mercoledì 31 marzo 2010

Quanti “euro in più” hanno guadagnato i Produttori di Olio del Salento leccese attraverso l’azione dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali?


Quanti “euro in più” hanno guadagnato i Produttori di Olio del Salento leccese attraverso l’azione dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali?
di Antonio Bruno*

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Un giorno memorabile per gli oliveti del Salento leccese fu quel 1° Novembre 2002, quando l’Unione Europea ha riconosciuto il fondamentale ruolo delle associazioni dei produttori olivicoli e delle loro Unioni per la crescita del settore olivicolo. Nella presentazione il Dott. De Pascalis è andato oltre perché ha paventato il rischio della scomparsa del settore agricolo nel Salento leccese per l’insostenibilità dei costi di produzione.
I lavori sono continuati con l’intervento del Dr. All’alto Dirigente Dr Versienti è seguita la relazione della Dott.sa Concetta Lo Conte, Direttore dell’Area Autorizzazione Pagamenti dell’Organismo pagatore AGEA che si interessa del settore. L’AGEA, struttura a cui appartiene la Dott.sa Lo Conte, è stata vicina al Mondo degli olivicoltori del Salento leccese garantendo pagamenti puntuali.
La Dott.sa Lo Conte è costretta a prendere atto che non c’è la capacità da parte dell’Olivicoltura del Salento leccese di penetrazione nei mercati esteri.
L’agroalimentare italiano è leader export nel settore lattiero caseario, degli insaccati e del Vino in Europa, Usa, Giappone e Australia ma l’olio non c’è, l’olio rimane nel Salento leccese.
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Un giorno memorabile per gli oliveti del Salento leccese fu quel 1° Novembre 2002, quando l’Unione Europea ha riconosciuto il fondamentale ruolo delle associazioni dei produttori olivicoli e delle loro Unioni per la crescita del settore olivicolo.
Non fu solo un’ orientamento perché i Regolamenti CE 1334/2002, 1331/04, 2080/05 hanno permesso alle Associazioni dei Produttori olivicolo 7 anni di “vacche grasse” grazie alla realizzazione di programmi di attività di miglioramento nel settore oleicolo per le campagne che dal 2002 al 2009.
Per il triennio operativo 2010-2013, la Comunità Europea ha messo a disposizione delle Organizzazioni di Produttori un programma di attività emanato tramite la pubblicazione del Regolamento CE 867/08.
Il 31 marzo 2010 nella bella sala conferenze del Frantoio Montevergine di Otranto che si trova prendendo la strada che da Otranto porta a Martano dopo il passaggio a livello a destra l’Organizzazione di Produttori Olivicoli della Provincia di Lecce APROL ha organizzato un Workshop sul ruolo che l’organizzazione svolge nella qualità e nella certificazione della Filiera Olivicola Salentina.
A presiedere l’incontro il Vice Presidente Dott. Mario De Pascalis per l’assenza del Presidente Francesco Guido costretto a casa da una indisposizione.
Hanno preso parte ai lavori del Workshop il Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, l’AGE CONTROL e l’AGEA.
Nella presentazione il Dott. De Pascali ha partecipato a tutti il successo del Progetto redatto dall’Aprol scaturito dal Regolamento CE 867/08 ma, nello steso tempo, amaramente, ha dovuto ammettere la difficoltà di sostenere il principio che bisogna produrre qualità quando il mercato dell’olio va male. L’allarme lanciato dal Dott. De Pascalis è andato oltre perché ha paventato il rischio della scomparsa del settore agricolo nel Salento leccese per l’insostenibilità dei costi di produzione.
Il Vice Presidente alla schiera dei colleghi Dottori Agronomi e Dottori Forestali che prestano la loro competenza all’Organizzazione dei produttori Olivicoli della Provincia di Lecce, ha dato atto che si è fatto un buon lavoro di consulenza, ha ricordato ai colleghi che devono essere vicini alle aziende agricole e ai frantoi oleari, che li devono quasi accompagnare sulla strada del successo produttivo. Ha fatto un plauso anche alla intera struttura dell’APROL che con l’attività svolta con successo ha posto le basi per continuare per le prossime due annualità un lavoro che oltre al faticoso percorso verso la qualità dell’olio sia anche un valido supporto per la vendita.
I lavori sono continuati con l’intervento del Dr. Claudio Versienti Direttore Generale di Agecontrol S.p.A. Il Dr. Claudio Versienti è una grossissima personalità del nostro Paese che nel 1985 ha vissuto i periodi più bui della Repubblica impegnandosi nella lotta al terrorismo prima e la criminalità organizzata poi che in forza della suo altissimo livello di professionalità ha ricordato a tutti i presenti lo sforzo che si fa per aiutare il Mondo Olivicolo e quello del Salento leccese in particolare. L’alto Dirigente Dr Versienti ha proseguito affermando che il percorso della qualità è ineludibile e che deve passare dalla tracciabilità perché l’Agecontrol da lui diretta dal 1 Agosto 2007 rappresenta la garanzia, il supporto e la tutela dei cittadini attraverso il controllo della produzione.
E’ importantissimo che l’olio extra vergine sia tracciato e questo percorso che parte dalla raccolta dell’oliva dall’albero del Salento leccese proseguendo sino quando diviene olio che arriva sulla tavola delle donne e degli uomini, deve essere chiaro e trasparente per tutti. Quando andiamo a comprare una bottiglia d’olio abbiamo diritto di sapere da dove viene.
L’alto Dirigente Dr Versienti conclude il suo intervento affermando che affinché la qualità sia apprezzata dai cittadini c’è la necessità e l’urgenza che i cittadini stessi siano messi in condizione di sapere cos’è l’olio d’oliva perché è solo questo che mette tutti in condizioni di operare una scelta tra gli oli proposti dal mercato.
All’alto Dirigente Dr Versienti è seguita la relazione della Dott.sa Concetta Lo Conte, Direttore dell’Area Autorizzazione Pagamenti dell’Organismo pagatore AGEA che si interessa del settore. La Dott.sa Concetta Lo Conte conosce gli olivicoltori del Salento leccese dal 1992. Proprio questa lunghissima frequentazione con le nostre terre la mette nelle condizioni di affermare che da allora si sta facendo un salto di qualità. L’AGEA, struttura a cui appartiene la Dott.sa Lo Conte, è stata vicina al Mondo degli olivicoltori del Salento leccese garantendo pagamenti puntuali.
Il salto nel futuro però annuncia meno aiuti e guardando a un’analisi dell’economia italiana i settori dell’agro alimentare hanno tutti il segno positivo + all’infuori del settore dell’olio e anche questo dato deve far riflettere.
La Dott.sa Lo Conte è costretta a prendere atto che non c’è la capacità da parte dell’Olivicoltura del Salento leccese di penetrazione nei mercati esteri.
L’agroalimentare italiano è leader export nel settore lattiero caseario, degli insaccati e del Vino in Europa, Usa, Giappone e Australia ma l’olio non c’è, l’olio rimane nel Salento leccese.
La Dott.sa Lo Conte sostiene che c’è un problema di comunicazione dell’olio e all’obiezione che qualcuno può fare ricordando che si è fatta una campagna d’informazione sugli aspetti salutistici c’è da prendere atto che non è bastata visto che l’olio così come non si vendeva prima della campagna d’informazione si continua a non vendere anche dopo questa campagna.
Per dare una cura c’è bisogno di sapere qual è la malattia e per la Dott.sa Lo Conte la frammentazione dell’offerta e gli alti costi di produzione sono i “gradi mali” dell’olio del Salento leccese. Sono le Organizzazioni dei Produttori Olivicoli le protagoniste che devono fare in modo di far andare UNITI i produttori ad affrontare i mercati esteri. All’estero si va insieme perché da soli non si riesce ad affrontare i costi elevati e perché servono le piattaforme logistiche che devono mettere in campo le analisi della filiera.
Il prezzo dell’olio non è remunerativo e la confusione è già nel modo in cui si chiama il prodotto. L’olio d’oliva è una frase che all’estero non è conosciuta e meno che mai è conosciuta la frase Olio d’oliva extra vergine. Lo sanno tutti e nessuno fa nulla.
Il primo passo è far sapere AL MONDO cosa significa OLIO D’OLIVA, con chiarezza, senza ridondanza, senza contorsionismi che tagliano il capello in due.
E poi l’uomo è un animale mimetico, grazie all’imitazione ha conquistato il pianeta quindi bisogna imitare chi ha fatto bene e ha ottenuto risultati ovvero le Organizzazioni dei Produttori Olivicoli della Provincia di Lecce devono imitare le organizzazioni del Vino della Provincia di Lecce.
Si tocca il tasto dolente del fallimento del REGOLAMENTO (CEE) N. 1360/78 DEL CONSIGLIO del 19 giugno 1978 che doveva servire a concentrare l’offerta dell’olio ma non bisogna fallire, pena la morte del settore, il traguardo di stare tutti insieme, sia che si voglia vendere a chilometri zero sia che si voglia vendere alla grande distribuzione e soprattutto ci sono da stringere patti, fare alleanze con l’industria di trasformazione, con i frantoi.
Tutti sono consapevoli che in questi anni c’è stato un grosso sostegno della Pubblica Amministrazione agli olivicoltori del Salento leccese ma siamo altrettanto consapevoli che i titoli continueranno a diminuire di valore e quindi gli aiuti saranno sempre di meno.
I soldi arrivano al settore comunque solo che devono essere utilizzati per migliorare la qualità del prodotto e per promuovere il prodotto.
Io adesso devo riferire la domanda fatta dalla Dott.sa Lo Conte che deve far riflettere noi tutti Dottori Agronomi e Dottori Forestali impegnati nel settore con le Organizzazioni dei produttori Olivicoli: “Il lavoro dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali nel settore olivicolo del Salento leccese quanto valore ha aggiunto all’olio d’oliva del Salento leccese?
E’ la domanda su cui noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali della Provincia di Lecce ci giochiamo la credibilità. E’ la domanda delle domande la cui risposta decreta la nostra funzione, il nostro ruolo all’interno del settore.
Il prezzo dell’olio ha raggiunto livelli da mettere in discussione persino la raccolta del prodotto, abbiamo il dovere di dire la nostra per fare in modo che questo settore riprenda a vendere. Il nostro ruolo è tutto interno alle aziende e alle industrie di trasformazione, e siccome ci siamo e ci siamo da molti anni, dobbiamo metterci in discussione e fare sentire la nostra voce.
Io sono rimasto assolutamente senza parole quando dopo questa domanda nessun collega si è alzato per dare una risposta. Mi sarei aspettato uno o più colleghi che avessero preso la parola con semplicità e con chiarezza, per dire alla Dott.sa Lo Conte quale sia il valore aggiunto determinato dal Medico della terra nel settore olivicolo del Salento leccese perché noi non abbiamo peli sulla lingua.
Ha preso la parola il collega Pantaleo Greco e signorilmente ha esposto le azioni fatte dai colleghi Dottori Agronomi e Dottori Forestali ma non ha risposto alla semplice domanda “quanti euro in più” hanno guadagnato i Produttori di Olio del Salento leccese con l’azione dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali.
Io non ho dubbi che ci sia stato un valore aggiunto esclusivamente determinato dall’azione dei colleghi, ma io sono un collega che sa con quanto sacrificio anche accontentandosi economicamente per il bene del settore, i colleghi portano con fatica il fardello di dare un volto al settore olivicolo.
Io mi metto nei panni dei produttori che hanno ascoltato la Dott.sa Lo Conte e che si aspettavano una risposta. Noi abbiamo il dovere e il DIRITTO di dare una risposta, perché gli unici in grado di risollevare le sorti del settore primario che hanno la competenza, la passione e la forza per farlo siamo noi Dottori Agronomie Dottori Forestali. Mai e soprattutto nulla e nessuno deve mettere in discussione la nostra credibilità! Ma se per assurdo alla domanda della Dott.sa Lo Conte seguisse la risposta che non c’è stato nessun valore aggiunto, ebbene anche in quel caso, la dignità e l’etica professionale ci dovrebbero portare a trarre le necessarie conseguenze non gravando con altri costi “inutili” i già tanti costi insostenibili dei produttori e non spendendo inutilmente le risorse messe a disposizione dalla collettività.
(Continua)
*Dottore Agronomo

