Spett.le CENTRO RICERCHE ISTRUZIONE E SVILUPPO
VIA DE GASPERI, 11
73037 – POGGIARDO
e per conoscenza
Al Presidente della Federazione Italiana
Dottori in Agraria e Forestali Dott. Agr. Luigi Rossi
http://www.fidaf.it/
Al Presidente dell’Associazione Italiana
Societa’ Scientifiche Agrarie ( AISSA) Dott. Agr. Antonio Michele Stanca
http://www.stanca.it/wp/
Al Presidente del Consiglio dell’ordine nazionale
dei dottori agronomi e dei dottori forestali Dott. Agr. Andrea Sisti
Al Segretario del Consiglio dell’ordine nazionale
dei dottori agronomi e dei dottori forestali Dott. Agr. Riccardo Pisanti
http://www.agronomi.it/
Gentilissimi,
sono venuto a conoscenza dalla stampa che nella sede di Poggiardo (Le) del vostro Centro, grazie all’accordo con l’Università San Raffaele di Roma, sarà possibile seguire lezioni di “Scienze dell’alimentazione e gastronomia”. Salutando con soddisfazione la presenza della Facoltà di Agraria nella Provincia di Lecce chiedo ogni informazione su questo Corso di Laurea.
L’Associazione dei Dottori in Scienze Agrarie e Forestali della Provincia di Lecce, il Centro Studi del Dottore Agronomo e Forestale, che ho l’onore di presiedere, rimangono a disposizione per ogni forma di collaborazione. Faccio inoltre presente che nell’Ordine dei Dottori Agronomi e Forestali della Provincia di Lecce ricopro la carica di Consigliere.
Approfitto dell’occasione per salutare con la più viva cordialità
Il Presidente dell’ADAF Lecce
Dott. Agr. Antonio Bruno
http://centrostudiagronomi.blogspot.it/
Antonio Bruno è Laureato in Scienze Agrarie Dottore Agronomo iscritto all'Ordine di Lecce - Esperto in diagnostica urbana e territoriale e studente all'Università del Salento del Corso di laurea in Viticultura ed Enologia
venerdì 27 luglio 2012
giovedì 26 luglio 2012
martedì 24 luglio 2012
“CHIROTTERI: CONOSCENZA, TUTELA E CONSERVAZIONE”
“CHIROTTERI: CONOSCENZA, TUTELA E CONSERVAZIONE”
ORGANIZZATO DALLA FEDERAZIONE SPELEOLOGICA PUGLIESE
E DAL COMITATO ESECUTIVO REGIONE PUGLIA
DELLA COMMISSIONE NAZIONALE SCUOLE DI SPELEOLOGIA DELLA SOCIETA’ SPELEOLOGICA ITALIANA
ANDRANO, 28 LUGLIO 2012
RELATORI:
FRANCESCO MINONNE (Comitato Esecutivo del Parco – Responsabile del Progetto “Azioni di conservazione dei chirotteri nelle grotte costiere e ridiffusione di Quercus macrolepis nel P.N.R. “Costa Otranto-Leuca e Bosco di Tricase”
SALVATORE INGUSCIO (Laboratorio Ipogeo Salentino di Biospeleologia Sandro Ruffo - Gruppo Speleologico Natura Esplora)
PIER PAOLO DE PASQUALE (Esperto chirotterologo)
MARCELLO VADACCA (Veterinario - incaricato dal parco della sorveglianza sanitaria del censimento chirotteri FSP)
Luciano Scarpina (Ecologo)
Emanuela Rossi (Laboratorio Ipogeo Salentino di Biospeleologia Sandro Ruffo)
DIRETTORI DEL CORSO:
VINCENZO MARTIMUCCI (Presidente FSP)
Salvatore Inguscio (Laboratorio Ipogeo Salentino di Biospeleologia Sandro Ruffo - Gruppo Speleologico Natura Esplora)
PROGRAMMA DEL CORSO:
ore 09,00 registrazione dei partecipanti - saluti responsabile del Progetto Francesco Minonne
ore 09,30 presentazione delle schede e del progetto (Martimucci)
ore 10,30 generalità sui pipistrelli (Inguscio)
ore 11,30 ecologia dei chirotteri e ambiente salentino (Scarpina)
ore 12,30 il monitoraggio dei pipistrelli (De Pasquale)
ore 15,00 protezione e conservazione (De Pasquale)
ore 16,00 aspetti sanitari (Vadacca)
ore 17,00 pipistrelli di Puglia (Inguscio)
ore 18,00 pipistrelli e didattica (Rossi)
ore 18.30 discussione e conclusione
ore 19.00 uso bat-detector
ore 20 30 cena
La quota di partecipazione è di €.30,00 e comprende la cena di fine corso.
Per informazioni e prenotazioni: presidenza@fspuglia.it
AZIONI DI CONSERVAZIONE DEI CHIROTTERI NELLE GROTTE COSTIERE E RIDIFFUSIONE DI QUERCUS MACROLEPIS NEL PARCO NATURALE REGIONALE “COSTA OTRANTO-LEUCA E BOSCO DI TRICASE”
CUP 153E10000070006 – CIG 34628176FB
martedì 17 luglio 2012
Vino salentino a prova di scienziati
Vino salentino a prova di scienziati
Nei laboratori del Cnr di Lecce si studia come rendere eccellenti le produzioni di Negroamaro e Primitivo pugliese
Il mondo della ricerca impegnato per mettere a punto vini di qualità. Nei laboratori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari del Cnr di Lecce (una palazzina nuova nel complesso di Ecotekne), da tre anni(ovvero dal 2003) un team di biologi, enologi e biotecnologi, capitanato dal ricercatore Francesco Grieco, è impegnato nella selezione di lieviti autocnoni che possano esaltare la qualità di Negroamaro e Primitivo, i due vitigni che hanno dato vita al «Rinascimento» della viticoltura salentina.
«Le caratteristiche di un vino dipendono da tre aspetti: la zona di produzione, il vitigno e la fermentazione. Sui primi due aspetti, grazie alla diffusione delle Denominazioni d’origine, c’è una grande attenzione del mercato - osserva il biochimico - per quanto riguarda la fermentazione si utilizzano i lieviti prodotti dalle multinazionali, che possono causare l’appiattimento della qualità dei vini». Da qui l’idea di selezionare lieviti autoctoni, in grado di migliorare le caratteristiche organolettiche e sensoriali del prodotto.
«Abbiamo cominciato nella vendemmia 2003 con un campionamento di uva nelle zone principali del Negroamaro: Brindisi, Copertino, Veglie, Galatina, Cutrofiano. Abbiamo sottoposto il prodotto a fermentazione naturale, con un’aggiunta minima di metabisolfito, in condizioni di massima igiene, in modo da evitare contaminazioni esterne». A collaborare con il Cnr, le azienda «Duca Guarini» di Scorrano e «Santi Dimitri» di Galatina, in cui sono state allestite delle cantine-laboratorio. «I microrganismi della fermentazione sono stati identificati, sia a livello di genere che di specie, e poi sottoposti a test fisiologici, tecnologi e sensoriali per scegliere i migliori». Di duemila lieviti individuati ne sono stati scelti tre. E’ stata poi simulata una vinificazione in piccola scala (100 chili) che ha permesso un ulteriore scarto. A contendersi la palma di lievito d’eccellenza per il Negroamaro ora sono solo due lieviti, utilizzati durante l’ultima vendemmia per una produzione su scala industriale (100 quintali). Stesso iter per il Primitivo, anche se a partire dalla vendemmia 2004, con un anno di ritardo rispetto al Negroamaro. La campionatura è stata effettuata nell’agro di Manduria, Gioia del Colle, Brindisi e Galatina. Sono stati selezionati quattro lieviti utilizzati in questa vendemmia per una vinificazione sperimentale da 100 chili.
«A febbraio potremo valutare il prodotto finale delle sperimentazioni, ma dal giudizio di alcuni assaggiatori le proprietà organolettiche e sensoriali di questi vini sono davvero eccellenti», annuncia Grieco. Attorno a questa ricerca c’è già l’interesse di alcune aziende enologiche del Nord Italia.
«L’ideale - aggiunge il ricercatore - sarebbe avere delle aziende salentine impegnate nella produzione di questi lieviti. Si potrebbe così rendere più completa la filiera vitivinicola, contribuendo alla creazione di prodotti sempre più eccellenti, con vantaggi per l’economia locale».
Dal laboratorio la ricetta per la sicurezza alimentare: Vino salentino a prova di scienziati
Nei laboratori del Cnr di Lecce si studia come rendere eccellenti le produzioni di Negroamaro e Primitivo pugliese. Dal laboratorio la ricetta per la sicurezza alimentare. Sicurezza e proprietà nutrizionali del vino in primo piano. I ricercatori dell’Istituto di scienze della produzione alimentare del Cnr di Lecce sono impegnati in un’analisi a 360 gradi della «bevanda di Bacco». L’équipe giudata dalla biologa molecolare Barbara Laddomada sta mettendo a punto la più completa carta d’identità mai realizzata del Primitivo e del Negroamaro made in Puglia, con l’analisi dettagliata del genoma dei due vitigni.
