venerdì 10 febbraio 2012

Archeologia industriale del Salento

La coltivazione dell'uva e la produzione di vino nelle provincie pugliesi è ampiamente documentata fin dal IV secolo a.C. (Leonida di Taranto, Orazio, Plinio il Vecchio, Marziale, Cassio Dione)

Le fonti artistiche nell'archeologia e le rappresentazioni mitologiche della ceramica appula: il vino nelle feste dionisiache e nei banchetti rituali. Le relazioni degli economisti e dei viaggiatori dal `700 al `900 sugli aspetti naturalistici e culturali del paesaggio naturalistico pugliese.

Archeologia industriale del Salento




Dai misteri antichi ai recenti sistemi di lavorazione dei prodotti della terra nei " palmenti " e nei frantoi: tutta la civiltà salentina passa attraverso l'acqua e la terra, e la storia del lavoro dell'uomo, in quest'area, è la storia della lotta con la campagna riarsa e delle colture della vite e dell'olivo, piante aride e stupende.

Non si può pretendere, per quanta fantasia si metta, che possa trattarsi del più remoto sistema irriguo del Salento. Ma il mistero rimane, pressoché intatto, e la leggenda non poteva che riaffiorarvi, con l'alone popolare che riverbera fino ai nostri giorni, con le suggestioni che affascinano anche gli uomini della nostra generazione, nell'età della ragione assoluta.

Parliamo di sessantotto pozzi di San Pantaleo, le sessantotto bocche che si aprono nel territorio di Martignano Salentino. La leggenda ricorrente vuole che il Santo, protettore del paese, perseguitato dai nemici, si fosse nascosto in quei pozzi, riemergendo dai diversi boccali. Questo straordinario sistema idraulico (unico nel mondo, con bocche e pance indipendenti) è a sud-ovest del centro abitato, su un'area di circa mille metri quadrati. Ciascun pozzo ha una profondità di tre metri. All'origine, dovevano essere molti di più, forse un centinaio. Una parte fu distrutta per l'apertura di una strada d'accesso al paese. La fantasia popolare ritiene che i pozzi non siano misurabili (come le colonne della cripta della Cattedrale di Otranto), e che la loro conta dia risultati inevitabilmente discordi. Ha scritto Raffaele Congedo che il metodo costruttivo dei pozzi è singolare: posti a distanza ravvicinatissima fra di loro, hanno forma di imbuto capovolto, completamente foderati di pietrame informe calcareo permeabile, cementato con terra bolosa, attraverso il quale filtrano abbondanti acque freatiche, attinte dalla popolazione, e celebri per salubrità, purezza e bontà. Nella località - sostiene Congedo - si svolge ogni anno un rito religioso, durante la festa del protettore. L'insolito paesaggio suscita interesse e attrae. L'acqua: l'oro del Salento di tutti i tempi. Tutta la civiltà della penisola salentina passa attraverso l'acqua e la terra, e la storia del lavoro dell'uomo, qui, è la storia della lotta con la campagna riarsa e del clima sitibondo, del tufo bianco e delle colture della vite e dell'olivo, piante aride e stupende. E in quest'area martignanese l'acqua venne fuori da una miniera di cento imbocchi, prezioso elemento di vita per l'uomo e per la terra, per le braccia dell'uomo e per l'industria primaria che quella terra consentiva con i suoi prodotti.

Anche i monumenti megalitici per eccellenza, i dolmen e i menhir e le stesse specchie possono direi qualcosa di interessante sull'acqua nascosta nel ventre carsico del Salento, e ricercata accanitamente, fin dall'epoca preistorica, dai nostri progenitori.