martedì 30 marzo 2010

Medici della terra? No, Grazie! Possibile che quest’agricoltura malata non si rivolga al dottore?


Medici della terra? No, Grazie! Possibile che quest’agricoltura malata non si rivolga al dottore?
di Antonio Bruno
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Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) della pianta che vogliamo innestare sul selvatico. Sul selvatico asportiamo una parte di corteccia lasciando un lembo. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo e rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, vengono dalla potatura e perciò si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi che sono necessari per l’innesto a zufolo non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
I testardi viticultori del 1918 impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagati solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno.
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Quando la prima guerra mondiale volge al termine, a Giugno del 1918 a Lecce c’è una discussione che appassiona i viticultori: lo zufolo. E che c’entra lo zufolo che è uno strumento musicale a fiato tradizionale con la coltivazione della vite?
Siccome lo zufolo è formato da una canna corta o da un piccolo cilindro incavato, quasi sempre di legno di bosso ed ha un taglio traverso per l'imboccatura e alcuni fori laterali assomiglia a un modo per innestare la vite che in quell’anno un viticultore per la precisione il Sig. Avv. Giulio Miglietta di Galatina in un articolo pubblicato si un numero precedente de “L’Agricoltura Salentina” aveva decantato come la soluzione di ogni problema e soprattutto la possibilità di fare praticare l’innesto anche da un bambino. Tutto quest’entusiasmo è derivato dalla possibilità di non procedere all’innesto a spacco che richiede invece personale specializzato e maggiore tempo di esecuzione.
Ma perché era tanto importante l’innesto per la vite?
La coltivazione della vite è attestata già intorno al 2000 a.C. ed è parte integrante della tradizione e dell’economia del Salento leccese, connotandone fortemente il paesaggio anche se i vigneti sono stati oggetto della politica Mongola alla Attila che negli anni ha incentivato con premi e pacchi regalo lo svellimento dei meravigliosi vigneti ad alberello del Salento leccese. La costituzione di questi vigneti è il frutto di una prima importante trasformazione colturale che ebbe inizio intorno al 1870 e si svolse con eccezionale intensità sino ai primi del ‘900. L’area vitata in Puglia da 90 ettari passò a circa 300 mila, modificandosi in modo rivoluzionario: in poche altre aree del mondo si è assistito, per aree di ampia estensione come questa, a mutamenti così radicali in tempi relativamente brevi. Questa trasformazione non fu il risultato di una pianificazione programmata da un organismo centrale, ma il prodotto di piccoli proprietari terrieri e contadini che resero fecondo un terreno pietroso. La motivazione che spinse i piccoli contadini del Salento leccese a impiantare vigneti fu la consistente domanda di vino proveniente dalla Francia, in conseguenza della distruzione dei suoi vigneti a causa della fillossera, e quindi conseguentemente dagli alti prezzi raggiunti in quegli anni dalle uve e dal vino. La fillossera si presentò anche in Puglia nel 1919: la produzione scese in 5 anni da dodici (12) milioni di ettolitri ad appena due (2) milioni ed occorsero decenni ai viticoltori per ripristinare l’antico patrimonio viticolo. Questo nonostante i medici della Terra di allora come il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina avessero iniziato dal 1904, quindi da 15 anni prima che la fillossera comparisse in Puglia, a convincere i viticultori a innestare le loro viti su vitigno americano. Ma si sa, se gli agricoltori non battono la testa per farsi male, non hanno nessuna intenzione di ascoltare i Dottori Agronomi e i Dottori Forestali a meno che non ci siano costretti o non abbiano più altre alternative per sfuggire ai Medici della terra.
L’innesto a zufolo si pratica sia sulla vite che sul fico, l’olivo e il noce. Si interviene nella stagione estiva tra maggio e giugno stando attenti che le piante quando si innesta siano “in succhio”. Si asporta un cilindro di corteccia dal ramo con una gemma (occhio) da una pianta madre di vite che sarà innestata sul selvatico. Poi dobbiamo intervenire sul selvatico dove asportiamo sul tralcio, che ospiterà la gemma della varietà che vogliamo propagare, una parte di corteccia lasciando un lembo. Infine poggiamo l’anello di corteccia con la gemma (occhio) sul selvatico e lo leghiamo. Facile vero?
Era così facile che l’Avv. Miglietta ne fece un articolo per spingere tutti gli agricoltori del Salento leccese a praticare questo semplice giochetto che portava ad avere la pianta innestata con un successo del 96 – 98%.
Il Prof. Ceccarelli Direttore dei Consorzi antifillosserici di Lecce e Galatina frena l’entusiasmo dell’Avv. Miglietta ricordando che la scelta del periodo più opportuno per l’innesto è una scelta che va operata da un esperto, così come rappresenta un limite cercare materiale da innestare da marze in vegetazione e infine il Prof. Ceccarelli ritiene che la grande percentuale di successo è tutta da ascriversi a questa capacità che deriva da conoscenze che sono del tecnico e che non possono essere delegate a un bambino o a un giovane senza nessuna esperienza.
Il Prof Ceccarelli rincara la dose ricordando che i tralci che vengono usati per lo spacco inglese, che si fa in autunno, e che dovrebbe vedersi preferito l’innesto a zufolo, che come abbiamo visto si fa in maggio giugno, vengono dalla potatura e perciò ve ne è talmente in abbondanza che si ha solo l’imbarazzo della scelta, invece i tralci verdi, che sono necessari per l’innesto a zufolo, e che vengono presi da piante in piena vegetazione, non dovrebbero essere tolti dalla pianta perché sono la vegetazione che dovrebbe dare luogo alla produzione dei grappoli.
E’ come se vi vedessi! Si! Dico a te che leggi, che hai gli occhi puntati sulla linea contorta che forma questi simboli che sono le lettere dell’alfabeto che formano le parole che risuonano nella tua mente! Va bene, ho capito, mi vuoi ricordare che potrebbero essere utilizzati sia i tralci della cimatura che quelli della sfemminellatura, invece il Prof. Ceccarelli ricorda a me e a te che leggi, che in provincia di Lecce c’era l’alberello per produrre l’uva, che era il sistema maggiormente utilizzato nel 1918. Questo perché raramente un alberello viene cimato e sfemminellato . E qui il Prof. Ceccarelli si produce in una domanda retorica al malcapitato Avv. Miglietta. In pratica il Prof. Ceccarelli ricorda all’Avv. Miglietta che applicando l’innesto a zufolo per ottenere un vigneto se ne dovrebbe disfare un altro.
Ma il Prof. Ceccarelli fa di più: si mette nei panni di un viticultore neofita che confuso dalle tesi del Miglietta e da quelle del prof. Ceccarelli si chiede cosa si deve fare, quale via si dovrebbe percorrere. E qui c’è la tesi del prof. Ceccarelli di utilizzare delle barbatelle già innestate! Insomma quello che si fa oggi a Otranto. L’utilizzo delle barbatelle innestate era stato suggerito nel 1918 dal Prof. Ceccarelli. La convinzione del Prof. Ceccarelli deriva da una esperienza iniziata nel 1904 con i Consorzi Antifillosserici poichè il professore ha effettuato una comparazione tra le barbatelle innestate sul posto con quelle già innestate e ha preso atto che queste ultime prevalgono in successi ed ecco perché sostiene che i campi sperimentali dovrebbero essere meta di pellegrinaggi da parte dei testardi viticultori del 1918 che impipandosi dei risultati sperimentali andavano dritti per la loro strada, un po’ come gli agricoltori di oggi che bastano a se stessi senza richiedere la direzione del Medico della terra ovvero di noi Dottori Agronomi o Forestali che potremmo essere pagato solo in caso di successo ed incremento della produzione oppure in caso di mancato danno. La cosa finì come sappiamo con l’arrivo della fillossera in Salento e con la distruzione dei vigneti del 1919 nonostante da quindici anni il Prof. Ceccarelli avesse tentato di propagare il materiale innestato.
Ora come allora l’azione che noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali mettiamo in atto è senza seguito, ci venite a trovare solo quando davvero non ne potete fare a meno, come quando dovete richiedere un contributo e quindi serve il Dottore per scrivere e firmare le carte che si devono presentare per avere i soldi dalla mano pubblica, e al Dottore si chiede come fare ad avere più soldi possibili dalla casse della regione. Tutto condito da questo lamento continuo e commovente del coltivatore che non ce la fa, che non può perché quest’anno c’è stata la “moria delle vacche” come nella famosa scena di Totò Peppino e la mala femmina punto, punto e virgola e due punti, ma si abbonda, non facciamo vedere che siamo tirati.
Una difesa derivata da anni e anni di rapine ad opera di invasori che ci hanno fatto perdere il senso del sociale perché ciò che veniva preso a noi sotto forma di tasse e balzelli vari, era poi dato ai popoli che ci avevano invaso. Al tempo dell’Impero Romano c’era immagine di decadenza imperiale, il conflitto permanente tra Senato (Roma) ed esercito. Ed eccoci alle fortissime tassazioni sulla piccola proprietà agricola (il latifondo era dei senatori, che non pagavano tasse). Gli esattori erano così odiati dovevano farsi proteggere dalle truppe.
Le tribù barbariche erano formate da circa 20mila combattenti: riuscirono a invadere l'Italia, la Francia e la Spagna e a dominare una popolazione di circa 10 milioni di individui.
L'Impero Romano in Occidente cadde soltanto perché i suoi sudditi non vollero combattere per difenderlo perché non volevano difendere i vampiri che succhiavano le risorse per vivere come Dei.
E il Salento leccese? E la nostra agricoltura che è l’ambiente che è Paesaggio rurale? Non rischia forse anche lei di cadere nelle mani di invasori perché nessuno più vuole combattere per difenderla? Dove sono i Professori Ceccarelli che disputano con gli Avvocati Miglietta perché hanno due idee diverse, ma tutte e due tese a concorrere per far crescere il territorio e la sua ricchezza Dove sono gli uomini e le donne che immaginano la nostra terra, che la sognano, che la desiderano migliore perché hanno un idea, un anelito? Forse sono quelli del primo insediamento i nostri progettisti del Paesaggio rurale che deve resistere agli invasori, ai barbari pieni di celle fotovoltaiche? Sono loro che devono respingere l’abbracio mortale delle lunghe braccia delle pale eoliche o salvarsi dalle fauci ardenti in cui bruciare le biomasse per l’energia che non sappiamo a chi serve e soprattutto a cosa gli serve?
E vero ciò che sostiene l’Assessore Dario Strefano che con l’insediamento di giovani agricoltori e il Pacchetto multi misura giovani la Puglia dimostra di voler investire con idee e progettualità sul rinnovamento generazionale? E’ vero che in questo modo il Salento leccese contribuisce alla correzione di uno degli elementi di criticità del comparto? Possono 1884 domande presentate da giovani, con età compresa tra i 18 e i 40 anni, tra cui 392 donne (283 provengono dalla provincia leccese, 151 da Taranto, 113 domande da Brindisi, 283 da Foggia e 1055 dal territorio Bari/Bat) essere quelli che fermano quest’atteggiamento di vittimismo alla Totò e Peppino che hanno avuto la “moria delle vacche” e che quindi devono avere dallo Stato almeno il minimo per poter vivere? O saranno i 111 progetti di insediamento plurimo, cioè domande presentate da più giovani che intendono insediarsi sulla stessa azienda, che contribuiscono alla crescita dimensionale dell’azienda a risolvere il problema? Magari la soluzione arriverà dalle 418 richieste di partecipazione ai sistemi di qualità alimentare? Io so solo una cosa: queste sono strade già viste, percorsi già fatti, traiettorie che quando sono state intraprese non sono andate a finire da nessuna parte.
Ci vuole il Medico della Terra, quello che viene pagato solo a risultato ottenuto, quello che si mette in gioco come hanno fatto i piccoli agricoltori nel 1870 dieci anni dopo l’Unità d’Italia, solo che allora si stava facendo l’Italia, oggi invece sembra quasi che l’Italia debba finire da un momento all’altro per polverizzarsi in Padania e Terronia invasa dagli invasori inglesi che stanno comprando pian piano il territorio rurale. Ma no! magari gli invasori li fermiamo con l’ammodernamento, la valorizzazione commerciale dei prodotti, l’innovazione tecnologica, il miglioramento della qualità. Ma si, state tranquilli che li fermiamo con i 67 i progetti presentati, con i 2233 soggetti richiedenti: con i 1755 produttori di base, le 352 imprese di trasformazione e commercializzazione e i 126 altri soggetti tra cui le associazioni di produttori. Ma i Medici della terra dove sono? Possibile che quest’agricoltura malata non si rivolga al dottore?