Un’indagine di grande utilità per le certificazioni varietali delle cultivar.
La squadra capitanata dalla biochimica Giovanna Giovinazzo è invece al lavoro per ciò che riguarda lo studio molecolare del vino, con la definizione della qualità e quantità di alcune molecole presenti nei rossi pugliesi, come ad esempio il resveratrolo, riconosciuto ormai dalla comunità medica internazionale come un potente antiossidante.
L’Ispa è poi concentrato sulla messa a punto di mezzi innovativi per contrastare il problema della contaminazione da ocra tossina nella filiera vinicola, in risposta alla pressante domanda di miglioramento qualitativo e di sicurezza alimentare dei vini.
Materiale scientifico e la bacheca degli oltre duemila lieviti autocnoci isolati dai ricercatori si possono consultare on-line all’indirizzo http://www.ispa.cnr.it/.
Daniela Pastore Terra Salentina n. 8 dicembre 2005
Nei laboratori del Cnr di Lecce si studia come rendere eccellenti le produzioni di Negroamaro e Primitivo pugliese
Il mondo della ricerca impegnato per mettere a punto vini di qualità. Nei laboratori dell’Istituto di scienze delle produzioni alimentari del Cnr di Lecce (una palazzina nuova nel complesso di Ecotekne), da tre anni(ovvero dal 2003) un team di biologi, enologi e biotecnologi, capitanato dal ricercatore Francesco Grieco, è impegnato nella selezione di lieviti autocnoni che possano esaltare la qualità di Negroamaro e Primitivo, i due vitigni che hanno dato vita al «Rinascimento» della viticoltura salentina.
«Le caratteristiche di un vino dipendono da tre aspetti: la zona di produzione, il vitigno e la fermentazione. Sui primi due aspetti, grazie alla diffusione delle Denominazioni d’origine, c’è una grande attenzione del mercato - osserva il biochimico - per quanto riguarda la fermentazione si utilizzano i lieviti prodotti dalle multinazionali, che possono causare l’appiattimento della qualità dei vini». Da qui l’idea di selezionare lieviti autoctoni, in grado di migliorare le caratteristiche organolettiche e sensoriali del prodotto.
«Abbiamo cominciato nella vendemmia 2003 con un campionamento di uva nelle zone principali del Negroamaro: Brindisi, Copertino, Veglie, Galatina, Cutrofiano. Abbiamo sottoposto il prodotto a fermentazione naturale, con un’aggiunta minima di metabisolfito, in condizioni di massima igiene, in modo da evitare contaminazioni esterne». A collaborare con il Cnr, le azienda «Duca Guarini» di Scorrano e «Santi Dimitri» di Galatina, in cui sono state allestite delle cantine-laboratorio. «I microrganismi della fermentazione sono stati identificati, sia a livello di genere che di specie, e poi sottoposti a test fisiologici, tecnologi e sensoriali per scegliere i migliori». Di duemila lieviti individuati ne sono stati scelti tre. E’ stata poi simulata una vinificazione in piccola scala (100 chili) che ha permesso un ulteriore scarto. A contendersi la palma di lievito d’eccellenza per il Negroamaro ora sono solo due lieviti, utilizzati durante l’ultima vendemmia per una produzione su scala industriale (100 quintali). Stesso iter per il Primitivo, anche se a partire dalla vendemmia 2004, con un anno di ritardo rispetto al Negroamaro. La campionatura è stata effettuata nell’agro di Manduria, Gioia del Colle, Brindisi e Galatina. Sono stati selezionati quattro lieviti utilizzati in questa vendemmia per una vinificazione sperimentale da 100 chili.
«A febbraio potremo valutare il prodotto finale delle sperimentazioni, ma dal giudizio di alcuni assaggiatori le proprietà organolettiche e sensoriali di questi vini sono davvero eccellenti», annuncia Grieco. Attorno a questa ricerca c’è già l’interesse di alcune aziende enologiche del Nord Italia.
«L’ideale - aggiunge il ricercatore - sarebbe avere delle aziende salentine impegnate nella produzione di questi lieviti. Si potrebbe così rendere più completa la filiera vitivinicola, contribuendo alla creazione di prodotti sempre più eccellenti, con vantaggi per l’economia locale».
Dal laboratorio la ricetta per la sicurezza alimentare: Vino salentino a prova di scienziati
Nei laboratori del Cnr di Lecce si studia come rendere eccellenti le produzioni di Negroamaro e Primitivo pugliese. Dal laboratorio la ricetta per la sicurezza alimentare. Sicurezza e proprietà nutrizionali del vino in primo piano. I ricercatori dell’Istituto di scienze della produzione alimentare del Cnr di Lecce sono impegnati in un’analisi a 360 gradi della «bevanda di Bacco». L’équipe giudata dalla biologa molecolare Barbara Laddomada sta mettendo a punto la più completa carta d’identità mai realizzata del Primitivo e del Negroamaro made in Puglia, con l’analisi dettagliata del genoma dei due vitigni.
Un’indagine di grande utilità per le certificazioni varietali delle cultivar.
La squadra capitanata dalla biochimica Giovanna Giovinazzo è invece al lavoro per ciò che riguarda lo studio molecolare del vino, con la definizione della qualità e quantità di alcune molecole presenti nei rossi pugliesi, come ad esempio il resveratrolo, riconosciuto ormai dalla comunità medica internazionale come un potente antiossidante.
L’Ispa è poi concentrato sulla messa a punto di mezzi innovativi per contrastare il problema della contaminazione da ocra tossina nella filiera vinicola, in risposta alla pressante domanda di miglioramento qualitativo e di sicurezza alimentare dei vini.
Materiale scientifico e la bacheca degli oltre duemila lieviti autocnoci isolati dai ricercatori si possono consultare on-line all’indirizzo http://www.ispa.cnr.it/.
Daniela Pastore Terra Salentina n. 8 dicembre 2005
Il fico in Puglia: tra “paesaggi dimenticati” e nuovi ficheti
Il fico in
Puglia: tra “paesaggi dimenticati” e nuovi ficheti Piante o
fichi secchi furono trasportati da antiche stirpi attraverso il
bacino del Mediterraneo. Pochi altri alberi da frutto possono
sopportare salsedine e arsura estiva. Veramente squisiti i suoi
frutti (ne esistono diverse varietà), freschi o essiccati
Il
fico rappresenta, da sempre, una delle colture più importanti del
panorama agricolo pugliese; tra le specie legnose che hanno retto
l’economia agricola regionale si può dire che esso è, per
importanza, al terzo posto dopo olivo e vite. La sua presenza è
certamente antica; le immigrazioni di popoli orientali, già prima
della dominazione romana, avvenute in questa terra e i rapporti
commerciali con i luoghi d’origine di quei popoli possono aver
permesso l’importazione di piante e, fra queste, anche di varietà
differenti di fichi. Come afferma Ferdinando Vallese: “Quand’anche
non avessero trasportato piante, i fichi secchi dovevano costituire
senza dubbio una delle provviste più gradite e di più facile e
lunga conservazione nei viaggi intrapresi dalle antiche stirpi che
popolarono il bacino del Mediterraneo”.
Per
tutta la regione, quindi, questa pianta ha assunto, fino a pochi
decenni fa, un valore enorme se si pensa alla possibilità di
sostentamento che da questa coltura hanno tratto famiglie di
braccianti, coloni e mezzadri; non avendo spesso possibilità di
sfruttare colture ad elevato reddito, questa gente trovava nel fico
una pianta di “salvataggio”, una coltura frugale, di rapida
entrata in produzione di facile ed autonoma trasformazione dei frutti
essiccati.
Il
radicale cambiamento dei mercati e dei consumi ed il conseguente
crollo delle coltivazioni ha posto il fico, in pochi anni, tra i
cosiddetti “frutti minori”; lo ha relegato ai margini
dell’agricoltura produttiva, sottraendolo anche alle cure e
attenzioni di cui un tempo godeva e confinandolo spesso ad un
abbandono colturale e alimentare.
Chi
oggi attraversa il territorio pugliese può vedere solo ciò che
rimane di un antico sistema colturale legato al fico, ma può
scorgere ancora, prestando attenzione, i segni di un paesaggio rurale
strettamente legato a questa specie; testimone di una coltura
tradizionale ormai in abbandono lo troviamo consociato ad olivo,
mandorlo ma anche a colture ortive, e ancora in sparuti ficheti lungo
le zone costiere del basso e alto Salento, sulle Murge, nella Piana
di Bari, nel vasto tavoliere foggiano.
