L’inchiesta- Da La
Gazzetta del Mezzogiorno di venerdì 20 novembre 2015
di Tiziana Colluto
In un bar che si affaccia sullo storico porto messapico di
San Gregorio, a Patù, due fotografie incorniciate dicono di quello che è stato:
una costa immacolata, la terra rossa e i muretti a secco a inseguire il mare,
qualche sparuta casetta di pescatori, di quelle bianche di calce. S’inchioda lo
sguardo: «vedi, è il ritratto di ciò che non c’è», dice una signora. E quando
non c’è neanche il sole d’agosto a riempire questi luoghi, resta il girotondo
di strade deserte gonfiate dal Libeccio e gli appartamenti con le persiane
azzurre che si affastellano l’uno sull’altro e l’asfalto grigio che arriva fino
alla battigia, anzi dentro l’acqua. Sì, San Gregorio di quarant’anni fa è
scomparsa.
È la dannazione del litorale salentino: si è costruito
ovunque, si è divorato un quadro. E quando non è stato l’abusivismo, sono stati
– e sono ancora – vecchi, vecchissimi, strumenti urbanistici a concedere il
lasciapassare per lo sfregio. Non è solo una questione di costa, ma anche di
entroterra. E non è un problema di ieri, ma di oggi: la provincia di Lecce è
zona rossa, tra quelle in cui in Italia più si divora campagna vergine. Ha già
fagocitato l’11,9 per cento del suo territorio, ben al di sopra della media
nazionale del 7 per cento, molto oltre quella regionale che oscilla tra il 7,4
e il 9,7 per cento. Supera anche quella campana, tra le peggiori per eccellenza,
pari al 10,2.
A consegnarci la cartina choc è il rapporto “Il consumo di
suolo in Italia 2015”, elaborato dall’Ispra con la collaborazione delle Agenzie
per la protezione dell’ambiente delle Regioni. È difficile da digerire, perché
cancella ogni alibi: in termini assoluti, Lecce è tra le province in cui si
superano abbondantemente i 30mila ettari, al pari di Napoli, Verona, Cuneo,
Padova, Treviso, Salerno, Bari e Venezia. Peggio stanno solo Roma, Torino,
Brescia e Milano. Non ha in comune con questi centri l’essere una grande area
urbana né un importante agglomerato industriale. Ha, però, un vizio antico:
abusa di sé. Villaggi turistici e capannoni, cave e strade, insediamenti
commerciali e produttivi e poi case, case e ancora case, sparse ovunque. Il
mattone e il cemento hanno ingurgitato, solo in questa provincia, 33.285
ettari. È terra che non si ricrea daccapo. È perduta, per sempre. Punto.
È la storia che si è ripetuta in quelle che erano paludi poi
diventate villette a schiera e bizzarrie: a Casalabate e lungo tutto il
litorale leccese; a Torre Pali, Torre Mozza e in buona parte dell’arco ionico.
È la stessa che a Porto Cesareo ha piantato nell’acqua i piedi di ristoranti,
alberghi e abitazioni. O ha fatto lievitare come il pane le lottizzazioni di
Porto Miggiano, graziate anche dal perimetro del Parco regionale Otranto-Leuca.
La campagna, i suoi ricami, dovevano essere un giardino e sono diventate
officine, garage, ville di lusso, pannelli fotovoltaici.
A non dare scampo è l’elevata risoluzione, a cinque metri,
della cartografia prodotta dall’Ispra, ciò che ha permesso di valutare punto
per punto tutta la superficie consumata. Nel Leccese, Aradeo è il caso più
eclatante: lì, incuneato nell’entroterra, con un saldo naturale e uno
migratorio negativo da anni, stando ai dati Istat. Eppure, si gonfia, come la
pancia di un rospo. E ha già perduto il 24,6 per cento del suo territorio. «E’
tra i comuni italiani a più elevata densità abitativa, con quasi 9700 abitanti
distribuiti su 800 ettari», prova a spiegare il sindaco Daniele Perulli. Poi,
c’è Castro, abbarbicata alla roccia tenera, un pallottoliere di balconi,
finestre, terrazze alla moda degli anni ’70, ai piedi del borgo che restituisce
tesori archeologici. Di là, nel Gallipolino, Taviano, Racale, Melissano, Tuglie
hanno barattato terra con cemento, destino a cui non è stato in grado di
sottrarsi neanche il Capo di Leuca, tutto intero. I vincoli per provare a
tutelarne almeno la costa sono arrivati forse troppo tardi: Castrignano del
Capo, Corsano, Tiggiano, Gagliano, Tricase, Morciano, Alessano, Patù, Acquarica
sono le bellezze più tormentate. In
termini assoluti, è Lecce la capitale di ettari consumati, pari a 3009, seguita
da Nardò, che ne ha 1839, e Ugento, con 987.