Bibliografia
L'Agricoltura Salentina Giugno 1918
Nuovo dizionario universale e ragionato di agricoltura, economiaDi Francesco Agostino Gera
Arboricoltura Di Luigi Salvatore Savastano
Viticoltura moderna Di Italo Eynard,Giovanni Dalmasso
Vinix - Wine & Food Social Network
Trattato degli innesti Di Giammaria Venturi
Innesti e le tecniche di riproduzione Di Adriano Del Fabro
Storia del mondo della Columbia University
Presentati ieri a Lecce i risultati dei bandi del PSR pubblicati a ottobre scorso http://www.sudnews.it/
Arcangela Giorgio Percorsi a Sud: Puglia e Vini

lunedì 29 marzo 2010

Il bulbo che risveglia i sensi


Il bulbo che risveglia i sensi
di Antonio Bruno*
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Mio nonno Pietro detto “Petruzzu” li adorava. Li potete raccogliere dopo l’aratura del terreno e sono il frutto di 4 o 5 anni vita di questa pianta che ha il nome Muscari comosum (L.) Mill., 1768. Ha dell’avventuroso andare alla ricerca del “Pampasciune”, una attività di scavo, di portare fuori dalle rosse terre del Salento leccese una bulbo amaro che viene lasciato nell’acqua per essere poi mangiato. La raccolta del selvatico è praticata ancora oggi diffusamente nel Salento leccese.
Lu Pampasciune detto anche Lampasciune è una pianta erbacea perenne di modeste proporzioni, fornita di un Bulbo (Organo sotterraneo come quello dei tulipani) formato da scaglie o tuniche carnose, compatte, di colore rosaceo.
Tutte le parti di questa pianta (Bulbo, fusto, foglie e fiori) contengono un succo mucillaginoso di sapore amaro un po’ acre.
Nel mondo classico ai bulbi , veniva attribuito un alto potere afrodisiaco, e numerose sono le testimonianze in tal senso. d.C.) dedicò ai bulbi queste parole. “qualora tua moglie sia vecchia, qualora il tuo membro sia morto, niente altro che i bulbi potranno soddisfarti… Chi sa apparire uomo nelle battaglie di Venere, mangi i bulbi e sarà molto forte”.
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Un linguaggio d’altri tempi, una parola che indica una cipolla selvatica che cresce spontanea nei terreni incolti del Salento leccese, il sapore è amarognolo. Mio nonno Pietro detto “Petruzzu” li adorava. La nonna glieli faceva in tutti i modi possibili ma lui li preferiva fritti. In quella casa del centro storico a corte dove ho passato la mia infanzia dai nonni, dalle cucine delle famiglie che si affacciavano in quello spazio interno provenivano profumi di ogni tipo e tra questi quello del “Pampasciuni” così li chiamavano tutti ai tempi della mia infanzia nel mio paesello San Cesario di Lecce in quella “Curte” alle spalle della Farmacia che appartiene a un luogo dal nome inquietante “a rretu allu ‘nfiernu” ovvero indietro verso l’inferno. Per la verità anche se quella stretta viuzza è ancora li a fare bella mostra di se, di infernale in quel posto non c’era proprio nulla visto che ci ho passato quasi tutta per intero la mia infanzia, accudito, coccolato e amato da due splendidi nonni di nome Pietro e Domenica a cui va il mio ricordo e il mio affetto in questo momento che mi sono venuti in mente grazie al piatto che preferiva mio nonno e in fondo a questo articolo forse le notizie contenute mia hanno fatto capire quale fosse la ragione per cui il mio simpatico vegliardo ne faceva abbondante uso.
Li potete raccogliere dopo l’aratura del terreno e sono il frutto di 4 o 5 anni vita di questa pianta che ha il nome Muscari comosum (L.) Mill., 1768. E’ una pianta erbacea della famiglia delle Liliaceae o Hyacinthaceae secondo la classificazione APG (The Angiosperm Phylogeny Group. An update of the Angiosperm Phylogeny Group classification for the orders and families of flowering plants: APG II . Botanical Journal of the Linnean Society 2003; 141: 399–436.).
I “Pampasciuni” crescono a 10 - 15 centimetri circa nel sottosuolo, si presentano simili a piccole cipolle dal sapore amarognolo e sono ricchi di sali minerali.
C’è anche una tradizione che vede persone in giro per campi, che scavano in corrispondenza dell'infiorescenza della pianta, per cercarli. Non so se vi è capitato di vederli, in genere è in febbraio prendono la zappetta e cercano i “Pampasciuni” . Il cercatore di “Pampasciuni” sa perfettamente che è meglio zappare dopo una pioggia in maniera da trovare il terreno morbido. Eccolo che vaga nei campi incolti alla ricerca di quella pianta, se la vede ecco che vibra una bel colpo di zappa stando attento ad individuare la giusta profondità. Se lo stelo che si collega al bulbo si rompe diventa difficile individuare il bulbo prezioso e gustoso di cui siamo alla ricerca e con ogni probabilità dovremo attendere l’anno successivo, quando verrà fuori l’altra pianta dal bulbo per poterlo raccogliere. Ha dell’avventuroso andare alla ricerca del “Pampasciune”, una attività di scavo, di portare fuori dalle rosse terre del Salento leccese una bulbo amaro che viene lasciato nell’acqua per essere poi mangiato. La raccolta del selvatico è praticata ancora oggi diffusamente nel Salento leccese.
Le piante e l’uomo, un rapporto che affonda nel tempo, come auando è stata scoperta nel 1960 una tomba di un uomo di Neanderthal vissuto 6.00 anni fa e sepolto con otto specie di piante, sette delle quali sono ancora usate oggi a fini curativi.
Lu Pampasciune detto anche Lampasciune è una pianta erbacea perenne di modeste proporzioni, fornita di un Bulbo (Organo sotterraneo come quello dei tulipani) formato da scaglie o tuniche carnose, compatte, di colore rosaceo. Lu Pampasciune ha foglie basali, lineari, acuminate, concave, grassette, di colore verde, verde-pallido, tendenti ad afflosciarsi, ha piccoli fiori poco appariscenti, poco profumati, raccolti in denso racemo dalla forma tubolosa-campanulata con apicali sterili di colore azzurro-violaceo. Cresce spontaneamente alle pendici dei monti e sporadicamente un po’ dappertutto. E’ difficile quantificare quante specie di muscari esistano al mondo, si suppone ve ne siano circa 50 con caratteristiche ben diverse. E’ un bulbo molto apprezzato per i suoi fiori primaverili, essendo una pianta che si adatta a qualsiasi terreno e clima. In Italia ne sono state catalogate 7 specie, e facile incontrarli tra marzo e giugno ai bordi di prati e dei terreni incolti.
I più pregiati come bulbi floreali sono il Muscari Armeniacum, soprattutto negli USA, mentre il Muscari Blue River è tipico dell’ Olanda.
Di Muscari commestibili più conosciuti in commercio ne esistono tre specie. La più pregiata è la Muscari Recemosum, la si distingue dalle altre dal suo deciso sapore amarognolo. Le altre due specie, la Muscari Comosum e la Muscari Romanus sono, seppur buone, poco sapidi e più indicate ad essere conservate sott’aceto.
Inutile dirvi che ai fini medicinali e preferibile usare la Recemosum perché più ricca di costituenti amari utili per attivare le funzioni gastriche e la secrezione biliare.
L’autore Antonio Narciso riporta un vago studio eseguito nel lontano 1888 dal dott. Antonio Curci, in cui si può leggere:
“Il Muscari comosum o Hyacinthus comosus è una gigliacea a bulbo tunicato, con fiori violetti ed anche blu. E’ una pianta molto comune nei campi ed in tutti i luoghi dove il terreno è coltivato o per altra ragione smosso, sicché rinunciamo a descriverla. Tutte le parti di questa pianta (Bulbo, fusto, foglie e fiori) contengono un succo mucillaginoso di sapore amaro un po’ acre. Non pertanto nelle Puglie i bulbi sotto il nome di lampascioni sono molto ricercati ed usati come alimento gradito. La bollitura toglie quasi tutto l’amaro e li rende molto digeribili...”
La ricerca del Dott. Antonio Curci nell’anno anno 1888 prosegue menzionando uno dei componenti della pianta, una saponina chiamata per l’occasione acido comosico che in misura molto concentrata viene somministrata per endovena su animali cavia con il risultato finale del decesso di quest’ultimi. La ricerca conclude con questo messaggio.
“Terapeudicamente mi pare che la decozione del muscari comosum sia adatta ad essere usata come espettorante nei catarri di petto, come si suol fare coll’ipecacuana, la poligola, la squillaja, ecc.. Io mi sono proposto di farne uso in pratica.”
Lu Papmasciune può essere coltivato può essere seminato in primavera. Una buona percentuale del seme germina in genere entro 2 - 3 mesi. E’ buona accortezza seminare il seme sottilmente in modo che le piante possono essere lasciate indisturbate per il loro primo anno di crescita. Si può intervenire occasionalmente con concime durante la crescita per assicurarsi che non diventano carenti di nutrienti. Le piante diventano dormienti in tarda estate. Farle crescere per tre anni prima di arare per raccogliere i bulbi.
Lu “Pampasciune” non è sempreverde; durante primavera assume una colorazione viola ; gli esemplari adulti sono di taglia piccola e raggiungono i 25 cm di altezza. La pianta necessita di almeno alcune ore al giorno di irradiamento solare.
Nel mondo classico ai bulbi , veniva attribuito un alto potere afrodisiaco, e numerose sono le testimonianze in tal senso.
Marziale (I sec. d.C.) dedicò ai bulbi queste parole. “qualora tua moglie sia vecchia, qualora il tuo membro sia morto, niente altro che i bulbi potranno soddisfarti… Chi sa apparire uomo nelle battaglie di Venere, mangi i bulbi e sarà molto forte”.
Ateneo (II – III sec. d.C.) diceva: “aragoste, bulbi, lumache… se qualcuno amando un’etera trovasse altri farmaci più utili di questi…”.
La fama afrodisiaca dei bulbi era molto diffusa non solo nell’opinione popolare, ma anche presso i medici sia Greci che Latini.
Presenti nel ricettario di Apicio in ben quattro preparazioni, dovevano essere un alimento di facile reperibilità.
Dal Medioevo fino alla meccanizzazione dell’agricoltura, il lampascione ha rappresentato un alimento povero spontaneo, consumato in notevoli quantità durante il periodo delle arature e delle semine autunnali.
C’è sempre un effetto collaterale indesiderato in ogni cosa. In questo caso a coloro che mangiano questo bulbo è riservata un’intensa attività, come dire, di chi si dà delle arie! Solo che l’aria di cui scrivo è rumorosa e comporta un attivo meteorismo dopo l’assunzione di questo alimento. Quindi se ne facciamo un lauto pasto prima di un incontro con una gentile signora nella speranza che lo stesso sia allietato da abbracci amabili, teniamo conto che potrebbe configurarsi un imbarazzante e rumorosa disfatta meteorica che potrebbe decretare l’insuccesso dell’incontro.

*Dottore Agronomo

Bibliografia

Rocco Boccadamo I LAMPASCIUNI DI S. GIUSEPPE

Giuseppe Nacci Lampascione

Antonio Narciso Dolce Semidolce Amaro

Antonio Curci, anno 1888 Ricerca




Ken Fern
Notes from observations, tasting etc at Plants For A Future and on field trips.

F. Chittendon. RHS Dictionary of Plants plus Supplement. 1956 Oxford University Press 1951
Comprehensive listing of species and how to grow them. Somewhat outdated, it has been replaces in 1992 by a new dictionary (see [200]).

Chiej. R. Encyclopaedia of Medicinal Plants. MacDonald 1984 ISBN 0-356-10541-5
Covers plants growing in Europe. Also gives other interesting information on the plants. Good photographs.

Clapham, Tootin and Warburg. Flora of the British Isles. Cambridge University Press 1962
A very comprehensive flora, the standard reference book but it has no pictures.

Sholto-Douglas. J. Alternative Foods. 0
Not very comprehensive, it seems more or less like a copy of earlier writings with little added.

Grey. C. H. Hardy Bulbs. Williams & Norgate. 1938
Rather dated now, but an immense work on bulbs for temperate zones and how to grow them. Three large volumes.

Uphof. J. C. Th. Dictionary of Economic Plants. Weinheim 1959
An excellent and very comprehensive guide but it only gives very short descriptions of the uses without any details of how to utilize the plants. Not for the casual reader.

Flora Europaea Cambridge University Press 1964
An immense work in 6 volumes (including the index). The standard reference flora for europe, it is very terse though and with very little extra information. Not for the casual reader.

Usher. G. A Dictionary of Plants Used by Man. Constable 1974 ISBN 0094579202
Forget the sexist title, this is one of the best books on the subject. Lists a very extensive range of useful plants from around the world with very brief details of the uses. Not for the casual reader.

Kunkel. G. Plants for Human Consumption. Koeltz Scientific Books 1984 ISBN 3874292169
An excellent book for the dedicated. A comprehensive listing of latin names with a brief list of edible parts.

Facciola. S. Cornucopia - A Source Book of Edible Plants. Kampong Publications 1990 ISBN 0-9628087-0-9
Excellent. Contains a very wide range of conventional and unconventional food plants (including tropical) and where they can be obtained (mainly N. American nurseries but also research institutes and a lot of other nurseries from around the world.

Huxley. A. The New RHS Dictionary of Gardening. 1992. MacMillan Press 1992 ISBN 0-333-47494-5
Excellent and very comprehensive, though it contains a number of silly mistakes. Readable yet also very detailed.

Genders. R. Scented Flora of the World. Robert Hale. London. 1994 ISBN 0-7090-5440-8
An excellent, comprehensive book on scented plants giving a few other plant uses and brief cultivation details. There are no illustrations.

domenica 28 marzo 2010

Con 15 Euro a settimana hai in casa cibo fresco, sano, gustoso e di qualità che diverrà carne e sangue dei tuoi figli.