Nel
Salento meridionale, oltre ai vetusti esemplari arborei ancora
presenti qua e la nelle campagne d’ogni tipo, nei giardini e nelle
residenze estive, negli orti periurbani e finanche nell’ambito
urbano dei piccoli paesi, si individuano alcuni “paesaggi nascosti”
del fico. Una vera e propria archeologia arborea e rupestre che
contraddistingue paesaggi agrari a volte interclusi tra la strada
litoranea e l’immensa fascia blu dell’orizzonte marino.
Nella
cornice costiera della Puglia meridionale, infatti, i minuscoli
fazzoletti di terra che degradano terrazzati dalla litoranea al mare
lasciano spazio e luce all’antico retaggio del fico, del fico
d’india, del gelso moro, del carrubo e di pochi altri fruttiferi
che possono sopportare salsedine e arsura estiva. Qui, infatti,
l’immenso patrimonio olivicolo, nella bellezza monotona del suo
paesaggio arboreo, trova i suoi rari punti di discontinuità
aprendosi, di tanto in tanto, sopra i terrazzamenti ben recintati
della costa. Stupendi muretti a secco disegnano il contorno di terre
strappate alla roccia con fatica sovrumana.
Sia
la costa ionica che quella adriatica offrono in questo senso tutti i
segni di un ambiente arcaico, dove il fico è ancora parte di un suo
vecchio paesaggio sia pur frammentato dalle tante costruzioni e dal
“nuovo verde” di discutibile ornamento.
Proprio
tra gli spazi lasciati vivi e immobili, tra le rocce bianche della
scogliera, si ergono costruzioni rupestri che con il fico avevano
molto da condividere.
I
furnieddhi, antichi forni di pietra a secco per la cottura dei
fichi, le mantagnate, muraglie di pietre a secco costruite per
proteggere le piante dal vento salso lungo la costa o dai venti
freddi nell’entroterra, spase, littere, cumuli di
pietrame minuto utilizzato per l’esseccazione su erbe secche o
graticci di canne. All’interno delle piccole parcelle di terreno
troviamo ficazzani, culummi bianchi e neri, maranciana
e soprattutto rizzeddha, resistente alle condizione estreme
della costa e qui padrona assoluta tra le varietà da essiccare; più
ancora dell’onnipresente dottato che da qui rifugge in cerca
di terreni migliori nell’entroterra pugliese.
Lungo
le marine ostili e calde di queste coste si svolgeva il profumato
viaggio dei fichi e delle carrube; i fichi buoni raccolti ed essicati
in agosto lasciavano il posto a quelli caduti e stramaturi che
insieme alle cornule andavano allu mbarcu; si
imbarcavano cioè per le industrie della distillazione presenti,
peraltro, anche in importanti centri leccesi come San Cesario di
Lecce.
Oggi,
in tutte le province, la coltivazione del fico è quasi sempre
associata ad altri fruttiferi o colture erbacee ma, da qualche anno,
sono stati realizzati nuovi impianti ed altri sono in fase di
realizzazione; un ritrovato interesse ha spinto alcuni imprenditori
agricoli ad investimenti coraggiosi per la produzione di fico fresco
e per la trasformazione in essiccato e composte. Anche il settore
agrituristico ha dato, negli ultimi anni, un contributo sostanziale
sia alla conservazione sia alla promozione di questo patrimonio, con
l’impianto di piccoli ficheti per il consumo interno alla propria
ristorazione. Progetti scientifici, iniziative di promozione,
l’azione dei Parchi Naturali pugliesi fanno una parte importante in
questo rilancio; all’interno di un grande progetto di agricoltura
sostenibile e creativa il fico trova il suo spazio ideale per
esistere e continuare a fare la sua parte sulle tavole di questa
terra.
Per
approfondimenti: Fichi di Puglia. Storia, paesaggi, cucina,
biodiversità e conservazione del fico in Puglia. A cura di
Francesco Minonne, Paolo Belloni, Vincenzo De Leonardis. Coop.
Ulisside Editore. Castiglione d’Otranto, 201
lunedì 16 luglio 2012
Sabato 14 luglio a Novoli del Salento leccese una proposta per l’agricoltura
Sabato 14 luglio a Novoli del Salento leccese una proposta per l’agricoltura
Sabato 14 luglio c’è stato il Convegno di Novoli in cui tutti abbiamo avuto il piacere di ascoltare il Prof. Antonio Michele Stanca. Domenica mattina mi è arrivato un Sms dal Presidente di Olivinopoli Angelo Amato che riporto:
“Carissimi relatori, ma direi meglio uditori, del convegno di ieri con il prof. Michele Stanca, vorrei ringraziarvi sentitamente per la vostra presenza di ieri, nonostante il caldo terribile nel teatro comunale di Novoli. Penso che, così come è accaduto a me, anche voi siate rimasti incantati dalla semplicità espressiva, dalla competenza e dalla capacità comunicativa del prof. Stanca che ci ha dato tanti stimoli positivi. Vi prego di tenere presente il consiglio datoci dal nostro carissimo amico Antonio Bruno: di realizzare presto un gruppo di lavoro comune che si faccia promotore di fatti e fucina di idee in agricoltura. Lancio all’Assessore Francesco Pacella la palla per riunire questo gruppo. Grazie ancora e un caro saluto. Angelo Amato”
L’uomo dell’orzo che ci spiega il grano
Le parole di Angelo descrivono la bellissima serata di Sabato 14 luglio 2012 a Novoli del Salento leccese. Il prof. Stanca ha spiegato la moda del grano Senatore Cappeli. L’ha fatto in maniera semplice facendoci la narrazione di un panificatore che si è recato nello scorso anno a New York, precisamente a Little Italy. Qui una persona che si interessa di distribuzione di pasta e facente parte della Comunità italiana in America gli ha chiesto del grano CAPPELLA che lui sapeva fosse italiano per fare della pasta richiesta dagli italo-americani. Il panificatore al ritorno dell’America si è rivolto al prof. Stanca che prima gli ha fatto presente che la varietà che cercava si chiamava in realtà “Senatore Cappelli” e poi gli ha trovato il seme che è stato moltiplicato e da cui si è iniziato a ricavare tanto grano senator Cappelli. Insomma oggi il grano Senatore Cappelli è di moda.
E le altre varietà tipiche del Salento e della Puglia?
E’ sotto gli occhi di tutti l’anonimato nel quale versa l’agricoltura. Ormai le merci viaggiano da una parte all’altra del mondo e le materie prime sono acquistate dalla parte del mondo dove è più conveniente il prezzo. Il prof. Stanca ci ha spiegato che il consumatore non conosce né l’origine degli alimenti, né le imprese produttrici perché c’è una mancanza di informazioni dagli agricoltori ai consumatori che è messa in atto dalla Grande Distribuzione poichè in questo modo ha una enorme forza contrattuale decidendo lei che cosa acquistare e di fatto decidendo anche che cosa noi dobbiamo mangiare. Ma il prof Stanca ci ha ricordato che il consumatore finalmente manifesta in maniera sempre più evidente la volontà di verificare la provenienza, la qualità e la sicurezza dei cibi.
Tracciabilità genetica dei prodotti agroalimentari del Salento
La necessità di poter tracciare l’origine e l’autenticità dei nostri prodotti agro-alimentari è un’esigenza emergente del consumatore e un metodo di lavoro inderogabile per il produttore che voglia finalmente difendersi da chi continuamente spaccia per prodotto salentino ciò che invece viene prodotto in chissà quale parte del mondo.
Il prof. Stranca ci ha spiegato come individuare la caratteristica del prodotto che ha la proprietà di contraddistinguerlo univocamente e lungo tutti i passaggi del processo di trasformazione, dalla materia prima al prodotto finito.
Come sappiamo ciò che contraddistingue ogni singolo essere vivente e che lo rende esclusivo è l’informazione contenuta nel suo DNA.
Per questo, il prof. Stanca propone di adottare l’analisi delle impronte del DNA (fingerprinting genetico) che è già da tempo scelta come sistema di elezione per numerose indagini, quali le analisi di paternità umane e per certificazioni di cultivar o razza originaria di appartenenza in ambito vegetale e animale. Quindi il DNA può essere utilizzato come un INVISIBILE BARCODE per l’identificazione di un prodotto infatti, anche dopo i processi di lavorazione le caratteristiche fenotipiche del prodotto non sono più riconoscibili, la natura del suo DNA non subisce trasformazioni!
Ecco perché il prof. Stanca propone di adottare per i prodotti tipici di qualità del Salento la tracciabilità genetica in maniera tale da offrire una maggiore garanzia e trasparenza al consumatore e nello stesso tempo valorizzare e tutelare le produzioni tipiche riuscendo quindi a dare un valore aggiunto al prodotto.
