienda.
La pianta viene lasciata a se stessa affinché assuma il portamento naturale ovvero la forma piramidale. In primavera i suoi fiori sono un irresistibile richiamo per api, vespe ed altri insetti che fanno del nettare il loro principale alimento. In autunno i suoi frutti divengono cibo ricercato dagli uccelli e continuano ad esserlo fino all'arrivo dell’inverno perché in buona parte persistono sui rami. Merli e tordi sono i principali frequentatori dei rami.
Le cultivar di azzeruolo hanno un periodo di maturazione compreso tra la metà di agosto e l’inizio di ottobre e si distinguono tra loro soprattutto per le dimensioni e la forma del frutto ed il colore della buccia; di seguito vengono descritte le varietà principali.
Gialla del Canada: il pomo è tondeggiante con l’epidermide di color arancio-rosso, matura a metà agosto.
Moscatella: è la vera azzeruola gialla, a frutto meliforme, di buona pezzatura, con polpa dal sapore dolce-acidulo; l’albero ha foglia come il biancospino e fioritura altrettanto decorativa, matura in settembre.
Rossa d’Italia: a differenza del precedente la buccia è rossa.
Azzeruolo invernale: è coltivato soprattutto a scopo ornamentale, infatti i suoi piccoli frutti aranciati sono molto decorativi per tutto l’autunno e parte dell’inverno; l’albero è più esuberante che negli altri tipi e possiede un bel fogliame verde lucente.
La raccolta è effettuata manualmente, bisogna però far completare la maturazione per favorire la trasformazione dei tannini astringenti presenti nel frutto in zuccheri dolci. Bisogna ricordare che le azzeruole non sopportano i trasporti quando sono mature e questo le rende frutti a chilometri zero!
Le azzeruole consumate fresche sono dissetanti, rinfrescanti, diuretiche e ipotensive; la polpa ha proprietà antianemiche ed oftalminiche. Si seccano stese all’ombra su una reticella a maglie fitte di materiale plastico e atossico oppure su un cannicciato.
In confetture, marmellate e gelatine, insalate e macedonie di frutta; si utilizzano in pasticceria, si conservano sotto spirito e grappa.
In cosmesi rivitalizza le pelli sciupate grazie alla provitamina A che è utile anche per chi ha problemi oftalmici.
Siccome l'azzeruolo è pianta ornamentale, da frutto e medicinale, un mio amico l'ha piantata e mi ha suggerito di acquistare un filone di pane appena uscito dal forno e di mangiare le azzeruole con quel pane, io non l'ho ancora fatto ma Luisa che mi legge, la prossima volta che ci vedremo mi darà le sue belle azzeruole e proverò a gustarle con il pane appena sfornato. Invece di pane e acqua per i carcerati oppure di ane e cioccolata per i golosi io assaporerò pane e azzeruole il cibo che fa ritornare la memoria.
*Dottore Agronomo
Bibliografia
C. Bignami - Dipartimento di Produzione Vegetale Università della Tuscia – Viterbo: L’AZZERUOLO (Crataegus azarolus L.)
Carlo De Cesare: Delle condizioni economiche e morali delle classi agricole nelle tre provincie di Puglia
Annalisa Strada, Gianluigi Spini:La vita segreta degli alberi
Fabio Di Gioia: Salvaguardia e coltivazione dell'azzeruolo
Laura H: Il frutto dimenticato... L'Azzeruolo
Alessandro Mesini: Azzeruolo
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