Con 15 Euro a settimana hai in casa cibo fresco, sano, gustoso e di qualità che diverrà carne e sangue dei tuoi figli.
di Antonio Bruno
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La città di Napoli è sede di ogni bellezza e del taroccato doc, e che dire della Cina? La Cina coltiva in modo biologico il 4,4% del riso, il 6,6% della frutta, il 16,3% del tè è al secondo posto al mondo per superficie agricola coltivata a biologico, dopo l'Australia. E dalla Cina arriva anche il biologico italiano taroccato: prodotti che sembrano italiani senza esserlo. Chi li compra pensa di accedere a prodotto biologico per il quale è disposto anche a pagare di più rispetto al prodotto della Grande Distribuzione Organizzata. Il valore della produzione bio made in China è attualmente pari a circa 700 milioni di dollari e nel 2004 il valore delle esportazioni è stato pari a 350 milioni: la metà del totale prodotto, e si stima una crescita dell'export al ritmo del 10% annuo. Un tipo di agricoltura che vende all'estero ma che vende anche al vicino di casa, al compaesano e al cittadino della stessa Provincia e al Corregionale. Questo concetto attraversò l’Europa e fu adattato alla situazione statunitense e la nominato Community Supported Agricolture (agricoltura sostenuta dalla comunità) presso la Indian Line Farm, in Massachussetts, nel 1985.
I consumatori dovrebbero pagare in anticipo per una quota del raccolto della stagione.
Riporto l'esempio di una registrazione di 24 settimane (circa sei mesi) che da diritto ad avere prodotti biologici freschi consegnati a casa e a disposizione di tutti i docenti, del personale e degli studenti della Johns Hopkins. L'iscrizione doveva avvenire prima del 9 marzo del 2010. Tale iscrizione nella Stagione 2010: 8 giugno - 16 novembre (24 settimane) ritiro: martedì dalle 3:30-4:50 in garage. Prima al 9 marzo, una ripartizione dei costi completo 490 dollari che corrispondono a 366 Euro (15 EURO a settimana) Il prezzo di una quota, divisa in 24 settimane, è molto ragionevole, soprattutto rispetto ai costi del cibo al supermercato. Come noto questo accordo è noto come Comunità Supported Agriculture (CSA).
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Ci sono notizie che fanno riflettere, ci sono città che fanno meditare e Nazioni che lasciano senza fiato per comportamenti contraddittori. Mi viene in mente la città di Napoli sede di ogni bellezza e del taroccato doc, e che dire della Cina? La Cina coltiva in modo biologico il 4,4% del riso, il 6,6% della frutta, il 16,3% del tè è al secondo posto al mondo per superficie agricola coltivata a biologico, dopo l'Australia. E dalla Cina arrivano anche prodotti che sembrano italiani senza esserlo. Ma se c'è chi tarocca le griffe dell'abbigliamento e chi tarocca i prodotti italiani che sono davvero molto richiesti. Chi li compra pensa di accedere a prodotto biologico per il quale è disposto anche a pagare di più rispetto al prodotto della Grande Distribuzione Organizzata.
Tre le principali categorie di consumatori i 20-40enni di educazione e reddito medio alti; poi ci sono gruppi specifici come donne incinte,neonati e bambini che sono acquirenti istituzionali. Il valore della produzione bio made in China è attualmente pari a circa 700 milioni di dollari e nel 2004 il valore delle esportazioni è stato pari a 350 milioni: la metà del totale prodotto, e si stima una crescita dell'export al ritmo del 10% annuo. Nel commercio con l’estero si è verificata una netta inversione di tendenza con il crollo del valore delle importazioni di prodotti agroalimentari dalla Cina in Italia che hanno fatto segnare un calo del 21,5% proprio per la consapevolezza del taroccato che nessuno vuole e che se si viene a sapere che il prodotto cinese ha il pericolo di essere travestito da italiano ecco che le vendite calano.
Per difendersi i rappresentanti delle organizzazioni agricole al G8 Farmers al meeting di Roma si sono promessi una “carta d’identità” per il cibo.
Il vertice mondiale di tutti i leader delle maggiori organizzazioni agricole dei Paesi appartenenti al G8 per discutere di agricoltura, alimentazione, ambiente e energie alternative nel tempo della crisi, ha coinvolto qualche giorno fa a Roma gli agricoltori di Giappone, Stati Uniti, Canada, Germania, Francia, Inghilterra, Russia e Italia. Siccome emerge la necessità di avere standard di sicurezza, di preservare l’ambiente e rilanciare l’agricoltura per risolvere la fame nel mondo questi signori pensano a una carta d’identità perché sono consapevoli che nessuno sa più cosa mangia, da dove viene quello che mangia, e soprattutto come viene prodotto ciò che poi diventerà carne della sua carne e carne e sangue dei nostri figli.
I prodotti agricoli riguardano un aspetto fondamentale del genere umano, come l’alimentazione, e non possono essere trattati come tutte le altre commodities. Ad esempio l’acquisto di cibo a differenza delle automobili non può essere rinviato da un anno all’altro.
Il prodotto interno lordo della Puglia è di circa 7.000 milioni di Euro e quindi se si potesse accedere alla vendita del prodotto biologico avremmo la possibilità di uno sviluppo dell'impresa agricola vera, di quella che produce e vende senza stampelle, senza elemosine, senza faccendieri e praticoni che imbrattano carte su carte, che scrivono milioni di parole inutili che nessuno leggerà mai. Parole che non danno alcuna prospettiva al settore primario come è stato dimostrato da decenni di Politica Agricola Comune data in mano alle carte anziché darla in mano ai Medici della terra. Insomma sto scrivendo di un tipo di agricoltura che più di preoccuparsi di vendere all'estero vende senza alcuna preoccupazione al vicino di casa, al compaesano e al cittadino della stessa Provincia e al Corregionale.
Vi voglio raccontare una storia di donne, quelle che da sempre hanno in mano il destino dell'agricoltura, perché i prodotti della terra vengono serviti al mondo che ogni donna crea, al suo maschio che le ha fatto mettere al mondo i figli che insieme a lei costituiscono il mondo che va nutrito e curato, perché non vada perso per incuria e distrazione.
Trent’anni fa in Giappone, un gruppo di donne preoccupate dall’aumento delle importazioni di cibo ed il relativo calo della popolazione impegnata in agricoltura promossero un rapporto diretto “produzione-acquisto” tra il loro gruppo e i contadini locali. Questo modello di organizzazione, in Giapponese “teikei”, si traduce con “metti la faccia del produttore sul cibo”. Questo concetto attraversò l’Europa e fu adattato alla situazione statunitense e la nominato Community Supported Agricolture (agricoltura sostenuta dalla comunità) presso la Indian Line Farm, in Massachussetts, nel 1985. A gennaio 2005 Canada e Stati Uniti contano oltre 1500 aziende afferenti al CSA.
Community Supported Agriculture (CSA) è un termine che descrive un rapporto diretto tra azienda agricola e consumatori che ha delle peculiarità che si possono sintetizzare con l'orgoglio di appartenere a una comunità che ha dei prodotti tipici che la caratterizzano e quindi c'è la spinta ai coltivatori a produrre alimenti per la comunità. A questo c'è da aggiungere che per ottenere tutto questo i cittadini acquistano un abbonamento che gli consente di prendere i prodotti che vengono pagato all'inizio della stagione. Questo da diritto agli abbonati di ricevere settimanalmente i prodotti previsti dall'abbonamento.
Questo meccanismo di marketing continua a crescere in popolarità, soprattutto tra i
consumatori benestanti intorno ai centri urbani.
Con questo modello, i consumatori del Salento leccese acquisterebbero direttamente dagli agricoltori della nostra zona, avrebbero la certezza che il cibo proviene da una terra madre che è rispettata e nutrita dal coltivatore seguito dal Dottore Agronomo o dal Dottore Forestale sotto la direzione scientifica dell'Università. I consumatori dovrebbero pagare in anticipo per una quota del raccolto della stagione. Questo contribuirebbe a coprire i costi di produzione e garantirebbe un mercato stabile, aiutando gli agricoltori più piccoli a rimanere in attività. Ci sono alcuni esempi in USA che hanno come consulenti scientifici i professori dell'Università come ad esempio la Johns Hopkins Center per un futuro vivibile che ha avviato il primo progetto CSA alla Johns Hopkins University nel 2007. Questo progetto fornisce a docenti, studenti e personale prodotti freschi e certificati biologici dal Maryland One Straw Farm.
Il progetto ha avuto un buon successo e ci sono state 150 adesioni nel 2009, mette in gioco anche temi quali la sicurezza alimentare nella comunità circostante Baltimora, e promuove le pratiche agricole che tutelano la salute pubblica attraverso la protezione, promozione e tutela dell’ambiente che è al 99% paesaggio rurale.
Leggi attentamente, dico a te, prova a immaginare di avere nel Salento leccese, a pochi passi da casa tua, la produzione certificata dai Dottori Agronomi e dai Dottori Forestali sotto la direzione scientifica dell'Università e questa produzione sana, saporita, genuina sia costituita di Fragole, zucchine, cetrioli, melanzane, zucca, aglio, lattuga, cipollotti, ravanelli, barbabietole, patate, patate dolci, carote insieme a tanto, tanto altro. L'Eden, il paradiso terrestre, la terra promessa da cui sgorgano fiumi di latte e miele, alberi che producono frutta gustosa piena di sapori e di odori ineguagliabili, colori che splendono nella campagna del Salento leccese che produce il cibo per te e i tuoi figli, delizie per il palato che tu puoi andare a vedere in ogni istante andandoci a passare qualche ora oppure collegandoti con internet perché il pomodoro che mangerai, lo puoi vedere crescere da casa tua, dal tuo schermo collegato in diretta alla Web Cam del produttore che hai prepagato e potrai chiedere ogni chiarimento al Medico della Terra che segue con amore e competenza il campo che produrrà il cibo per la tua famiglia.
Riporto l'esempio di un prepagato di 24 settimane (circa sei mesi) che da diritto ad avere prodotti biologici freschi consegnati a casa e a disposizione di tutti i docenti, del personale e degli studenti della Johns Hopkins. L'iscrizione doveva avvenire prima del 9 marzo del 2010. Tale iscrizione nella Stagione 2010 parte dall’ 8 giugno e finisce il 16 novembre (24 settimane) il ritiro della cassetta è ogni martedì dalle ore 15 e 30 alle 16 e 30 in un garage di un componente della Comunità. Prima al 9 marzo, una ripartizione dei costi completo 490 dollari che corrispondono a 366 Euro (20,42 dollari a settimana) Dopo il 9 marzo, una quota totale dei costi 550 dollari (22,92 dollari a settimana che corrispondono a 15 Euro a settimana).
Il prezzo di una quota, divisa in 24 settimane, è molto ragionevole, soprattutto rispetto ai costi del cibo al supermercato.
Ma vediamo che cosa è incluso in una quota settimanale CSA:
I soci ricevono otto varietà di prodotti biologici tutte le settimane. Come esempio la cassetta di una settimana potrebbero essere: 1 mazzetto di foglie di lattuga, 1 cestino di un chilo di pomodori, 1 melanzana grande, 3 cetrioli, 3 peperoni, 2 mazzi di cavolo, 1 cestino di patate e 1 chilo di cocomero intero.
Anche se gli elementi variano con la stagione e le condizioni di crescita, i membri in genere si aspettano un flusso costante di verdure a foglia verde come spinaci, lattuga, bietole e cavoli in aggiunta alle raccolte stagionali di frutta, cetrioli, pomodori, mais, zucchine, zucca, erbe, patate dolci e meloni, solo per citarne alcuni.
Come ci si iscrive?
Ci si iscrive e si paga on-line utilizzando un assegno o carta di credito.
I membri a volte dividono la cassetta con qualcuno ovvero si compra una quota di 366 Euro ma la si divide con un vicino di casa e quindi la settimana si pagherebbero appena 7,50 Euro.
A differenza di molti produttori di grandi catene di negozi che forniscono a migliaia di chilometri di distanza, gli agricoltori locali possono coltivare varietà selezionate per il sapore e non per la loro capacità di resistere ai parassiti e per la gran quantità di produzione. Le aziende agricole sono biologiche e grazie alla consulenza dei Dottori Agronomi e dei Dottori Forestali c'è la protezione dell'ambiente poiché i Medici della Terra fanno in modo che l'azienda adotti pratiche che impediscono il deflusso di sostanze inquinanti, di proteggere la qualità delle acque, la conservazione del soprassuolo, e attraverso i suggerimenti da parte del Medico della Terra della varietà da coltivare si promuove la biodiversità e si agisce in modo da ridurre le emissioni di gas serra.
Chiedo a chi mi legge di aderire a un progetto che ha lo scopo di aumentare la consapevolezza di essere in grado di avere più opzioni per creare o accedere al cibo locale. Queste opzioni possono contribuire alla costruzione di comunità. Abbiamo visto il caso di una iniziativa sorta per soddisfare le esigenze specifiche di una comunità attraverso l'accesso a una distribuzione locale degli alimenti e di produttori di generi alimentari che vendono parti del loro raccolti ai membri della comunità. Ora non dobbiamo far altro che costruire la prima Comunità nel Salento leccese e poi tutto verrà di conseguenza.