La proposta del prof. Stanca
E’ possibile formare nel Salento dei professionisti in grado di riconoscere in maniera inequivocabile i prodotti tipici salentini e smascherare qualunque tentativo di contraffazione. Si tratta di costituire una professionalità che faccia da tramite tra la ricerca di base e le specifiche esigenze delle singole realtà di produzione del Salento svolgendo progetti innovativi di tracciabilità genetica in grado di accertare in maniera univoca l’identità di prodotti agro-alimentari quali i cereali, l’olio e il vino.
La costituzione di un Comitato
Il prof. Stanca si è dichiarato disponibile a fare parte di un comitato che si occupi di quando sopraesposto e a questo proposito l’Assessore provinciale Francesco Pacella come dice Angelo Amato nel suo sms ha adesso in mano “la palla” per riunire il gruppo.
di Antonio Bruno
Sabato 14 luglio c’è stato il Convegno di Novoli in cui tutti abbiamo avuto il piacere di ascoltare il Prof. Antonio Michele Stanca. Domenica mattina mi è arrivato un Sms dal Presidente di Olivinopoli Angelo Amato che riporto:
“Carissimi relatori, ma direi meglio uditori, del convegno di ieri con il prof. Michele Stanca, vorrei ringraziarvi sentitamente per la vostra presenza di ieri, nonostante il caldo terribile nel teatro comunale di Novoli. Penso che, così come è accaduto a me, anche voi siate rimasti incantati dalla semplicità espressiva, dalla competenza e dalla capacità comunicativa del prof. Stanca che ci ha dato tanti stimoli positivi. Vi prego di tenere presente il consiglio datoci dal nostro carissimo amico Antonio Bruno: di realizzare presto un gruppo di lavoro comune che si faccia promotore di fatti e fucina di idee in agricoltura. Lancio all’Assessore Francesco Pacella la palla per riunire questo gruppo. Grazie ancora e un caro saluto. Angelo Amato”
L’uomo dell’orzo che ci spiega il grano
Le parole di Angelo descrivono la bellissima serata di Sabato 14 luglio 2012 a Novoli del Salento leccese. Il prof. Stanca ha spiegato la moda del grano Senatore Cappeli. L’ha fatto in maniera semplice facendoci la narrazione di un panificatore che si è recato nello scorso anno a New York, precisamente a Little Italy. Qui una persona che si interessa di distribuzione di pasta e facente parte della Comunità italiana in America gli ha chiesto del grano CAPPELLA che lui sapeva fosse italiano per fare della pasta richiesta dagli italo-americani. Il panificatore al ritorno dell’America si è rivolto al prof. Stanca che prima gli ha fatto presente che la varietà che cercava si chiamava in realtà “Senatore Cappelli” e poi gli ha trovato il seme che è stato moltiplicato e da cui si è iniziato a ricavare tanto grano senator Cappelli. Insomma oggi il grano Senatore Cappelli è di moda.
E le altre varietà tipiche del Salento e della Puglia?
E’ sotto gli occhi di tutti l’anonimato nel quale versa l’agricoltura. Ormai le merci viaggiano da una parte all’altra del mondo e le materie prime sono acquistate dalla parte del mondo dove è più conveniente il prezzo. Il prof. Stanca ci ha spiegato che il consumatore non conosce né l’origine degli alimenti, né le imprese produttrici perché c’è una mancanza di informazioni dagli agricoltori ai consumatori che è messa in atto dalla Grande Distribuzione poichè in questo modo ha una enorme forza contrattuale decidendo lei che cosa acquistare e di fatto decidendo anche che cosa noi dobbiamo mangiare. Ma il prof Stanca ci ha ricordato che il consumatore finalmente manifesta in maniera sempre più evidente la volontà di verificare la provenienza, la qualità e la sicurezza dei cibi.
Tracciabilità genetica dei prodotti agroalimentari del Salento
La necessità di poter tracciare l’origine e l’autenticità dei nostri prodotti agro-alimentari è un’esigenza emergente del consumatore e un metodo di lavoro inderogabile per il produttore che voglia finalmente difendersi da chi continuamente spaccia per prodotto salentino ciò che invece viene prodotto in chissà quale parte del mondo.
Il prof. Stranca ci ha spiegato come individuare la caratteristica del prodotto che ha la proprietà di contraddistinguerlo univocamente e lungo tutti i passaggi del processo di trasformazione, dalla materia prima al prodotto finito.
Come sappiamo ciò che contraddistingue ogni singolo essere vivente e che lo rende esclusivo è l’informazione contenuta nel suo DNA.
Per questo, il prof. Stanca propone di adottare l’analisi delle impronte del DNA (fingerprinting genetico) che è già da tempo scelta come sistema di elezione per numerose indagini, quali le analisi di paternità umane e per certificazioni di cultivar o razza originaria di appartenenza in ambito vegetale e animale. Quindi il DNA può essere utilizzato come un INVISIBILE BARCODE per l’identificazione di un prodotto infatti, anche dopo i processi di lavorazione le caratteristiche fenotipiche del prodotto non sono più riconoscibili, la natura del suo DNA non subisce trasformazioni!
Ecco perché il prof. Stanca propone di adottare per i prodotti tipici di qualità del Salento la tracciabilità genetica in maniera tale da offrire una maggiore garanzia e trasparenza al consumatore e nello stesso tempo valorizzare e tutelare le produzioni tipiche riuscendo quindi a dare un valore aggiunto al prodotto.
La proposta del prof. Stanca
E’ possibile formare nel Salento dei professionisti in grado di riconoscere in maniera inequivocabile i prodotti tipici salentini e smascherare qualunque tentativo di contraffazione. Si tratta di costituire una professionalità che faccia da tramite tra la ricerca di base e le specifiche esigenze delle singole realtà di produzione del Salento svolgendo progetti innovativi di tracciabilità genetica in grado di accertare in maniera univoca l’identità di prodotti agro-alimentari quali i cereali, l’olio e il vino.
La costituzione di un Comitato
Il prof. Stanca si è dichiarato disponibile a fare parte di un comitato che si occupi di quando sopraesposto e a questo proposito l’Assessore provinciale Francesco Pacella come dice Angelo Amato nel suo sms ha adesso in mano “la palla” per riunire il gruppo.
di Antonio Bruno
venerdì 13 luglio 2012
Coppola, vigneti ricchi di storia
Coppola, vigneti ricchi di storia
Pregiati calici di Alezio doc dal bouquet, dalla fragranza e dal colore unici
Nel 1489 la nobildonna gallipolina Laura Cuti andando sposa ad Orsino Coppola portò in dote un appezzamento di terreno coltivato a vigneto: “Li Cuti”, come era, ed è ancora oggi, denominato. In agro di Sannicola: otto ettari di eccellente produttività. Da allora, la famiglia Coppola tramanda di padre in figlio la ubertosa vigna sita nel cuore della zona di produzione della DOC di Alezio. Nel percorso, una data assai importante: quella della nascita, 19 aprile 1899, di Niccolò Coppola. Laureatosi in Ingegneria a Roma a soli 22 anni, ha dimostrato lungimiranza e capacita imprenditoriali straordinarie, oggi rappresentate dalla realtà del gruppo aziendale “Niccolò Coppola srl”. L’azienda agraria “Li Cuti” si estende oggi complessivamente su 70 ettari di buon terreno divisi in quattro corpi fondiari denominati come segue: Santo Stefano - agro di Alezio; Li Cuti - agro di Sannicola; Papa Edoardo Rodogallo - agro di Sannicola; Patitari Torre Sabea - agro di Gallipoli. La cantina è ubicata all’interno del “Centro Vacanze La Masseria”, villaggio turistico in Gallipoli nella tenuta di Torre Sabea.
LA CANTINA
Occorrono cure amorevoli e tempo affinché i vigneti, seguiti con la passione per la terra e con la professionalità che le moderne tecniche di coltivazione richiedono, producano al meglio. Della lunga fase che porta al prodotto vino, i momenti più esaltanti sono la vendemmia ed il processo di vinificazione.
La nostra cantina dispone di attrezzature modernissime: vinificatori rotativi, pressa, impianto per il controllo della temperatura di fermentazione. Ogni fase del delicato processo di maturazione del prodotto è seguita con estrema attenzione.
A dicembre sono pronti i bianchi ed i rosati. I rossi richiedono almeno due anni: sono destinati, infatti, ad un passaggio in barrique e ad una fase di affinamento in bottiglia prima della commercializzazione. Ad ogni vendemmia le cose possono cambiare in meglio o in peggio, quello che non muta è il nostro assoluto senso di onestà nel garantire la genuinità del prodotto.
Tutto concorre alla ricerca di un’offerta di qualità. Anche le immagini che appaiono sulle etichette riproducono particolari di opere del pittore Giovanni Andrea Coppola, un antenato, presenza interessante nel panorama della storia dell’arte. I vini riportano i nomi di altrettante famiglie gallipoline imparentate con i Coppola dal 1489.
