Notevole interesse suscitò, prima nel dibattito politico e quindi in sede di interpretazione storica, anche la riforma agraria varata in Italia nel 1950. Intervento di matrice riformista, in quanto volto a migliorare la produttività agricola senza sconvolgere eccessivamente l'assetto vigente piuttosto che a favorire una più equa ripartizione delle terre, la riforma fu subito oggetto di forti critiche da parte sia delle forze di sinistra che di quelle azioniste e meridionaliste.
Queste ultime, soprattutto attraverso gli scritti di Manlio Rossi Doria che pure fu un convinto sostenitore di quell'iniziativa, contestarono l'eccessivo frazionamento fondiario introdotto dalla legge e la sua sostanziale incapacità di promuovere un energico sviluppo capitalistico dell'agricoltura.
D'altro canto esponenti comunisti, come E. Sereni e R. Grieco, posero l'accento sul fatto che la legge rispondeva a un disegno politico conservatore, investiva un'area troppo limitata, imponeva ai contadini il pagamento di indennizzi troppo elevati e, attraverso il rigido controllo esercitato dagli enti di riforma, non scalfiva di fatto l'egemonia del capitale monopolistico nelle campagne.
Queste critiche furono riprese e variamente articolate anche nel dibattito. La storiografia di ispirazione marxista evidenziò in genere la contraddizione di fondo insita nella legge, quella cioè di voler promuovere nello stesso tempo la diffusione della piccola proprietà contadina e lo sviluppo della grande azienda capitalistica (C. Daneo, G. Bolaffi, A. Varotti), e la sua funzionalità come elemento determinante della strategia del consenso della Democrazia cristiana (F. Renda, R. Zangheri, R. Villari, P. Ginsborg). Tuttavia, pur denunciando alcuni evidenti limiti della legge (per esempio il fatto che fu sicuramente più incisiva l'opera di trasformazione agraria e infrastrutturale connessa alla riforma che non quella di redistribuzione fondiaria), la maggior parte degli studiosi (E. Marciani, P. Pezzino, A. Parisella, G. Massullo) è abbastanza concorde nel riconoscere sia l'entità che la qualità delle innovazioni prodotte nei comprensori di riforma da quello che C. Barberis ha definito «forse l'atto legislativo più importante dell'intero dopoguerra».
Finita la guerra con il ritorno dei combattenti, la fine delle grandi opere pubbliche e il ridimensionamento drastico delle attività boschive divenne drammatico il secolare problema dell'occupazione.
Iniziarono le lotte dei braccianti, dei mezzadri e dei contadini che spinti dalla fame arrivarono ad occupare molti terreni dei latifondisti. Le rivendicazioni, fortissime in Sila e nel Marchesato, culminarono, nel 1949, con l'eccidio di Melissa ad opera della celere del ministro dell'Interno Mario Scelba.
Mentre l'Italia si avviava verso l'industrializzazione e quindi verso un sistema economico dove la forza lavoro, impiegata nell'agricoltura, si sarebbe notevolmente ridotta, la sinistra italiana, e in modo particolare i comunisti, guidarono le lotte contadine che avrebbero permesso loro di raggiungere una posizione politica egemone nelle zone del Marchesato e in quelle interne della Sila. Posizione egemone che tuttora, in parte, possiedono.
La riforma fondiaria fu approvata in tre tempi successivi.
I primi provvedimenti, riguardanti la Calabria, furono emanati nel maggio del 1950 (Legge Sila).
Seguì la “legge stralcio” n.841 del 21 Ottobre che estese la riforma ai territori del Delta padano, della Maremma toscana, del bacino del Fucino (Abruzzo), di alcune zone della Campania e della Puglia, del bacino del Flumendosa (Sardegna) ed ad altre zone dell’ isola.
Il provvedimento, finanziato in parte dai fondi del Piano Marshall, ma anche ostacolato da settori dell’amministrazione americana, fu secondo alcuni studiosi la più importante dell’intero dopoguerra.
Nel dicembre dello stesso anno, la Regione Sicilia emanò una “legge di riforma”, relativa al territorio dell’isola e avente caratteri suoi particolari.
La Riforma Fondiaria fu affidata all'O.V.S. (Opera Valorizzazione Sila) un Ente costituito nel 1947. L'O.V.S. espropriò 75.000 ettari di terreno e ne acquistò altri fino a raggiungerne un totale di 86.000 ha.
Furono formati 11.557 poderi (terreni unitari) e 6.705 quote (terreni parcellizzati, frammentati) che vennero assegnati ad altrettanti capofamiglia. L’estensione dei poderi risultò assai piccola: in media 6 ettari con un massimo di 30 ha in alcune aziende pastorali sarde.
La Cassa per il Mezzogiorno si assunse l’onore di realizzare investimenti per i miglioramenti fondiari, nonché per l’istituzione di nuclei di assistenza tecnica, per indirizzare gli agricoltori nella gestione delle nuove aziende.
