al posto della logica integralista "native buone,
aliene cattive" [……….] guardare solo alle specie realmente invasive capaci
di alterare alcune funzioni dell'ecosistema, piuttosto che enfatizzare la
purezza naturale. È, quindi, logico chiedersi: quanto è veramente importante
piantare rigorosamente specie autoctone nelle aree urbane? Le specie native
possono fornire i servizi ecosistemici richiesti nelle specifiche situazioni
urbane, oppure ci sono specie esotiche capaci di performances migliori?
NATIVE O ESOTICHE? UN DIBATTITO AMPIO E SPESSO INUTILE
di Francesco Ferrini
Il dibattito sulla scelta fra specie esotiche e specie
native è sempre piuttosto acceso ma, spesso, risulta eccessivamente
semplificato (nativo “buono”, esotico “cattivo”) e, soprattutto, non sorretto
da evidenze scientifiche. Questo vale in particolare per il verde nelle aree
urbane. Il concetto di nativo stricto sensu in un ambiente alieno quale quello
delle nostre città appare inadeguato, per cui risulta opportuno cercare di
conciliare posizioni controverse e di avere un approccio oggettivo e razionale
anziché soggettivo, empatico ed emozionale come invece spesso accade.
Occorre precisare, innanzitutto, il significato di esotico.
Nel nostro senso comune percepiamo tale vocabolo associandolo a paesi tropicali
ed equatoriali quando, in realtà, dal punto vista etimologico la parola deriva
dal greco: exotikos, derivato a sua volta da exo, fuori, e va quindi riferita a
qualsiasi cosa che proviene o che è importata da altre regioni, non
necessariamente calde e/o equatoriali.
È indubbio che la diversità urbana richiede un approccio
differente poiché l’ambiente urbano è spesso molto eterogeneo. L’immagine
mentale legata all’aggettivo urbano ci porta a identificare tale l’ambiente
come quello dove la componente “costruito” è prevalente rispetto alle altre.
Tuttavia, è urbano il Parco Sempione a Milano, realizzato a fine 1800 su
terreni agricoli, ma posto in centro città, così come lo sono il Parco delle
Cascine a Firenze (originariamente come tenuta agricola di proprietà di Cosimo
I de' Medici) o Villa Borghese a Roma, ambienti nei quali le limitazioni alla
crescita delle piante sono poche e sicuramente di gran lunga inferiori a quelle
che si trovano nel viale posto a poche decine di metri da essi.
Molte città comprendono anche ecosistemi residui che derivano
da paesaggi naturali o paesaggi rurali tradizionali inglobati nel tessuto
urbano. Altri spazi verdi sono stati creati dall’uomo nel corso dei secoli,
alcuni emergono come nuovi ecosistemi in siti ex industriali (es. Ruhr, Parco
del Portello a Milano, Parc André-Citroën a Parigi, ecc.). L'adozione di una
sola strategia generale per tutti gli habitat urbani è quindi irragionevole,
indipendentemente che si parli di “usare
solo native” o di “le esotiche sono migliori”.
Ma allora le esotiche sono migliori o peggiori? La risposta
giusta dipende quasi sempre dal contesto. La Robinia pseudoacacia, specie
nordamericana altamente invasiva rappresenta un classico esempio. È noto che
tende a sostituire, soprattutto nelle scarpate stradali o nelle aree marginali
e in quelle urbane dismesse, le specie autoctone. Eppure la robinia è anche un
albero urbano di grande valore, ben adattato ai cambiamenti climatici, rustico,
con una bella fioritura e in grado di ospitare una buona biodiversità animale.
Altre specie invasive come l’eucalipto possono, invece, disturbare le relazioni
ecologiche tra le specie che si sono co-evolute nel corso dei millenni ed è il
motivo si dovrebbe evitare di piantare l'eucalipto soprattutto laddove esso ha
potenziale invasivo (es. Italia meridionale e zone costiere dell’Italia
centrale) e sostituirlo con piante autoctone come querce e altre specie
dell’areale Mediterraneo che sostengono più la biodiversità di ogni altro
paesaggio.