Il rosso “Li Cuti”
Denominazione: Li Cuti;
classificazione: Alezio DOC rosso;
produzione per ettaro: 120 quintali;
caratteristiche del territorio:
terreno profondo, m 72 slm;
sistema di allevamento:
spalliera a cordone speronato;
epoca e sistema di raccolta:
3ª settimana di settembre
raccolta a mano;
uvaggio: negro amaro 100%;
resa in vino:70%
colore: rosso rubino intenso;
profumo: vinoso;
sapore: asciutto;
temperatura di servizio: 18°;
grado alcolico: 13,5 % vol
articolo scritto dall’azienda e tratto da Terra Salentina 2005
Pregiati calici di Alezio doc dal bouquet, dalla fragranza e dal colore unici
Nel 1489 la nobildonna gallipolina Laura Cuti andando sposa ad Orsino Coppola portò in dote un appezzamento di terreno coltivato a vigneto: “Li Cuti”, come era, ed è ancora oggi, denominato. In agro di Sannicola: otto ettari di eccellente produttività. Da allora, la famiglia Coppola tramanda di padre in figlio la ubertosa vigna sita nel cuore della zona di produzione della DOC di Alezio. Nel percorso, una data assai importante: quella della nascita, 19 aprile 1899, di Niccolò Coppola. Laureatosi in Ingegneria a Roma a soli 22 anni, ha dimostrato lungimiranza e capacita imprenditoriali straordinarie, oggi rappresentate dalla realtà del gruppo aziendale “Niccolò Coppola srl”. L’azienda agraria “Li Cuti” si estende oggi complessivamente su 70 ettari di buon terreno divisi in quattro corpi fondiari denominati come segue: Santo Stefano - agro di Alezio; Li Cuti - agro di Sannicola; Papa Edoardo Rodogallo - agro di Sannicola; Patitari Torre Sabea - agro di Gallipoli. La cantina è ubicata all’interno del “Centro Vacanze La Masseria”, villaggio turistico in Gallipoli nella tenuta di Torre Sabea.
LA CANTINA
Occorrono cure amorevoli e tempo affinché i vigneti, seguiti con la passione per la terra e con la professionalità che le moderne tecniche di coltivazione richiedono, producano al meglio. Della lunga fase che porta al prodotto vino, i momenti più esaltanti sono la vendemmia ed il processo di vinificazione.
La nostra cantina dispone di attrezzature modernissime: vinificatori rotativi, pressa, impianto per il controllo della temperatura di fermentazione. Ogni fase del delicato processo di maturazione del prodotto è seguita con estrema attenzione.
A dicembre sono pronti i bianchi ed i rosati. I rossi richiedono almeno due anni: sono destinati, infatti, ad un passaggio in barrique e ad una fase di affinamento in bottiglia prima della commercializzazione. Ad ogni vendemmia le cose possono cambiare in meglio o in peggio, quello che non muta è il nostro assoluto senso di onestà nel garantire la genuinità del prodotto.
Tutto concorre alla ricerca di un’offerta di qualità. Anche le immagini che appaiono sulle etichette riproducono particolari di opere del pittore Giovanni Andrea Coppola, un antenato, presenza interessante nel panorama della storia dell’arte. I vini riportano i nomi di altrettante famiglie gallipoline imparentate con i Coppola dal 1489.
Il rosso “Li Cuti”
Denominazione: Li Cuti;
classificazione: Alezio DOC rosso;
produzione per ettaro: 120 quintali;
caratteristiche del territorio:
terreno profondo, m 72 slm;
sistema di allevamento:
spalliera a cordone speronato;
epoca e sistema di raccolta:
3ª settimana di settembre
raccolta a mano;
uvaggio: negro amaro 100%;
resa in vino:70%
colore: rosso rubino intenso;
profumo: vinoso;
sapore: asciutto;
temperatura di servizio: 18°;
grado alcolico: 13,5 % vol
articolo scritto dall’azienda e tratto da Terra Salentina 2005
Agricoltura a zappa ed ad Aratro nel mondo antico
Agricoltura a zappa ed ad Aratro nel mondo antico
La grande distinzione di cui va tenuto conto nelle modalità delle colture agricole è quella dell’agricoltura a zappa rispetto a quella che utilizza l’aratro.
Le due tecniche non sono peraltro sempre separate, potendo convivere in certi casi sullo stesso fondo ed entro i medesimi cicli produttivi. Tuttavia, mentre l’aratro è eminentemente, se non esclusivamente, associato alla cerealicoltura, la zappa è lo strumento tipico dell’orticoltura, anche se può intervenire anche nella coltivazione dei cereali a campi aperti. Il vantaggio dell’aratro sulla zappa è di natura quantitativa, non qualitativa: accelera il lavoro, ma non lo migliora (un aratore compie a parità di tempo impiegato il lavoro di dieci zappatori). Ma, data la limitata efficacia dell’aratro antico, che rendeva possibile solo un’aratura poco profonda (intorno ai 20 cm), la zappa consentiva una migliore lavorazione del suolo, ed era comunque indispensabile per la frantumazione delle zolle, e anche per una seconda zappatura del terreno già arato. Una parte del lavoro (specie il diserbo dei seminativi) andava comunque condotto a mano. La zappa dunque poteva costituire un’alternativa non sostituibile all’aratro, là dove questo non poteva essere usato, per ragioni orografiche (terreni in forte pendio, aree montuose) o economiche (la zappa era l’ “aratro del povero” e del piccolo agricoltore); ovvero esso rappresentava una componente integrativa dell’aratro, completando l’opera di questo nella sarchiatura del terreno. La zappa era anche usata in appezzamenti troppo piccoli per sopportare l’aratura, e negli orti e nelle vigne. Mentre in Grecia la zappatura poteva essere svolta dall’agricoltore stesso e dai suoi familiari, a Roma, nelle grandi proprietà, essa era affidata alla manodopera schiavile. L’aratro a coltro (e poi a vomere) ha origini antiche, e in Italia si affermò a partire dall’età villanoviana (civiltà del ferro); in età romana, all’aratro tradizionale si affiancò l’aratro a ruote, di provenienza gallica. Di “invenzione” italica fu invece l’erpice (crates), in uso a partire dal I secolo d. C., usato sui campi seminati non a solchi, allo scopo di sminuzzare le zolle (in luogo della rottura manuale con la zappa), ricoprire la semente e sradicare le erbe infestanti. Malgrado l’efficacia inferiore rispetto all’intervento a zappa, l’erpice ebbe grande importanza economica in età imperiale, consentendo un forte risparmio di manodopera schiavile. Mentre nella cerealicoltura (specie nel caso dell’orzo) non era praticata, né praticabile un’efficace irrigazione, questa era indispensabile per l’orticoltura, col ricorso ad acque piovane immagazzinate (cisterne), ovvero a depositi naturali (pozzi), o al sollevamento di acque superficiali e al loro sversamento sui campi coltivati, a mano con la vite d’Archimede, o per mezzo di bilancieri. Là dove, come in Gallia Cisalpina, vi era larga disponibilità di acque fluviali o di risorgiva, veniva anche praticata l’inondazione regolata e permanente del prato irriguo (la futura “marcita” medievale e moderna, oggi non più in uso).
Malgrado le raccomandazioni di Catone (“prima arare, poi concimare”, stercorare), il mondo antico non conobbe concimazioni regolari tali da incrementare in maniera rilevante la produzione. La concimazione nell’agricoltura italica rimase al di sotto del 50% dei minimi dell’età moderna prima dell’introduzione dei concimi artificiali. La mancanza di stallatico veniva compensata, col sovescio (Grecia e Italia), col debbio (bruciatura delle stoppie: Gallia Cisalpina), o con spandimento di marna (Gallia). Ostacolava le possibilità di concimazione la limitata pratica dell’allevamento confinato (specie bovino), data l’assenza o l’insufficienza di piante foraggere per l’alimentazione del bestiame stabulato. Il bestiame reperiva il suo nutrimento sui pascoli liberi o nei boschi, quando non transumava durante la stagione estiva. Una limitata concimazione poteva aver luogo nei terreni a maggese, sui quali il pascolo, specie ovino, era liberamente praticato. La rotazione biennale a maggese era largamente praticata, per la cerealicoltura, sia in Grecia che in Italia, dove la pratica fu probabilmente importata dalla Grecia stessa attraverso la mediazione degli Etruschi (VIII-VI secolo). I campi a riposo andavano ripetutamente arati per impedire l’allignare delle erbe infestanti; ma era anche praticato il “maggese verde”, con avvicendamento fra i cereali e i legumi (esclusi i ceci), che ricostituivano, come agli antichi era noto, la fertilità del suolo. Il riposo a maggese poteva però risultare conveniente su superfici ampie e proprietà medio-grandi, a coltura estensiva; il piccolo proprietario, che disponesse solo di pochi ettari di terreno, non poteva concedersi il lusso di rinunciare ogni anno a metà del prodotto, con la conseguenza di un rapido esaurimento dei terreni.