Dove vuole andare il Salento e cosa vuole essere? È
l’interrogativo a cui urge rispondere. Perché se continua così, lo confermano i
numeri, sarà come i quadri di San Gregorio: solo il ricordo di se stesso.
Comuni leccesi a più alto consumo di suolo
I valori percentuali sono calcolati rispetto al totale del
relativo territorio comunale. In base ai dati derivanti dal Rapporto Ispra 2015
“Il Consumo di suolo in Italia”, i comuni in cui si supera la media provinciale
del 13,3 per cento sono i seguenti: Aradeo (24,6 per cento); Castro (23,3);
Taviano (23,2); Racale (23,1); Melpignano (22); San Cesario di Lecce (21,9);
Sogliano Cavour (21,8); Melissano (21,6); Tuglie (20,9); Castrignano del Capo
(19,2); Corsano (19); Surbo (18,6); Porto Cesareo (18,5); Cursi (18,4); Maglie
(18,3); Taurisano (18,3); Monteroni (17,8); Tiggiano (17,8); Calimera (17,1);
Tricase (17); Miggiano (17); Gagliano del Capo (16,9); Morciano di Leuca
(16,9); Surano (16,9); Casarano (16,7); Gallipoli (16,6); Diso (16,4);
Collepasso (16,2); Alliste (16,2); Ortelle (15,7); Castrignano de’ Greci
(15,6); Acquarica del Capo (15,5); San Cassiano (15,5); Carmiano (15,4);
Spongano (15,4); Parabita (15,3); Seclì (15,3); Trepuzzi (15,2); Arnesano (15);
Matino (15); Alessano (14,8); Cavallino (14,7); Copertino (14,7); Patù (14,6);
Uggiano La Chiesa (14,2); Novoli (14,2); Poggiardo (14,1); Martano (13,9);
Andrano (13,5).
Comuni leccesi a più basso consumo di suolo
I valori percentuali sono calcolati rispetto al totale del
relativo territorio comunale. Stando ai dati derivanti dal Rapporto Ispra 2015
“Il Consumo di suolo in Italia”, questi comuni sono al di sotto della media
provinciale: Cannole (4,7 per cento); Carpignano Sal. (5); Vernole (5,6);
Salice Sal. (5,7); Otranto (5,8); Supersano (5,9); Guagnano (6,3); Giuggianello
(6,3); Castrì (7); Cutrofiano (7,3); Palmariggi (7,5); Melendugno (7,5); Campi
Sal. (7,7); Scorrano (7,7); Caprarica di Lecce (7,8); Giurdignano (8); Veglie
(8,3); Minervino (9,4); S. Cesarea Terme (8,8); Nardò (9,5); Sternatia (9,5);
Sannicola (9,8); Ugento (9,8); Bagnolo del Salento (10); Neviano (10,5); San
Pietro in Lama (10,7); Alezio (11); Ruffano (11,1); Nociglia (11,3); Galatone
(11,4); Lizzanello (11,4); Leverano (11,5); Lequile (11,6); Squinzano (11,6);
Specchia (11,6); Sanarica (11,6); Zollino (11,6); Corigliano (11,7); Presicce
(11,7); Martignano (12); San Donato (12); Soleto (12,3); Galatina (12,5); Lecce
(12,5); Muro Leccese (12,5); Botrugno (12,7); Salve (13); Montesano (13,2).
QUI RESISTONO ANCORA
I PROGRAMMI DI FABBRICAZIONE, QUELLI VECCHI DI QUASI MEZZO SECOLO
Nel 1970, gli studenti degli Stati Uniti scendevano in
piazza per protestare contro la guerra in corso in Vietnam, Muammar Gheddafi
prendeva il potere in Libia e a Londra i Beatles si riunivano per l’ultima
volta per incidere il loro album d’addio,“Let it be”. Solo 19 anni dopo cadde
il Muro di Berlino e solo 22 anni dopo in Italia scoppiò lo scandalo
Tangentopoli. È passato tutto. È cambiato il mondo. Eppure, c’è qualcosa che
resta, ancora, qualcosa che sfida il tempo e le ruggini: i programmi di
fabbricazione (Pdf) di Bagnolo del Salento e Novoli. Risalgono a quell’anno e
sono i più datati ancora in vigore nel Leccese.