Bibliografia
Bollettino italiano dell'Associazione per l'agricoltura biologica
Marinella Correggia: Filiera corta, anzi, cortissima
University of Kentucky College of Agriculture New Crop: Opportunities Center Community Supported Agriculture (CSA)
Ryan Light, Graduate Assistant with Heather McIlvaine-Newsad, PhD, Research Fellow and Associate Professor of Anthropology and Erin Orwig, Technical Assistant: Illinois Directory of Community Supported Agriculture (CSA)

sabato 27 marzo 2010

Conviene coltivare il fiore che uccide?


Conviene coltivare il fiore che uccide?
di Antonio Bruno*

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Il Prof. Ferdinando Vallese nel tentativo di risollevare le sorti dell’agricoltura del Salento leccese del 1904 ha effettuato una sperimentazione cercando di affermare la coltivazione del Cinerariifolium Chrysanthemum (Trev.) Vis. al fine di estrarre dai fiori le piretrine. A più di un secolo di distanza a Specchia si tenta la stessa cosa anche se studiosi dell’ex Yugoslavia hanno accertato scientificamente che la percentuale di piretrine presenti nelle piantagioni dell’adriatico sono inferiori rispetto a quelle in cui viene prodotta oggi la pianta. Gli studi dei ricercatori cinesi Zhen Liu e Shanlin Gao con le varietà autotretraploidi ottenute in vitro hanno però messo a punto la possibilità di ottenere alte percentuali di piretrine da queste piantesi tratta di effettuare una sperimentazione al fine di verificare se tali più alte percentuali giustificano la coltivazione del Cinerariifolium Chrysanthemum (Trev.) Vis. nella nostra zona.
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Il Prof. Ferdinando Vallese in una sua nota nella rivista da lui voluta e fondata “Agricoltura Salentina” nel numero del 15 luglio 1904 afferma che c'è una pianta che dovrebbe essere coltivata in via sperimentale nel nostro Salento leccese ed è il Pyrethrum cinerariaefolium Trev. cespugliosa, pelosa, con foglie lobate e fiori raccolti in capolini solitari con disco giallo e ligule bianche. Anche se noi adesso la conosciamo come Chrysanthemum cinerariifolium possiamo notarla facilmente, infatti è una pianta che forma ampi ciuffi colorati e viene recisa e usata per la decorazione interna o lasciata in giardino a gruppi o file.
E' una pianta perenne che produce grandi fiori a forma di margherita nelle tonalità rosa e rosse, con grande cuore giallo: spiccano per questo tra il fogliame di un bel verde brillante, raggiungendo un'altezza di circa 80 cm.
Nelle nostre case in estate il piretro aleggia nell'aria perchè ha preso il posto del vecchio DDT che noi 50 enni (o su di li) ricordiamo perfettamente perchè si spruzzava con delle pompe a mano che comunque facevano fuoriuscire prodotto oleoso che imbrattava le nostre mani, nelle stanze al buio per uccidere le mosche e le zanzare della nostra infanzia. Poi il DDT si scoprì dannosissimo non solo per le mosche e zanzare ma anche per noi esseri umani ed ecco che al suo posto si impiega ancora oggi il piretro dall'alto potere insetticida in quanto contenente particolari principi attivi (le piretrine) che agiscono sull'apparato respiratorio degli insetti.
Il piretro è tra le sostanze di origine naturale elencate nell’Allegato II B del Regolamento Ce 2092/91, relativo al metodo di produzione biologico dei prodotti agricoli, il piretro è un insetticida poco tossico ed efficace, che si rivela un utile alleato nelle strategie di difesa di ortaggi e frutta in una produzione biologica.
Il Prof. Vallese nella sua nota di più di un secolo fa afferma che i fiori di piretro disseccati e ridotti in polvere danno la razzia, le numerose miscele insetticide ed insettifughe, la polvere Doufor per combattere la tignola dell'uva, la polvere per la fabbricazione dei fidibus o coni fumanti.
La polvere Dufor nel 1897 era un nuovo rimedio proposto dal Dufour, uno dei migliori insetticidi per la cochylis, e cioè a base di piretro.
C'è anche la descrizione dell'ottenimento: "sciogliere kg. 3 di sapone nero in qualche litro di acqua calda, aggiungere acqua fredda fino a completare i 100 litri, e infine aggiungere (in dose esatta 2 kg. di essenza di terebentina" Si applica con le pompe solo sui grappoli infetti, e nei punti dove si manifesta la larva.
Secondo le notizie in possesso nel 1904 del Prof. Vallese il Piretro cresce spontaneo in Dalmazia dove da il prodotto che ordinariamente si trova in commercio. Noi sappiamo che è stato coltivato già in tempi antichi in Oriente e oggi è diffuso soprattutto in Kenya, Tanzania, Tasmania ed Australia.
In Kenya l'agricoltura di piantagione è praticata sulle terre migliori della costa e dell'altopiano intorno a Eldoret, Nakuru e Kitale, gestita da europei, canadesi e giapponesi, è specializzata nelle colture più redditizie destinate all'esportazione tra cui il piretro di cui il Kenya è il primo produttore mondiale.
I fiori vengono raccolti, essiccati in alcuni casi utilizzando l'energia Geotermica e macinati, per ottenere un composto che in diluizione viene irrorato sulle piante come antiparassitario.
Il piretro cresce bene in terreni asciutti sabbiosi e preferibilmente calcarei. Siccome questo tipo di terreni è molto diffuso nel Salento leccese probabilmente il piretro da noi potrà trovare condizioni favorevoli per produrre in abbondanza e con una buona qualità.
La semina si fa in Primavera o all'inizio dell'Estate in semenzaio, le piante saranno poi trapiantate in autunno nel pieno campo. Il terreno che dovrà ospitare la coltivazione del Piretro deve essere ben lavorato e le piante vanno trapiantate a righe distanti 50 centimetri e con le piante a 40 centimetri di distanza l'una dall'altra sulla riga. In questo modo in un ettaro si avranno circa 50.000 piante. Alcuni vivai forniscono già le piantine da trapiantare il prezzo per l'acquisto di mille piante è di 70 Euro, quindi il solo costo delle piantine è di 3.500 Euro ad Ettaro.
La pianta del piretro essendo vivace può vivere per più anni sullo stesso terreno tanto da costituire diremo in maniera spiritosa un “piretreto”, il primo anno si produrranno pochi fiori mentre la produzione si avrà il secondo anno e durerà sino al quinto.
La raccolta dei fiori si fa tra maggio e giugno, staccandoli dalle piante quando non sono molto aperti, la raccolta può avvenire a mano o con una specie di pettine di legno.
Il disseccamento dei fiori si fa all'ombra e dopo il prodotto ottenuto va conferito all'industria che li polverizza.
Nel 1904 il Prof. Ferdinando Vallese ha condotto una sperimentazione della coltivazione del piretro nel Salento leccese con ottimi risultati.
Gli effetti insetticidi del piretro erano già noti in Cina a partire dal primo secolo dopo Cristo. La coltivazione del piretro è iniziata in Europa nel 1820.
L'azienda Specchiasol presso l'Opificio Erboristico Sandemetrio di Specchia (Le), gestisce un Centro per la promozione di studi e ricerche nel settore delle piante officinali. I lavori nel campo sperimentale didattico hanno già visto la messa a dimora di una collezione di circa 400 specie diverse di piante officinali, medicinali, aromatiche, ma anche piante utilizzate in agricoltura biologica come il Piretro.
Studiosi dell'ex Jugoslavia hanno studiato il contenuto in pietrine di una varietà di piretro dell'adriatico e sono arrivati alla conclusione che il contenuto di piretrine nei capolini raccolti nelle zone del nord adriatico non è paragonabile a quello delle zone di produzione tradizionale. La conferma viene da uno scritto Regio Istituto italiano agronomico per l'Africa italiana nel periodo coloniale che prende atto delle proprietà insetticide della pianta coltivata nell'Africa Mediterranea che sono maggiori di quando è coltivata sulle coste adriatiche.
Ogni anno si stima che si producono intorno a 20 – 25.000 tonnellate di fiori secchi che contengono circa l'1,3% di piretrine pure che determinano il valore del prodotto. Il piretro viene commercializzato come estratto contenente il 25% in peso di piretrine pure in solvente organico.
C'è un protocollo di una tecnologia rapida di propagazione in vitro per Cinerariifolium Chrysanthemum (Trev.) Vis., messa a punto in Cina. Un gran numero di gemme potrebbe essere indotta direttamente da espianti dall'epicotile Dopo l'induzione con alcune sostanze lo sviluppo potrebbe essere osservato entro 15 giorni dopo l'inoculazione. Inoltre uno studio sui poliploidi riprodotti in vitro ha ottenuto linee di riproduzione superiore con alto rendimento e di buona qualità. Linee Autotetraploidi di cinerariifolium C. sono stati ottenute mediante trattamenti colchicina e identificato un cromosoma .
Il numero dei cromosomi della piantina autotetraploide è stato 2n = 4x = 36. L'ottenimento di linee autotetraploidi sarà di importanza genetica per la riproduzione di valore e possono essere utilizzate per ulteriori selezione e riproduzione delle piante.
Il prodotto ottenuto dai capolini dei fiori, noto come piretro, è in realtà composto da sei principi attivi e, per aumentarne l'efficacia, è spesso associato al piperonilbutossido. La sintomatologia di chi è intossicato da questo prodotto raramente presenta caratteristiche di gravità come lo shock anafilattico. E' stato descritto un decesso dovuto all'inalazione di uno scampoo a base di piretro che ha determinato un broncoplasmo risultati fatale.