Il ciclo cerealicolo si concludeva in giugno-luglio con la mietitura e la trebbiatura. La mietitura era praticata a mano, con falcetti, recidendo le piante, o alla base, o a metà stelo, o anche alla spiga; eccezionale fu l’uso della “mietitrice gallica”, una rudimentale “macchina agricola” spinta da asini o muli, che recideva le spighe raccogliendole nel contempo in un apposito cassone. Si trattò di una innovazione tecnologica in uso solo nelle regioni pianeggianti della Gallia settentrionale, a partire dall’età imperiale.
Per la trebbiatura dei cereali ci si avvaleva di un’aia (lat. area) in terra battuta, o lastricata in pietra, sulla quale avveniva, dapprima la sgranatura delle spighe tramite calpestazione animale (muli, bovini, cavalli) e battitura a mano con flagelli e correggiati; seguiva quindi la spulatura, che allontanava le paglie tramite la ventilazione naturale, o manuale, con vanni e ventilabri.
Complessivamente le rese dei seminativi rimasero molto basse e stazionarie durante tutta l’epoca greco-romana; in Grecia e Italia non vennero mai raggiunte le rese di 1:10 attestate per l’Egitto, dove il limo del Nilo rendava superflui concimazioni e maggesi; o addirittura rese di 1:12 o 1:15 attestate per la Mesopotamia. La resa media (rapporto semente : raccolto) in Grecia e Roma difficilmente superava il rapporto di 1 : 3; ciò significa che, accantonandone 1/3 per la semina successiva, il raccolto utile risultava non più del doppio del seminato. Nel migliore dei casi, veniva raggiunto a Roma un rapporto di 1 : 4. Del resto, ancora nell’alto medioevo, le rese non superavano l’1 : 3 per i cereali. Per superficie, si calcola che a Roma le rese produttive si aggirassero sui 10/1 q di cereale per ha.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
La grande distinzione di cui va tenuto conto nelle modalità delle colture agricole è quella dell’agricoltura a zappa rispetto a quella che utilizza l’aratro.
Le due tecniche non sono peraltro sempre separate, potendo convivere in certi casi sullo stesso fondo ed entro i medesimi cicli produttivi. Tuttavia, mentre l’aratro è eminentemente, se non esclusivamente, associato alla cerealicoltura, la zappa è lo strumento tipico dell’orticoltura, anche se può intervenire anche nella coltivazione dei cereali a campi aperti. Il vantaggio dell’aratro sulla zappa è di natura quantitativa, non qualitativa: accelera il lavoro, ma non lo migliora (un aratore compie a parità di tempo impiegato il lavoro di dieci zappatori). Ma, data la limitata efficacia dell’aratro antico, che rendeva possibile solo un’aratura poco profonda (intorno ai 20 cm), la zappa consentiva una migliore lavorazione del suolo, ed era comunque indispensabile per la frantumazione delle zolle, e anche per una seconda zappatura del terreno già arato. Una parte del lavoro (specie il diserbo dei seminativi) andava comunque condotto a mano. La zappa dunque poteva costituire un’alternativa non sostituibile all’aratro, là dove questo non poteva essere usato, per ragioni orografiche (terreni in forte pendio, aree montuose) o economiche (la zappa era l’ “aratro del povero” e del piccolo agricoltore); ovvero esso rappresentava una componente integrativa dell’aratro, completando l’opera di questo nella sarchiatura del terreno. La zappa era anche usata in appezzamenti troppo piccoli per sopportare l’aratura, e negli orti e nelle vigne. Mentre in Grecia la zappatura poteva essere svolta dall’agricoltore stesso e dai suoi familiari, a Roma, nelle grandi proprietà, essa era affidata alla manodopera schiavile. L’aratro a coltro (e poi a vomere) ha origini antiche, e in Italia si affermò a partire dall’età villanoviana (civiltà del ferro); in età romana, all’aratro tradizionale si affiancò l’aratro a ruote, di provenienza gallica. Di “invenzione” italica fu invece l’erpice (crates), in uso a partire dal I secolo d. C., usato sui campi seminati non a solchi, allo scopo di sminuzzare le zolle (in luogo della rottura manuale con la zappa), ricoprire la semente e sradicare le erbe infestanti. Malgrado l’efficacia inferiore rispetto all’intervento a zappa, l’erpice ebbe grande importanza economica in età imperiale, consentendo un forte risparmio di manodopera schiavile. Mentre nella cerealicoltura (specie nel caso dell’orzo) non era praticata, né praticabile un’efficace irrigazione, questa era indispensabile per l’orticoltura, col ricorso ad acque piovane immagazzinate (cisterne), ovvero a depositi naturali (pozzi), o al sollevamento di acque superficiali e al loro sversamento sui campi coltivati, a mano con la vite d’Archimede, o per mezzo di bilancieri. Là dove, come in Gallia Cisalpina, vi era larga disponibilità di acque fluviali o di risorgiva, veniva anche praticata l’inondazione regolata e permanente del prato irriguo (la futura “marcita” medievale e moderna, oggi non più in uso).
Malgrado le raccomandazioni di Catone (“prima arare, poi concimare”, stercorare), il mondo antico non conobbe concimazioni regolari tali da incrementare in maniera rilevante la produzione. La concimazione nell’agricoltura italica rimase al di sotto del 50% dei minimi dell’età moderna prima dell’introduzione dei concimi artificiali. La mancanza di stallatico veniva compensata, col sovescio (Grecia e Italia), col debbio (bruciatura delle stoppie: Gallia Cisalpina), o con spandimento di marna (Gallia). Ostacolava le possibilità di concimazione la limitata pratica dell’allevamento confinato (specie bovino), data l’assenza o l’insufficienza di piante foraggere per l’alimentazione del bestiame stabulato. Il bestiame reperiva il suo nutrimento sui pascoli liberi o nei boschi, quando non transumava durante la stagione estiva. Una limitata concimazione poteva aver luogo nei terreni a maggese, sui quali il pascolo, specie ovino, era liberamente praticato. La rotazione biennale a maggese era largamente praticata, per la cerealicoltura, sia in Grecia che in Italia, dove la pratica fu probabilmente importata dalla Grecia stessa attraverso la mediazione degli Etruschi (VIII-VI secolo). I campi a riposo andavano ripetutamente arati per impedire l’allignare delle erbe infestanti; ma era anche praticato il “maggese verde”, con avvicendamento fra i cereali e i legumi (esclusi i ceci), che ricostituivano, come agli antichi era noto, la fertilità del suolo. Il riposo a maggese poteva però risultare conveniente su superfici ampie e proprietà medio-grandi, a coltura estensiva; il piccolo proprietario, che disponesse solo di pochi ettari di terreno, non poteva concedersi il lusso di rinunciare ogni anno a metà del prodotto, con la conseguenza di un rapido esaurimento dei terreni.
Il ciclo cerealicolo si concludeva in giugno-luglio con la mietitura e la trebbiatura. La mietitura era praticata a mano, con falcetti, recidendo le piante, o alla base, o a metà stelo, o anche alla spiga; eccezionale fu l’uso della “mietitrice gallica”, una rudimentale “macchina agricola” spinta da asini o muli, che recideva le spighe raccogliendole nel contempo in un apposito cassone. Si trattò di una innovazione tecnologica in uso solo nelle regioni pianeggianti della Gallia settentrionale, a partire dall’età imperiale.
Per la trebbiatura dei cereali ci si avvaleva di un’aia (lat. area) in terra battuta, o lastricata in pietra, sulla quale avveniva, dapprima la sgranatura delle spighe tramite calpestazione animale (muli, bovini, cavalli) e battitura a mano con flagelli e correggiati; seguiva quindi la spulatura, che allontanava le paglie tramite la ventilazione naturale, o manuale, con vanni e ventilabri.
Complessivamente le rese dei seminativi rimasero molto basse e stazionarie durante tutta l’epoca greco-romana; in Grecia e Italia non vennero mai raggiunte le rese di 1:10 attestate per l’Egitto, dove il limo del Nilo rendava superflui concimazioni e maggesi; o addirittura rese di 1:12 o 1:15 attestate per la Mesopotamia. La resa media (rapporto semente : raccolto) in Grecia e Roma difficilmente superava il rapporto di 1 : 3; ciò significa che, accantonandone 1/3 per la semina successiva, il raccolto utile risultava non più del doppio del seminato. Nel migliore dei casi, veniva raggiunto a Roma un rapporto di 1 : 4. Del resto, ancora nell’alto medioevo, le rese non superavano l’1 : 3 per i cereali. Per superficie, si calcola che a Roma le rese produttive si aggirassero sui 10/1 q di cereale per ha.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
Il Signor Stefanelli e il Signor De Tommaso ovvero i due destini dell’agricoltura pugliese
Il Signor Stefanelli e il Signor De Tommaso ovvero i due destini dell’agricoltura pugliese
A Lecce il 12 luglio 2012 dalle 9 e 30 alle 13 e 30 c’è stata l’OIGA. Come dici? Che cos’è l'OIGA? http://www.oigamipaf.it/ Te lo scrivo subito l’OIGA è un organismo tecnico-politico composto da esperti designati dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, dalle Regioni, dai rappresentanti degli ordini e dei collegi professionali di tecnici agricoli, alimentari e forestali e dalle organizzazioni agricole giovanili rappresentative a livello nazionale.
