Il fico in
Puglia: tra “paesaggi dimenticati” e nuovi ficheti Piante o
fichi secchi furono trasportati da antiche stirpi attraverso il
bacino del Mediterraneo. Pochi altri alberi da frutto possono
sopportare salsedine e arsura estiva. Veramente squisiti i suoi
frutti (ne esistono diverse varietà), freschi o essiccati
Il
fico rappresenta, da sempre, una delle colture più importanti del
panorama agricolo pugliese; tra le specie legnose che hanno retto
l’economia agricola regionale si può dire che esso è, per
importanza, al terzo posto dopo olivo e vite. La sua presenza è
certamente antica; le immigrazioni di popoli orientali, già prima
della dominazione romana, avvenute in questa terra e i rapporti
commerciali con i luoghi d’origine di quei popoli possono aver
permesso l’importazione di piante e, fra queste, anche di varietà
differenti di fichi. Come afferma Ferdinando Vallese: “Quand’anche
non avessero trasportato piante, i fichi secchi dovevano costituire
senza dubbio una delle provviste più gradite e di più facile e
lunga conservazione nei viaggi intrapresi dalle antiche stirpi che
popolarono il bacino del Mediterraneo”.
Per
tutta la regione, quindi, questa pianta ha assunto, fino a pochi
decenni fa, un valore enorme se si pensa alla possibilità di
sostentamento che da questa coltura hanno tratto famiglie di
braccianti, coloni e mezzadri; non avendo spesso possibilità di
sfruttare colture ad elevato reddito, questa gente trovava nel fico
una pianta di “salvataggio”, una coltura frugale, di rapida
entrata in produzione di facile ed autonoma trasformazione dei frutti
essiccati.
Il
radicale cambiamento dei mercati e dei consumi ed il conseguente
crollo delle coltivazioni ha posto il fico, in pochi anni, tra i
cosiddetti “frutti minori”; lo ha relegato ai margini
dell’agricoltura produttiva, sottraendolo anche alle cure e
attenzioni di cui un tempo godeva e confinandolo spesso ad un
abbandono colturale e alimentare.
Chi
oggi attraversa il territorio pugliese può vedere solo ciò che
rimane di un antico sistema colturale legato al fico, ma può
scorgere ancora, prestando attenzione, i segni di un paesaggio rurale
strettamente legato a questa specie; testimone di una coltura
tradizionale ormai in abbandono lo troviamo consociato ad olivo,
mandorlo ma anche a colture ortive, e ancora in sparuti ficheti lungo
le zone costiere del basso e alto Salento, sulle Murge, nella Piana
di Bari, nel vasto tavoliere foggiano.
Nel
Salento meridionale, oltre ai vetusti esemplari arborei ancora
presenti qua e la nelle campagne d’ogni tipo, nei giardini e nelle
residenze estive, negli orti periurbani e finanche nell’ambito
urbano dei piccoli paesi, si individuano alcuni “paesaggi nascosti”
del fico. Una vera e propria archeologia arborea e rupestre che
contraddistingue paesaggi agrari a volte interclusi tra la strada
litoranea e l’immensa fascia blu dell’orizzonte marino.
Nella
cornice costiera della Puglia meridionale, infatti, i minuscoli
fazzoletti di terra che degradano terrazzati dalla litoranea al mare
lasciano spazio e luce all’antico retaggio del fico, del fico
d’india, del gelso moro, del carrubo e di pochi altri fruttiferi
che possono sopportare salsedine e arsura estiva. Qui, infatti,
l’immenso patrimonio olivicolo, nella bellezza monotona del suo
paesaggio arboreo, trova i suoi rari punti di discontinuità
aprendosi, di tanto in tanto, sopra i terrazzamenti ben recintati
della costa. Stupendi muretti a secco disegnano il contorno di terre
strappate alla roccia con fatica sovrumana.
Sia
la costa ionica che quella adriatica offrono in questo senso tutti i
segni di un ambiente arcaico, dove il fico è ancora parte di un suo
vecchio paesaggio sia pur frammentato dalle tante costruzioni e dal
“nuovo verde” di discutibile ornamento.
Proprio
tra gli spazi lasciati vivi e immobili, tra le rocce bianche della
scogliera, si ergono costruzioni rupestri che con il fico avevano
molto da condividere.
I
furnieddhi, antichi forni di pietra a secco per la cottura dei
fichi, le mantagnate, muraglie di pietre a secco costruite per
proteggere le piante dal vento salso lungo la costa o dai venti
freddi nell’entroterra, spase, littere, cumuli di
pietrame minuto utilizzato per l’esseccazione su erbe secche o
graticci di canne. All’interno delle piccole parcelle di terreno
troviamo ficazzani, culummi bianchi e neri, maranciana
e soprattutto rizzeddha, resistente alle condizione estreme
della costa e qui padrona assoluta tra le varietà da essiccare; più
ancora dell’onnipresente dottato che da qui rifugge in cerca
di terreni migliori nell’entroterra pugliese.
Lungo
le marine ostili e calde di queste coste si svolgeva il profumato
viaggio dei fichi e delle carrube; i fichi buoni raccolti ed essicati
in agosto lasciavano il posto a quelli caduti e stramaturi che
insieme alle cornule andavano allu mbarcu; si
imbarcavano cioè per le industrie della distillazione presenti,
peraltro, anche in importanti centri leccesi come San Cesario di
Lecce.
Oggi,
in tutte le province, la coltivazione del fico è quasi sempre
associata ad altri fruttiferi o colture erbacee ma, da qualche anno,
sono stati realizzati nuovi impianti ed altri sono in fase di
realizzazione; un ritrovato interesse ha spinto alcuni imprenditori
agricoli ad investimenti coraggiosi per la produzione di fico fresco
e per la trasformazione in essiccato e composte. Anche il settore
agrituristico ha dato, negli ultimi anni, un contributo sostanziale
sia alla conservazione sia alla promozione di questo patrimonio, con
l’impianto di piccoli ficheti per il consumo interno alla propria
ristorazione. Progetti scientifici, iniziative di promozione,
l’azione dei Parchi Naturali pugliesi fanno una parte importante in
questo rilancio; all’interno di un grande progetto di agricoltura
sostenibile e creativa il fico trova il suo spazio ideale per
esistere e continuare a fare la sua parte sulle tavole di questa
terra.
Per
approfondimenti: Fichi di Puglia. Storia, paesaggi, cucina,
biodiversità e conservazione del fico in Puglia. A cura di
Francesco Minonne, Paolo Belloni, Vincenzo De Leonardis. Coop.
Ulisside Editore. Castiglione d’Otranto, 201
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