*Dottore Agronomo

Bibliografia
Agricoltura salentina del 15 luglio 1904
Raffaella Roviglioni Piretro: insetticida «naturale» da usare con attenzione per la difesa delle colture
L'Amico del Contadino 1897 - 1915 9 maggio 1897
Tedone L., Marzi V., 2000 Primi risultati della coltivazione del piretro (Chrysanthemum cinerariaefolium Vis) in ambiente meridionale. Atti del convegno Nazionale di studio: “La biodiversità vegetale del Pollino come opportunità di sviluppo”, 16-17 giugno 2000 (125-139)
Tedone L., Bicchi C., Manolio G., Marzi V. 2004. Coltivazione del piretro (Chrysanthemum cinerariaefolium Vis) in Italia meridionale. Italus Hortus, n.s., vol. 11, n. 4, 182-185
Chiara Anselmo Tesi di Laurea presso lo IULM di Milano, 2000:BAMBINI DI STRADA A NAIROBI: IL PROGETTO DI KIVULI
Jana AMBROZIC DOLINSEK - Maja KOVAC, Jana ZEL e Marjana CAMLOH Piretro (Tanacetum Cinerariifolium) del nord adriatico come fonte potenziale di insetticidi naturali
Vis Zhen Liu & Shanlin Gao Micropropagation and induction of autotetraploid plants of Chrysanthemum cinerariifolium (Trev.)
Azienda Agricola Casa Lanzarotti Agricoltura biologica controllata ICEA - Listino prezzi 2010 materiale da trapianto
Irene Braccini Analisi dell’aspetto riproduttivo e delle caratteristiche biologiche di alcune piante biocide
Di Pasquale Di Pietro,Massimo Chiossi Tossicologia clinica degli avvelenamenti acuti in età pediatrica
L'Agricoltura coloniale, Volume 16 Di Regio Istituto agronomico per l'Africa italiana,Istituto agricolo coloniale italiano