Quello che è accaduto di interessante
Se vuoi comprare un azienda agricola lascia perdere quello che c'è scritto qui e vai in fondo alla pagina. Invece se vuoi sapere ciò che è accaduto di davvero interessante il 12 luglio a Lecce allora continua a leggere qui.
Il nuovo modello organizzativo dei Pascali di San Cesario di Lecce
Da bambino quando volevo una gomma da masticare dovevo andare alla bottega di alimentari di Ronzino Pascali in Via Pistilli a San Cesario di Lecce. Lui, o sua moglie, da un bancone altissimo mi guardavano e mi chiedevano “cosa posso darti bel bambino?”. Preciso che, anche se incredibile a dirsi, anch'io sono stato un bambino e a quella domanda io rispondevo: “una gomma da masticare Las Vegas”. Prendevo dalla tasca dei pantaloncini corti 10 lire e gliele porgevo, mentre lui in cambio mi dava una gomma che, se conteneva un foglietto con due dadi che avevano il numero 6, te ne davano un'altra in regalo. Adesso quella bottega con su scritto ALIMENTARI non c'è più e i figli hanno invece un Market che da lavoro a una decina di persone.
L'intervento del Signor Stefanelli
Dopo gli interventi dei tecnici dell'ISMEA, dell'OIGA e di INVITALIA un vecchietto arzillo della età presumibile di oltre 70 anni si agitava e sbuffava. Eccolo che si alza, interrompe l'Assessore Dario Stefàno, si ribella, si lamenta e subito senza por tempo in mezzo afferma che vivere con il lavoro agricolo è impossibile, che lui non ce la fa, che ha problemi su problemi. “Fermatelo per favore!!” grida qualcuno in sala, e con autorità l'Assessore Stefàno provvede all'incombenza e dopo un po' il Sig. Stefanelli si acquieta ma subito si affretta a chiedere comunque di poter intervenire dopo per sostenere la sua tesi, ovvero che se lui non riesce a “fare soldi” con l'agricoltura, nessuno potrà mai fare soldi!
L'intervento del Signor De Tommaso
Alla fine del dibattito si alza un gentile signore dall'apparente età di oltre 60 anni e racconta alla sala stracolma di giovani che lui nel 1988 era giovane ed ebbe accesso al credito per fare un'azienda e che adesso, rendendosi conto che è giunta l'ora di passare la mano al figlio, era li per il subentro di quest'ultimo alla guida dell'azienda.
Non ve la faccio lunga
A San Cesario di Lecce c'era tante botteghe di ALIMENTARI che oggi sono scomparse, quel modello organizzativo non è più adeguato ai nostri giorni. Il Sig. Pascali lo ha capito e ha passato la mano ai suoi figli che traggono reddito dall'attività sia per loro che per una decina di dipendenti. Lo stesso ha fatto e sta facendo il Sig De Tommaso.
Invece c'è il Sig. Stefanelli che non vuole mollare! Lui vuole continuare a fare agricoltura con il modello organizzativo che ha nella testa e che ha applicato per tanti anni. E che lo sta facendo FALLIRE!
A Lecce grazie a questi due interventi c'è stata una grande lezione
Lo sapete vero che ogni 12 imprenditori agricoli 11 hanno più di 70 anni. Spero che ciò che è accaduto a Lecce serva a far riflettere quegli 11 imprenditori di più di 70 anni che è giunta l'ora di passare la mano. A Lecce giovedì 12 luglio con me è venuto un amico di 35 anni. Ho dato uno sguardo nelle prime file e gli ho chiesto: “Ma quello non è tuo padre?”, mi risposto di si. A fine giornata ci siamo fermati a parlare e io mi sono permesso di dire al padre del mio amico che la proprietà (da noi si dice la “rrobba”) non poteva portarsela con lui in Paradiso, che forse era meglio per tutti che la desse adesso in gestione a suo figlio.
Sapete che cosa mi ha risposto? Mi ha guardato come se avessi detto chissà quale eresia e poi con aria di sufficienza mi ha detto “ se non riesco a farla rendere io che ho esperienza, come può farlo lui che non ne ha nessuna?”.
Un giovane senza soldi e senza esperienza può entrare in possesso di un Azienda Agricola.
L'OIGA è l'Osservatorio per l'Imprenditorialità Giovanile in Agricoltura e a Lecce insieme agli esperti dell’ISMEA http://www.ismea.it/ e di INVITALIA www.invitalia.it/ hanno spiegato in che modo un giovane senza soldi, senza esperienza in agricoltura ma con una bella idea può ottenere tutti i soldi necessari per acquistare e gestire un Azienda Agricola. Come dici? E’ impossibile? Allora già sei della fazione Stefanelli, quindi hai deciso che un giovane senza soldi e senza esperienza non può diventare un contadino!
Come fare a prendersi un bel pezzo di terra che vale sino a un MILIONE DI EURO?
E’ spiegato tutto qui: http://www.ismea.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4652 e quindi chi fosse interessato può certamente ottenere tutte le informazioni utili. Me se la lettura non fosse utile a rispondere a tutte le tue domande allora puoi passare al piano B.
Come dici? Che è il piano B? Ma quello di telefonare all’ Ufficio Relazioni
con il pubblico tel. 06.85568-319; tel. 06.85568-260; tel. 06.85568-385
Oppure di scrivere una email: urp@ismea.it .
Oppure chiama i tecnici di INVITALIA http://www.invitalia.it/site/ita/home.html e saprai tutto!
Caro giovane amico volenteroso di divenire un contadino penso di averti dato tutte le informazioni utili a farti diventare un IMPRENDITORE AGRICOLO anche se non sai nulla di agricoltura e non hai il becco di un quattrino!
di Antonio Bruno
A Lecce il 12 luglio 2012 dalle 9 e 30 alle 13 e 30 c’è stata l’OIGA. Come dici? Che cos’è l'OIGA? http://www.oigamipaf.it/ Te lo scrivo subito l’OIGA è un organismo tecnico-politico composto da esperti designati dal Ministero delle Politiche Agricole Alimentari e Forestali, dalle Regioni, dai rappresentanti degli ordini e dei collegi professionali di tecnici agricoli, alimentari e forestali e dalle organizzazioni agricole giovanili rappresentative a livello nazionale.
Quello che è accaduto di interessante
Se vuoi comprare un azienda agricola lascia perdere quello che c'è scritto qui e vai in fondo alla pagina. Invece se vuoi sapere ciò che è accaduto di davvero interessante il 12 luglio a Lecce allora continua a leggere qui.
Il nuovo modello organizzativo dei Pascali di San Cesario di Lecce
Da bambino quando volevo una gomma da masticare dovevo andare alla bottega di alimentari di Ronzino Pascali in Via Pistilli a San Cesario di Lecce. Lui, o sua moglie, da un bancone altissimo mi guardavano e mi chiedevano “cosa posso darti bel bambino?”. Preciso che, anche se incredibile a dirsi, anch'io sono stato un bambino e a quella domanda io rispondevo: “una gomma da masticare Las Vegas”. Prendevo dalla tasca dei pantaloncini corti 10 lire e gliele porgevo, mentre lui in cambio mi dava una gomma che, se conteneva un foglietto con due dadi che avevano il numero 6, te ne davano un'altra in regalo. Adesso quella bottega con su scritto ALIMENTARI non c'è più e i figli hanno invece un Market che da lavoro a una decina di persone.
L'intervento del Signor Stefanelli
Dopo gli interventi dei tecnici dell'ISMEA, dell'OIGA e di INVITALIA un vecchietto arzillo della età presumibile di oltre 70 anni si agitava e sbuffava. Eccolo che si alza, interrompe l'Assessore Dario Stefàno, si ribella, si lamenta e subito senza por tempo in mezzo afferma che vivere con il lavoro agricolo è impossibile, che lui non ce la fa, che ha problemi su problemi. “Fermatelo per favore!!” grida qualcuno in sala, e con autorità l'Assessore Stefàno provvede all'incombenza e dopo un po' il Sig. Stefanelli si acquieta ma subito si affretta a chiedere comunque di poter intervenire dopo per sostenere la sua tesi, ovvero che se lui non riesce a “fare soldi” con l'agricoltura, nessuno potrà mai fare soldi!