Sono 39 i Comuni che, in questa provincia, non hanno mai
provveduto ad aggiornare i propri strumenti urbanistici. Problemi di cassa,
certo; questione di sensibilità, ovvio, o di troppa burocrazia, comprensibile.
Ma se hanno lasciato che trascorressero 45 anni o poco meno senza dare una
svolta, ci dev’essere dell’altro. E quell’altro spesso coincide con gli
appetiti economici su quelle aree, interessi che un governo a maglie troppo
larghe del territorio agevola inevitabilmente. Lo conferma l’incrocio tra i dati
relativi al consumo di suolo e l’anagrafe degli enti ancora sprovvisti di nuovi
Pug o, per lo meno, di piani regolatori generali: la sregolatezza ha consentito
di divorare la risorsa primaria per eccellenza.
Sono rivieraschi undici tra quei comuni in cui gli uffici
tecnici ragionano ancora su disposizioni dettate quattro decenni fa e sono
quasi tutti nel Capo di Leuca: Alessano (Pdf approvato nel 1978); Castrignano
del Capo (1979); Castro (1978); Corsano (1977); Gagliano del Capo (1981);
Morciano di Leuca (1977); Patù (1976); Racale (1977); Salve (1977); Tiggiano
(1980) e Tricase (1977). Poi, c’è l’hinterland leccese, quei paesini cresciuti
a colpi di varianti ai vecchi piani di fabbricazione, per consentire nuove
lottizzazioni, insediamenti commerciali, aree industriali: è il caso di Surbo,
che ha uno strumento datato 6 luglio 1972, o di Lizzanello, che lo ha varato
ancora prima, nel 1971. Idem Arnesano (1980), Carmiano (1977), San Donato
(1978). Stessa sorte nelle storiche terre delle cave: oltre ad Alessano, Cursi
è fermo al 1974 e così anche Sanarica e Soleto; Collepasso al 1976; Corigliano
d’Otranto e Cutrofiano al 1977; Poggiardo al 1975; Matino al 1976. Nell’entroterra, anche altri fenomeni
economici hanno influenzato scelte politiche: emblematico è il caso della zona
industriale di Surano (Pdf del 1977), nata a ridosso della statale 275 e al
centro di un maxi processo per lottizzazione abusiva con 48 imputati. In
affanno, ci sono, ancora, i piccoli comuni dell’Otrantino: Palmariggi (1977),
Minervino (1973), Ortelle (1977) e anche qualcuno più grande, come Muro Leccese
(1975). Nella Grecìa, resta il nodo di Calimera, bloccata al 1978, mentre, più
a sud, si trovano le realtà che ruotano attorno al Parco dei Paduli: Supersano
(1977), Ruffano (1975), Montesano (1973) e Miggiano (1980), oltre a quella poco
distante di Spongano (1977). L’espansione urbana è stata magmatica in molte di
queste aree. L’esempio più eclatante rimane Aradeo, il cui programma di
fabbricazione è del 14 settembre 1979: due giorni prima, a Città del Messico,
Pietro Mennea stabiliva il record del mondo nei 200 metri.
POCHE RISORSE PER IL GOVERNO DEL TERRITORIO
Ci sono appena 80mila euro nel capitolo di spesa regionale
relativo ai contributi per l’aggiornamento degli strumenti urbanistici. È quasi
un decimo rispetto alle richieste avanzate a fine marzo, pari a 744.032 euro,
senza tener conto di tutte le altre, la gran parte, non recanti
quantificazione. Insomma, si va alla guerra con le scarpe rotte. Ammessi a
finanziamento, per la provincia di Lecce, sono solo cinque Comuni: Alessano,
Corigliano d’Otranto, Morciano, Salve e Supersano. Per ciascuno di loro, sono
stati stanziati 10mila euro. Eppure, già dal 1974, con la legge n.31,
integrata, da ultimo, nel 2009, è prevista la concessione di contributi in
conto capitale nella misura del 100 per cento per la redazione di Piani
regolatori generali prima e Piani urbanistici generali ora.