venerdì 26 marzo 2010

A dorso di mulo


A dorso di mulo
di Antonio Bruno*
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Abstract Riassunto
Le Masserie nella Puglia sono tante, innumerevoli (oltre 2.000) sono aziende rurali in regime latifondistico basate essenzialmente sulla coltivazione dei campi e sull'allevamento del bestiame, testimonianze fra le più rappresentative del processo di antropizzazione dell'ambiente, percorsi umani che per molti secoli, fino alle soglie del Novecento, hanno avuto un ruolo storico di primaria importanza, nel Salento Leccese sono più piccole per l'assenza del latifondo tipico del nord della Puglia, il pendolarismo così caratteristico dei braccianti salentini che per tradizione hanno sempre preferito abitare nei vicini centri urbani e raggiungere anche a piedi le campagne e i posti di lavoro ha decretato una sparuta presenza di allevamenti di animali nel nostro territorio.
Nel 2000 il numero di aziende zootecniche è estremamente ridotto (inferiore alle 1.750 unità). Nel decennio 1990 - 2000 il settore ha registrato una consistente riduzione del numero di aziende e una rilevante crescita dimensionale delle stesse. Tuttavia la rilevanza delle produzioni di bestiame nell'ambito del sistema economico provinciale risulta essere estremamente marginale.
Nel 1905 l’agricoltura del Salento leccese è in crisi e il Prof. Ferdinando Vallese titolare della Cattedra ambulante di Agricoltura incitava a prendere in seria considerazione lo sviluppo della Zootecnia per uscire dalle secche della crisi.
La questione era di non facile soluzione in quanto il bestiame bovino della Regione Puglia del 1905 aveva l’attitudine al lavoro e non presentava una capacità di rapido ingrasso. Il Prof. Vallese pur essendo a conoscenza di tentativi di incrocio con razze più produttive ad opera degli allevatori del tempo desiderava essere messo nelle condizioni di conoscere ogni singola iniziativa allo scopo di poterla coordinare.
Oggi il settore zootecnico della Puglia è costituito prevalentemente dagli allevamenti bovino, ovino e caprino. L’obiettivo della zootecnica nel dopoguerra è stato quello di elevare la disponibilità di prodotti animali (carne, latte, uova).
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Olivicoltura e viticoltura la facevano da padrone nel Salento leccese nell’800 ma ai primi del 900 ecco che registriamo un interessamento del mondo agricolo nei confronti dell’allevamento degli animali domestici.
Nel Salento leccese ci sono sempre state e ci sono ancora le masserie, dal latino " massae" amalgama, insieme di fondi rustici, che rappresentano uno degli aspetti più singolari e suggestivi dell’ambiente pugliese che come è evidente è paesaggio rurale. Nella Puglia sono tante, innumerevoli (oltre 2.000) sono aziende rurali in regime latifondistico basate essenzialmente sulla coltivazione dei campi e sull'allevamento del bestiame, testimonianze fra le più rappresentative del processo di antropizzazione dell'ambiente, è la svolgimento di un percorso dell’uomo nel corso dei secoli. Le masserie nel Salento Leccese sono più piccole per l'assenza del latifondo tipico del nord della Puglia, e nel nostro territorio già da allora il lavoro era pendolare, infatti i braccianti salentini per tradizione hanno sempre preferito abitare nei vicini centri urbani e raggiungere anche a piedi le campagne e i posti di lavoro la caratteristica delle aziende zootecniche è la presenza costante dell’uomo che accudisce gli animali ed questo uno dei motivi per cui nel Salento leccese vi è una sparuta presenza di allevamenti di animali.
Già nel 2000 si assiste al fenomeno della riduzione del numero di aziende zootecniche (inferiore alle 1.750 unità). Le specie di bestiame maggiormente diffuse nel Salento leccese sono le bovine bufaline e le avicole. E’ evidente che la rilevanza delle produzioni di bestiame nell'ambito del sistema economico provinciale risulta essere estremamente marginale.
Eppure all’università l’insegnamento della zootecnica generale è stato uno dei pilastri della mia formazione, ricordo che era costituito di due parti: una di alimentazione e una di miglioramento genetico in armonia con il concetto che l’individuo (fenotipo) era il risultato dell’interazione fra genotipo e ambiente (paratipo). Ricordo di aver fatto quell’esame il giorno dopo che l’Italia vinse i mondiali in Spagna era il 12 luglio del 1982, fu bello prepararlo e ancora più bello sostenere la prova scritta e quella orale. Adesso non sento più parlare di zootecnia e mi spiace aver fatto quello scritto per le razioni alimentari e per il miglioramento genetico senza poterlo applicare mai a Lecce e nel Salento leccese, avrei potuto dare un contributo per lo sviluppo del settore se qualcuno ne avesse avuto bisogno, se a qualcuno fosse interessato.
Mi ha consolato sapere che già alla fine dell’800 si inizia a pensare a una valorizzazione del bestiame pugliese che, a detta del Prof. Ferdinando Vallese, appare molto interessante all’occhio del visitatore ma che, invece, in quei tempi era utilizzato dal nostro antenato Salentino come la fonte della produzione del letame e per l’aiuto all’effettuazione dei lavori nei campi.
Nel 1905 l’agricoltura del Salento leccese è in crisi e il Prof. Ferdinando Vallese, titolare della Cattedra ambulante di Agricoltura, incitava a prendere in seria considerazione lo sviluppo della Zootecnia per uscire dalle secche della crisi.
La questione era di non facile soluzione in quanto il bestiame bovino della Regione Puglia del 1905 aveva l’attitudine al lavoro e non presentava una capacità di rapido ingrasso. Il Prof. Vallese pur essendo a conoscenza di tentativi di incrocio con razze più produttive ad opera degli allevatori del tempo desiderava essere messo nelle condizioni di conoscere ogni singola iniziativa allo scopo di poterla coordinare.
L’altra questione che pose all’epoca il Prof. Vallese riguardava la produzione di Muli che, come tutti sappiamo, sono l’incrocio tra una cavalla ed un asino stallone. Il Prof. Vallese poneva quindi particolare attenzione agli allevamenti di asini e alle cavalle che erano, come dire, la materia prima disponibile per ottenere i preziosi muli. Per questi motivi ecco che nel 1905 si organizza a Lecce la Mostra Zootecnica provinciale.
Mi chiedo e vi chiedo perché il Prof. Ferdinando Vallese cercava di sviluppare la produzione di muli nel Salento leccese? Ma cosa sono i muli? Nella letteratura del I secolo d.C., Fedro descrive due muli che camminano trasportando i loro rispettivi carichi sul dorso.
L’autore, pur antropomorfizzando i due animali, li evidenzia focalizzando la loro principale funzione: il trasporto. I muli, essendo forti, docili e resistenti, erano considerati validi per il trasporto di carichi molto pesanti per lunghe e brevi distanze, riuscendo a sopportare la fatica anche attraverso terreni montagnosi e desertici.
Sottoposti a sforzi eccezionali, diventavano insostituibili poiché nessun altro animale addomesticato riusciva ad equiparare le loro prestazioni lavorative.