Riguardo alle aree urbane solo nel caso in cui gli impatti
negativi sulle specie native o sugli habitat naturali siano evidenti, le specie
esotiche (in questo caso invasive) devono essere gestite e limitate (tuttavia
la loro gestione è spesso altamente costosa e, come l'esperienza di molti
progetti di gestione mostra, spesso non efficace). Altrimenti, nei casi in cui
non ci siano specie native adatte a un particolare contesto e in cui è
accertata la non invasività di una specie, è possibile, talvolta addirittura
auspicabile, mettere a dimora specie esotiche. Esse sono accettate come parte
della continua evoluzione degli ecosistemi e tale differenziazione permette
agli ecosistemi stessi di evolvere e consente di risparmiare risorse.
Per chiarire alcuni dei concetti espressi è forse utile un
esempio. L’ontano nero ha una diffusione molto ampia in Europa, ma si trova
quasi solo sul bordo di fiumi e laghi e anche lungo i tratti urbani dei fiumi
nelle nostre città. Ma questo è un ambiente totalmente diverso da quello che
possiamo trovare a soli 100-200 metri di distanza dal fiume in una piazza
assolata della stessa città. In una situazione del genere è chiaro che l’ontano
non potrebbe sopravvivere, mentre alcune specie esotiche, come ad esempio la
Gleditsia triacanthos (Originaria del Nord America, introdotta in Europa nel
secolo XVII e in Italia nel 1712, a scopo ornamentale e per il consolidamento
dei terreni), risultano molto più adatte. La gleditsia (ovviamente utilizzando
le cultivar senza spine e anche sterili) ha un rapido ritmo di crescita e
tollera avverse condizioni ambientali, come l'inquinamento atmosferico, la
siccità estiva, i freddi invernali, gli spazi di crescita limitati e anche
l’accumulo di sale. Allora perché non utilizzarla?
Si creano così nuovi ecosistemi, si stabiliscono nuove
connessioni tra le specie autoctone ed esotiche. Come suddetto le specie
esotiche sono spesso prevalenti negli ecosistemi urbani nuovi e sono alla base
di una gamma di servizi ecosistemici. È quindi ragionevole integrare specie non
native nelle nuove infrastrutture verdi, soprattutto laddove le specie
autoctone non funzionano per creare un mix di specie native e non native. Le
nuove “aree naturali” dominate da specie non native sono state integrate con
successo in una serie di parchi europei con buoni risultati.
Per concludere sia le specie native che le esotiche sono
componenti inscindibili degli ecosistemi urbani. Esse si ritrovano in
combinazioni che si formano in risposta ai mutevoli ambienti urbani. Entrambi i
gruppi di specie forniscono i servizi ecosistemici dei quali abbiamo bisogno. È
vero, le specie non native possono essere una minaccia per la biodiversità
autoctona, ma questo è spesso strettamente dipendente dal contesto. È
necessario analizzare le diverse situazioni locali prima di agire essendo
sempre pronti a migliorare la biodiversità
urbana, bilanciando i rischi e le opportunità delle singole specie nei singoli
casi, sia per le specie native, sia per le esotiche. Differenziazione invece di
semplificazione è la strategia più efficace per migliorare la biodiversità
urbana in un mondo che cambia.
Foto: Gleditsia triacanthos, foglie in autunno
Da: ABOUTPLANTS, 2/05/2016
PIANTE NATIVE ED ESOTICHE NELL'EVOLUZIONE DEL PAESAGGIO
URBANO
di Francesco Ferrini
Sappiamo tutti che i nostri paesaggi urbani sono stati
costruiti e modellati per centinaia se non migliaia di anni (pensiamo a Roma)
con la formazione di un mix di specie autoctone e esotiche. Le specie che ora
abbiamo nelle nostre città sono il risultato di scelte fatte da moltissime
persone, per lo più indipendenti l'una dall'altra e sulla base delle proprie
preferenze. Alcune aree urbane sono state ben programmate e successivamente ben
gestite come, ad esempio, alcuni dei nostri parchi cittadini, alcuni giardini e
anche alcune alberature stradali, mentre altri spazi, soprattutto quelli meno
centrali, sono stati colonizzati da specie opportuniste ed esotiche.