Bisogna, però, fare i conti con gli spiccioli in cassa. È il
motivo per cui la Regione ha deciso di adottare criteri stringenti: concentrare
l’intera somma disponibile sui Pug, escludendo del tutto le richieste relative
alla redazione di strumenti attuativi. «La preferenza – com’è spiegato nella
delibera di giunta regionale del 3 ottobre scorso – è stata attribuita a quei
Comuni che attualmente sono dotati della strumentazione urbanistica più
risalente nel tempo e che quindi, presumibilmente, presentano le maggiori
criticità nella gestione della pianificazione e nel corretto uso del
territorio». Avanti, dunque, solo coloro che hanno ancora vecchi Programmi di
fabbricazione (Pdf) o Piani regolatori generali (Prg) anteriori al 1980. Ecco
perché i fondi sono stati destinati solo a quei cinque Comuni leccesi, oltre a
due foggiani e uno della Bat. Alessano ha un Pdf risalente al 1978; Corigliano
d’Otranto al 1977, così come Morciano di Leuca, Salve e Supersano. Anche il
Comune di Patù, il cui strumento urbanistico è ancora più datato, del 1976,
aveva presentato domanda di contributi, ma lo ha fatto in ritardo e dunque è
stata dichiarata inammissibile.
Al palo rimarranno tutti gli altri: Sogliano Cavour aveva
chiesto 70mila euro per sostituire il proprio Prg del 1990 con un nuovo Pug;
idem San Cesario di Lecce, che ne aveva chiesti 50mila per rimetter mano al
piano regolatore del 1996, e Taurisano, che avrebbe voluto avere un
finanziamento da 30mila euro per attualizzare il Prg del 2005. Anche
Giurdignano aveva avanzato richiesta di 49mila euro per un Pug che sostituisse
il precedente piano del 2001. Bocciata, poi, la domanda di un contributo da
25mila euro che Campi Salentina avrebbe voluto impiegare per aggiornare il suo
Pug del 2010. Non quantificata, invece, l’istanza, pure silurata, di Salice
Salentino per adeguare il suo Prg del 1999 al Piano paesaggistico territoriale
regionale.
APPROVARE UN PUG?
UNA CORSA AD OSTACOLI
Una corsa ad ostacoli, tra soldi che non si trovano e
paletti stringenti. Questo significa per i Comuni approvare un Pug. E molti,
soprattutto i più minuti, ci rinunciano, sacrificando il territorio.
Mediamente, realtà di piccole dimensioni, come la gran parte di quelle ferme ai
piani di fabbricazione degli anni Settanta, spendono intorno ai 60mila euro per
la redazione dei nuovi strumenti urbanistici, affidando in toto le consulenze
all’esterno. Lavorando in economia e internalizzando una parte del percorso
tramite gli uffici tecnici comunali, invece, non si arriva a spendere meno di
35mila euro. In proporzione, le somme lievitano per i Comuni più grandi.
Per dare fiato agli enti, sono pochi, pochissimi, i fondi
regionali a disposizione. E, soprattutto, sono quasi sempre gli stessi, che
tornano indietro e vengono nuovamente distribuiti: l’assessorato alla Qualità
del Territorio, infatti, fissa il termine improrogabile di due anni per la presentazione
del documento programmatico preliminare (Dpp), che dev’essere adottato dal
Consiglio comunale. Superato il biennio, decade il diritto al finanziamento,
che materialmente – e questo è l’altro nodo – viene erogato solo dopo
l’approvazione definitiva del Pug. Una procedura voluta per incalzare i
municipi rischia di trasformarsi, così, in un deterrente. È la ragione per cui
in tanti non presentano neppure richiesta di contributi a Via Capruzzi.
Gli ostacoli non sono pochi: prima di arrivare al Dpp, è
necessario adottare l’atto di indirizzo, comprensivo del documento di scoping
della Valutazione di impatto strategico, oltre che del programma della
partecipazione civica alla formazione del Pug e della concertazione mediante le
conferenze di copianificazione. Deve contenere, inoltre, la dotazione
strumentale necessaria per elaborare e gestire il Piano, altro vulnus degli
uffici tecnici comunali: spesso mancano le tavole su cui lavorare e, ancora più
frequentemente, non sono digitalizzate. A monte di tutto questo percorso, poi,
c’è il problema più importante: trovare le somme proprie da iscrivere nel
bilancio e da dedicare solo a ciò.
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