Quando ho letto le cronache del 1905 e la raccomandazione del Prof. Ferdinando Vallese a sviluppare l’allevamento dei cavalli ovvero quello equino per ottenere delle cavalle da far accoppiare a un asino stallone non riuscivo a darmi una spiegazione di tutto quanto affermato. Vi confesso che mi sarebbe sembrato di gran lunga più logico sviluppare l’allevamento ovino che ancora è presente nella nostra terra, che ben si adatta alla disponibilità di foraggio che viene mangiato dalle pecore e dalle capre nelle passeggiate del gregge tra gli ulivi e i seminativi. Ma poi ho capito che il Prof. Vallese pensava alla richiesta di mezzi per l’utilizzo nei trasporti e alla funzione essenziale del mulo. Insomma la vendita del mulo portava molta più ricchezza che quella del cavallo perché c’era un mercato che non aspettava altro che possedere questo incrocio così adatto a trasportare le merci.
Inoltre mi è allo stesso sembrata una raccomandazione singolare quella di ottenere dalle razze di bovini da lavoro degli incroci che potessero dare bovini da ingrasso. E’ noto a tutti quelli che come me hanno padri e madri vissuti ai tempi della guerra, la carenza di carne che caratterizzava il Paese alla fine della seconda guerra mondiale. Basta pensare che il consumo pro capite si aggirava attorno ai 10 kg per anno. La carenza di carne del 1905 doveva essere ancora più sensibile e questa considerazione è stata la risposta alla mia domanda.
Oggi il settore zootecnico della Puglia è costituito prevalentemente dagli allevamenti bovino, ovino e caprino. C’è qualche allevamento di bufali limitatamente ai comuni di Calimera, Cerignola e Manfredonia, qualche allevamento equino sulla Murgia Barese e Tarantina e da considerevoli allevamenti avicoli per lo più concentrati nel foggiano (Bovino, Orsara e Troia).
Ad esempio in uno studio dell’Area Sistema di Casarano e Comuni Associati, con l'adesione dei Comuni di Matino, Presicce e Taurisano, nella proposta progettuale si è analizzata l’attività zootecnica e il collega Antonio Stea è arrivato alla conclusione che è modesta, le aziende sono quasi tutte a conduzione familiare e spesso risultano senza autorizzazioni sanitarie e addirittura ci sono casi in cui non vengono rispettati i vincoli imposti dalle normative vigenti.
Le aziende con allevamenti ovini, caprini, equini rappresentano circa l’8,65% del totale provinciale mentre questa percentuale scende a circa il 6% per le aziende con allevamenti bovini, bufalini e suini.
Le ricerche e gli studi a mia disposizione danno questo quadro desolato degli allevamenti nella Provincia di Lecce ma la consapevolezza che stiamo vivendo un momento di grande evoluzione delle produzioni agricole ed in particolare di quelle zootecniche, mi fa scrivere vibratamente e con forza a chi decide le politiche di sviluppo del Salento leccese che è fondamentale favorire il trasferimento delle conoscenze scientifiche ai settori operativi e professionali che maggiormente sono coinvolti nel processo produttivo.
C’è la necessità che le produzioni animali siano sempre più adeguate alle evoluzioni richieste dal mercato e dai recenti orientamenti del consumatore. Ma per ritornare alle raccomandazioni del Prof. Ferdinando Vallese del 1905 c’è da sottolineare che in quel periodo era posto in essere il rispetto del “Benessere Animale” e basta sfogliare le cronache e visitare qualche allevamento per essere consapevoli che in questo settore c’è molto da fare perché c’è grande interesse al settore della Etologia Applicata e del Benessere Animale.
L’altra questione all’attenzione di noi Dottori Agronomi e Dottori Forestali è la tendenza orientata ad ottenere alimenti con più elevate caratteristiche di qualità, di salubrità e di sicurezza. L’obiettivo della zootecnica nel dopoguerra è stato quello di elevare la disponibilità di prodotti animali (carne, latte, uova).
Più di recente si è cominciato ad approfondire il concetto di qualità dei prodotti e molti studi si sono proposti di conoscere meglio non solo le caratteristiche chimiche, organolettiche, reologiche e nutrizionali dei vari alimenti, ma anche la loro provenienza, i trattamenti a cui vengono sottoposti gli animali ed il percorso dell’intera filiera produttiva.
In grande rilievo la necessità di correggere alcuni comportamenti alimentari dell’uomo responsabili di malattie dismetaboliche. Si dovrà allora abbandonare l’uso di indicazioni generalizzate per suggerire diete rispondenti ai reali fabbisogni dell’individuo che variano in funzione dell’età, del sesso, del peso corporeo, dell’attività fisica e intellettuale svolta e ancora con lo stato di salute.
La politica alimentare dovrà basarsi inoltre su una maggiore conoscenza delle caratteristiche quali-quantitative dei cibi e degli effetti che i singoli principi nutrizionali esercitano sul benessere e sulla salute dell’uomo.
E grazie alla zootecnia ogni giorno all’alba e poi al tramonto si ripete il rito millenario della mungitura. E con un sistema capillare su gomma, nel giro di poche ore, il freschissimo latte delle stalle di Puglia raggiunge i 318 caseifici della regione. E’ dalle mani sapienti di 20 casari della Provincia di Lecce artigiani che, generazione dopo generazione, viene tramandato quel sapere antico da cui ci arrivano mozzarelle e fior di latte, scamorze e burrate, caciocavallo e cacioricotta, ricotta fresca e tante altre bontà diventate simbolo dell’eccellenza gastronomica pugliese. E’ auspicabile la presenza del Dottore Agronomo e del Dottore forestale che attraverso la consulenza agli allevatori su quali strutture utilizzare, comprese le aree dedicate all’esercizio ed al libero movimento, l’alimentazione generale e degli animali durante la gestazione ed il parto, le misure igienico-sanitarie, la riproduzione e le condizioni di trasporto e macellazione e il trattamento dei reflui zootecnici. Lo scrivo a chiare lettere per fare sapere a voi che avete avuto la pazienza di leggermi sin qui che attraverso l’azione professionale competente e sapiente dei medici della terra si raggiunge l’obiettivo di fornire agli operatori del biologico un servizio innovativo concepito, elaborato e validato a livello europeo e in tal modo realizzare nel terzo millennio il progetto del Prof. Ferdinando Vallese che non vedrà la realizzazione del suo sogno di allevare equini per ottenere muli: perché il trasporto nell’occidente civilizzato, in questo periodo della vita dell’uomo sulla terra, non si fa più a dorso di mulo.
*Dottore Agronomo

Bibliografia
Agricoltura salentina del 15 marzo 1905
Michele Di Gerio bovis, equi, asini e muli nelle “res mancipi” di Gaio ed il loro ruolo economico nella Roma antica
INEA Opuscolo divulgativo Zootecnia Puglia
IL BENESSERE DEI SUINI E DELLE BOVINE DA LATTE: PUNTI CRITICI E VALUTAZIONE IN ALLEVAMENTO
Antonio Stea OltreBaSA21 Settore Agricoltura
Mario Bonsembiante Storia e prospettive del Dipartimento di Scienze Zootecniche
Salvatore Basile ALLEVAMENTO BIOLOGICO DEI BOVINI DA CARNE
Progetto TRIANET Settore agricolo della Provincia di Lecce
Ass. Allevatori di Taranto - Ass. Allevatori di Bari DOSSIER ZOOTECNIA PUGLIA 2008
Le Masserie “La Gazzetta del Mezzogiorno”