Con le modifiche susseguenti alla trasformazione dei
paesaggi agrari o pseudonaturali (nel nostro paese, antropizzato da diverse
migliaia di anni è azzardato parlare di paesaggi naturali visto che l’uomo ha
praticamente modificato e modellato il paesaggio fin dalla preistoria) gli
habitat indigeni sono stati distrutti, modificati e/o frammentati, e le specie
che non sono native di quelle aree si sono affermate per caso o per mano
dell’uomo.
Che ci piaccia o no, ci sono molte specie non native che
vivono nelle nostre città; si pensi, fra quelle piantate dall’uomo al cipresso,
al pino, specie naturalizzate, ma non prettamente native o al platano che è
l’ibrido naturale Platanus x acerifolia, ottenuto dall’incrocio fra P.
orientalis, nativo delle nostre zone sud-orientali e il P. occidentalis di
origine americana), mentre fra quelle diffusesi dopo la loro introduzione
possiamo ancora ricordare la Robinia pseudoacacia o l’ecologicamente devastante
Ailanthus altissima (FOTO). Hanno approfittato delle possibilità fornite da
aree “disturbate” e da terreni abbandonati e che esse sono “ecologicamente”
adatte a occupare. Riguardo a questo ci troviamo spesso stupiti dalla capacità
di alcune specie di occupare habitat e ambienti marginali, come le crepe in
aree pavimentate, terreni poveri con elevata salinità o spazi con scarso
accesso ad acqua e sostanze nutritive (si pensi anche al naturalizzato fico).
Mentre è indubbio che dovremmo cercare, ove possibile, di
stabilire e mantenere aree, soprattutto extraurbane, con specie esclusivamente
autoctone, non può essere realistico pensare che abbiamo il tempo, il denaro e
le risorse per gestire le nostre aree urbane esistenti e la natura in città con
una logica “purista” e con una prospettiva “solo specie native”. Perciò, come
detto nella prima parte di questo articolo
(http://www.georgofili.info/detail.aspx?id=2739), nei nuovi impianti dovremmo
dare la preferenza a quelle specie in grado di garantire performance di
crescita e, conseguente, benefici adeguati, siano esse native o non native.
Un focus che limiti i nuovi impianti esclusivamente alle
specie native nelle aree urbane potrebbe creare più problemi di quanti ne possa
risolvere. Che cosa significa infatti "nativo" in un paesaggio
antropico fatto di strutture costruite, dove le situazioni micro e
mesoclimatiche sono talvolta estreme in termini di temperatura, scarsità di
risorse, sostanze inquinanti, ecc.?
Oltretutto la natura è dinamica, in continua evoluzione per
adattarsi ai cambiamenti. Nelle sue varie forme e funzioni (che si tratti di
piante o animali), essa è la contabilizzazione dei cambiamenti indotti
dall'uomo, e si riorganizza per formare nuovi ecosistemi. Gli spazi urbani sono
dunque nuovi ecosistemi costituiti da un mix di piante coltivate, esotiche
spontanee, indigene spontanee, erbacce invasive, ibridi e altro ancora.
Indipendentemente dalla loro origine, la maggior parte di queste sono “gradite
intrusioni” nelle nostre giungle urbane di cemento poiché assolvono numerose
funzioni ecosistemiche nelle aree densamente costruite e popolate.
Per cui al posto della logica integralista "native
buone, aliene cattive" gli ambientalisti dovrebbero solo guardare alle
specie realmente invasive capaci di alterare alcune funzioni dell'ecosistema,
piuttosto che enfatizzare la purezza naturale. È, quindi, logico chiedersi:
quanto è veramente importante piantare rigorosamente specie autoctone nelle
aree urbane? Le specie native possono fornire i servizi ecosistemici richiesti
nelle specifiche situazioni urbane, oppure ci sono specie esotiche capaci di
performances migliori?
Una volta che si è risposto a queste domande in modo
pragmatico e scientificamente corretto, si possono fare delle scelte giuste.
Da: ABOUTPLANTS, 11/05/2016