Scrive infatti il Bourdoux (in " Luce nelle tenebre ") , a proposito della ricerca idrica con l'aiuto della radiestesia, che un celebre rabdomante ha potuto accertare, in seguito a ricerche effettuate in Bretagna, che tra le varie ipotesi che avvolgono menhir e dolmen si può validamente includere quella che li ritiene stazioni di riferimento rivelanti la presenza di acqua nel sottosuolo. Grande fu infatti la sorpresa del ricercatore, prosegue Bourdoux, nel costatare che, in corrispondenza di quei monumenti megalitici, la bacchetta del rabdomante o il pendolo radiestesico segnalavano sempre l'acqua, e per di più, incroci di falde acquifere. I nostri progenitori avevano dunque scoperto il modo di rilevare l'andamento delle acque sotterranee. In particolare, per quel che riguarda gli spigoli più lisci delle pietrefitte salentine, l'ingegner Pietro Zampa (nel libro " Le meraviglie di una scienza nuova ") sostiene che siano sempre rivolti "verso il vertice dell'angolo costituito dall'incrocio di due correnti di acque sotterranee ".

Dai misteri alla realtà paleo-economica del Salento. Sappiamo come i Messapi macinavano il grano: in una piccola pietra incavata al centro, con una palla che aderiva all'incavo: si schiacciava a forza di muscoli il grano, con il quale si faceva il pane. Si usarono gli stessi sistemi, probabilmente, per la spremitura delle olive, mentre quella dell'uva ha conservato a lungo le caratteristiche della pigiatura. In "pile " di pietra, poi in tinozze di legno, infine nei grandi tini di rovere. L'uso del torchio rappresentò la rivoluzione copernicana nell'industria di trasformazione dei prodotti agricoli del Salento. E certamente ai lasci muscolari dell'uomo furono in buona parte sostituiti quelli degli animali da trazione. Fu una grande scoperta, che come tutte le grandi scoperte avviò attività complementari. Abbondavano un giorno, prima che si abbattessero forze distruttrici, le querce, nella penisola salentina. E dai porti di Otranto e Gallipoli partivano per tutte le rotte navi cariche di botti, costruite da sapienti mani artigiane.

Botti vuote, e botti piene: di olio e di vino. Agricoltura, industria di trasformazione e commercio avevano trovato un equilibrio pressoché perfetto. E fu, quella, l'epoca d'oro della campagna di Terra d'Otranto. I collegamenti marittimi giungevano fino alla lontana Marsiglia, e, dall'altra parte, fino a Venezia: da questi scali, botti e prodotti risalivano le vie dell'Europa, ambasciatori del lavoro e della civiltà del Salento. Fu un'età anche lunga. Poi, la decadenza. Gli Angioini avevano già frantumato le terre, e i latifondi finirono in mani straniere in tutto il Sud. Gli Aragonesi avevano spolpato anche le ossa del Sud: un'agricoltura di rapina inaridì fonti di reddito e qualità di produzioni. La campagna divenne simbolo per eccellenza di fame e di schiavitù fisica ed economica. Decaddero i commerci, si perdettero gli sbocchi di mercato crebbe l'importanza strategica dei porti di Brindisi e di Taranto, e di conseguenza furono offuscati gli scali di Otranto e di Gallipoli. Il Salento rientrò nei secoli più bui della sua storia, in un tunnel dal quale sarebbe rivenuto fuori solo molto più tardi, in questa seconda metà del nostro secolo. Con un'industria manifatturiera di piccole dimensioni, sparsa e quasi dispersa. E con le vestigia della sua industria primaria, archeologia vivente (gli aratri di legno per il tiro dei cavalli, i traini per il trasporto, i torchi superstiti, le grandi botti rastremate verso il basso); con terra e agricoltura sempre dominanti il paesaggio economico e sociale. E con niente, neanche un museo minimo, che raccolga le testimonianze di questa cronistoria: come se tra gli strumenti del lavoro dei secoli scorsi e le macchine automatiche contemporanee non ci fosse alcuna interrelazione; come se le memorie del passato avessero generato un iniziale rapporto di odio-amore, e un successivo momento di rimozione. Ma di quel passato, della nostra storia, non ci possiamo liberare. L'abbiamo, com'è giusto, nella pelle.



di Eloisa Malagoli

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