Una manovra altrettanto massiccia di trasferimento pacifico venne realizzata mediante la “legge per la piccola proprietà coltivatrice”. Questa legge, approvata nel 1949, prevedeva sovvenzioni creditizie alle famiglie contadine che si rendevano acquirenti di terra per assoggettarla a conduzione diretta.
Questa manovra portò a creare una vasta rete di aziende familiari, che, per la loro stessa piccolezza, dovevano presto rivelarsi inefficienti.
Dove fu possibile attuare trasformazioni fondiarie profonde e introdurre colture irrigue ad alto reddito, i risultati furono decisamente favorevoli; in altre parti la situazione non generò grandi cambiamenti.
I risultati conseguiti, infatti, furono assai diversi a seconda delle zone:
nelle zone costiere pianeggianti, dove l’esproprio fu accompagnato da intense opere di trasformazione, dove vennero realizzati sistemi di irrigazioni con conseguente passaggio a colture ricche, sorsero aziende agricole prosperose, è un esempio la Piana di Metaponto (Basilicata tra i fiumi Bradano e Basento);
nelle zone interne le produzioni rimasero basate su un’agricoltura arida, non eliminando le condizioni di miseria.
La Cassa per il Mezzogiorno era un Ente pubblico istituito nel 1950, con un capitale iniziale di 1000 miliardi di lire, allo scopo di programmare, finanziare ed eseguire opere straordinarie, funzionali alla formazione di un tessuto infrastrutturale che favorisse l’insediamento dell’industria e lo sviluppo dell’agricoltura e della commercializzazione dei prodotti agricoli nell’Italia meridionale. Inizialmente per la Cassa per il Mezzogiorno (la cui esatta denominazione era “Cassa per le opere straordinarie di pubblico interesse nell’Italia meridionale”) venne prevista un durata di dieci anni, ma una serie di proroghe ne prolungarono la vita fino al 1984.
Durante il periodo della sua attività la Cassa concesse contributi a fondo perduto e finanziamenti a tassi agevolati per il miglioramento e l’attuazione di iniziative pubbliche e private nei settori industriale, agricolo, artigianale, turistico. Alle aziende pubbliche e a partecipazione statale veniva contemporaneamente fatto obbligo di localizzare almeno il 60% dei nuovi investimenti nel Mezzogiorno. Altra funzione della Cassa era quella di individuare delle aree che, opportunamente attrezzate, potessero diventare i centri propulsori dello sviluppo industriale del Mezzogiorno.
I sostenitori del nuovo organismo ritenevano che un intervento pubblico fosse necessario per spezzare il cerchio dell’arretratezza nel Mezzogiorno.
Sulla sponda opposta, il Partito Comunista, fedele all’interpretazione gramsciana della questione meridionale, sosteneva che il problema del Mezzogiorno fosse anzitutto un problema di struttura politica e che un programma di opere pubbliche non avrebbero mai potuto modificare la situazione; si sarebbe dovuto invece fare leva sulla riforma agraria, per riscattare le classi contadine dalla loro antica emarginazione politica e portarle alla posizione di protagoniste dello sviluppo del sud.
Ma ben presto i contadini si trovarono, nei loro piccoli ed impervi poderi di montagna, a competere con gli agricoltori del Nord Italia e del Nord Europa. Le zappe contro dei trattori grandi come carri armati che operavano in sterminate pianure ed erano in grado in un giorno di arare estensioni di terreno inimmaginabili per i contadini silani. La povertà delle colture silane, in genere patate e grano, fece il resto.
A distanza di decenni possiamo affermare, senza timori di smentita, che nessuno dei poderi assegnati in Sila è in grado di produrre un reddito adeguato al sostentamento di una famiglia. Escludendo i pochissimi casi in cui si è riusciti ad accorpare più quote.
Non solo, ma, per ironia della sorte, la frammentazione e la polverizzazione della proprietà terriera è e sarà il più grande ostacolo alla nascita di moderne aziende agricole che, puntando su colture ad alta resa alternative a quelle tradizionali, avrebbero potuto affrontare il mercato con successo. Comunque questo elemento negativo venne poi attenuato e in alcuni casi eliminato da forme di cooperazione. Le cooperative agricole che, programmando le produzioni e centralizzando la vendita dei prodotti, daranno all’agricoltura quel carattere imprenditoriale che era venuto meno con la divisione delle terre. Si ebbe una migliore resa delle colture che da estensive diventarono intensive e quindi un migliore sfruttamento delle superfici utilizzate. Il lavoro agricolo che era stato fino ad allora poco remunerativo anche se molto pesante, cominciò a dare i suoi frutti, gratificando coloro i quali vi si dedicavano.
Dopo il 1960 i fondi destinati all’agricoltura scesero al di sotto del 50% del totale e venne fatto più largo spazio alle spese per l’industrializzazione.
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