L'intervento del Signor De Tommaso
Alla fine del dibattito si alza un gentile signore dall'apparente età di oltre 60 anni e racconta alla sala stracolma di giovani che lui nel 1988 era giovane ed ebbe accesso al credito per fare un'azienda e che adesso, rendendosi conto che è giunta l'ora di passare la mano al figlio, era li per il subentro di quest'ultimo alla guida dell'azienda.
Non ve la faccio lunga
A San Cesario di Lecce c'era tante botteghe di ALIMENTARI che oggi sono scomparse, quel modello organizzativo non è più adeguato ai nostri giorni. Il Sig. Pascali lo ha capito e ha passato la mano ai suoi figli che traggono reddito dall'attività sia per loro che per una decina di dipendenti. Lo stesso ha fatto e sta facendo il Sig De Tommaso.
Invece c'è il Sig. Stefanelli che non vuole mollare! Lui vuole continuare a fare agricoltura con il modello organizzativo che ha nella testa e che ha applicato per tanti anni. E che lo sta facendo FALLIRE!
A Lecce grazie a questi due interventi c'è stata una grande lezione
Lo sapete vero che ogni 12 imprenditori agricoli 11 hanno più di 70 anni. Spero che ciò che è accaduto a Lecce serva a far riflettere quegli 11 imprenditori di più di 70 anni che è giunta l'ora di passare la mano. A Lecce giovedì 12 luglio con me è venuto un amico di 35 anni. Ho dato uno sguardo nelle prime file e gli ho chiesto: “Ma quello non è tuo padre?”, mi risposto di si. A fine giornata ci siamo fermati a parlare e io mi sono permesso di dire al padre del mio amico che la proprietà (da noi si dice la “rrobba”) non poteva portarsela con lui in Paradiso, che forse era meglio per tutti che la desse adesso in gestione a suo figlio.
Sapete che cosa mi ha risposto? Mi ha guardato come se avessi detto chissà quale eresia e poi con aria di sufficienza mi ha detto “ se non riesco a farla rendere io che ho esperienza, come può farlo lui che non ne ha nessuna?”.
Un giovane senza soldi e senza esperienza può entrare in possesso di un Azienda Agricola.
L'OIGA è l'Osservatorio per l'Imprenditorialità Giovanile in Agricoltura e a Lecce insieme agli esperti dell’ISMEA http://www.ismea.it/ e di INVITALIA www.invitalia.it/ hanno spiegato in che modo un giovane senza soldi, senza esperienza in agricoltura ma con una bella idea può ottenere tutti i soldi necessari per acquistare e gestire un Azienda Agricola. Come dici? E’ impossibile? Allora già sei della fazione Stefanelli, quindi hai deciso che un giovane senza soldi e senza esperienza non può diventare un contadino!
Come fare a prendersi un bel pezzo di terra che vale sino a un MILIONE DI EURO?
E’ spiegato tutto qui: http://www.ismea.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/4652 e quindi chi fosse interessato può certamente ottenere tutte le informazioni utili. Me se la lettura non fosse utile a rispondere a tutte le tue domande allora puoi passare al piano B.
Come dici? Che è il piano B? Ma quello di telefonare all’ Ufficio Relazioni
con il pubblico tel. 06.85568-319; tel. 06.85568-260; tel. 06.85568-385
Oppure di scrivere una email: urp@ismea.it .
Oppure chiama i tecnici di INVITALIA http://www.invitalia.it/site/ita/home.html e saprai tutto!
Caro giovane amico volenteroso di divenire un contadino penso di averti dato tutte le informazioni utili a farti diventare un IMPRENDITORE AGRICOLO anche se non sai nulla di agricoltura e non hai il becco di un quattrino!
di Antonio Bruno
mercoledì 11 luglio 2012
Paladini, un’impresa al profumo di anthurium e rose
Paladini, un’impresa al profumo di anthurium e rose
“I fiori di Leverano? D’inverno i migliori d’Italia. Ma occorre un marchio per promuoverli”
Anthurium, rose, astromelie, curcume, gerbere: due ettari di terreno in agro di Leverano che la famiglia Paladini ha trasformato in un vero e proprio “Eden” variopinto. A piantare i primi fiori, papà Salvatore, nel ’75. L’appezzamento era di circa 50 aree, nel circondario si stava diffondendo a macchia d’olio il florivivaismo e molti agricoltori erano pronti a scommettere su questa nuova coltura che a fronte di terreni relativamente piccoli prometteva redditi alti, a patto di essere disposti ad investire in tecnologie e qualità.
“Mio padre ha cominciato con la coltivazione dei garofani, che prima avevano un discreto mercato”, racconta Antonio Paladini, 33 anni e già una pluriennale esperienza sul campo nell’azienda paterna, di cui è parte integrante assieme al fratello Marco ed alla sorella Anna. “A partire dalla metà degli anni Ottanta abbiamo cominciato a coltivare altre specie: anthurium, rose, gerbere, gladioli, ed abbiamo ampliato l’attività con la realizzazione di nuove serre e nuovi impianti tecnologici”.
Oggi l’azienda florivivaistica Paladini si estende su due ettari divisi in due grandi blocchi costellati da serre: un’area dedicata prevalentemente alla coltivazione di anthurium, seguita dalla giovane Anna, ormai una specialista di questo fiore, ed un’area più grande dove si coltivano tutte le altre specie, affidata ad Antonio, mentre Marco si divide fra le due proprietà e dà una mano dove c’è bisogno. Dalle serre dell’azienda Paladini, attrezzate sia per la coltivazione idroponica che per quella tradizionale, si producono ogni anno circa 500mila steli di fiori. Fattore di successo: l’ottima sinergia lavorativa fra padre e figli, aiutati anche da tre operai extracomunitari, e la presenza sui campi 24 ore su 24, 12 mesi l’anno. Notevoli poi gli investimenti per attrezzare l’azienda tecnologicamente: oggi acqua e sostanze nutritive vengono somministrate alle piante attraverso un sistema ad alta tecnologia, regolato da un computer centrale. Dedizione ma anche fattori climatici e peculiarità agronomiche costituiscono un valore aggiunto dei fiori di Leverano.
“I nostri fiori sono competitivi soprattutto d’inverno, da dicembre a febbraio, periodo in cui come qualità sono una spanna al di sopra dei fiori che si producono nel resto d’Italia, Liguria e Toscana comprese. Qualità dovuta prevalentemente al clima mite. Per questo sarebbe senza dubbio utile l’idea della Coldiretti di legare il prodotto ad un marchio territoriale: ci permetterebbe di avere maggiore visibilità, di vendere meglio il nostro prodotto e di raggiungere mercati nuovi”.
Nelle serre Paladini la primavera dura 12 mesi l’anno. “La temperatura va mantenuta costante a 18 gradi. Ciò comporta costi energetici elevati soprattutto in questo periodo di caro-petrolio. Stiamo pensando di abbattere i costi puntando sui biocarburanti, utilizzando come materia prima i residui della potatura degli ulivi e della sansa. C’è però da fare un investimento iniziale, per questo ci stiamo pensando un po’ su”.
La maggior parte della produzione viene venduta ai mercati floricoli di Leverano e Taviano per poi raggiungere attraverso i grossisti i negozi della Puglia ma anche del Nord Italia. Una parte viene venduta nello spaccio aziendale. “Purtroppo la congiuntura non è positiva. Il calo generale dei consumi ha avuto ripercussioni negative soprattutto su beni non di prima necessità, come appunto i fiori. La globalizzazione ci porta a dover fronteggiare oltre alla concorrenza interna, ad esempio con Terlizzi, anche estera, con Paesi come l’Olanda. Per questo dobbiamo fare investimenti oculati, puntare su specie floricole che si vendono di più, ottimizzare la vendita in alcuni periodi dell’anno, come la settimana dei morti che è in assoluto il periodo con il picco di vendite, ma anche le altre festività: Natale, Pasqua, San Valentino in cui si vendono migliaia di rose, la festa della mamma, la festa della donna”.
Per confrontarsi con altre realtà florivivaiste Antonio partecipa spesso alle fiere nazionali. “E’ un’occasione per uscire dal territorio, vedere come producono gli altri, prendere contatti con altri mercati”.
Un lavoro che prende completamente, assicura il giovane imprenditore, non privo di momenti di batticuore. “I rischi sono tanti. Ogni gelata o calamità naturale rischia di mandare all’aria mesi di duro lavoro. A volte ci alziamo nel cuore della notte, anche d’inverno, per fare degli interventi. A fine mese non c’è la garanzia dello stipendio. Ma tutto sommato è la vita che ho sempre amato: da ragazzino appena finivo i compiti andavo nelle serre ad aiutare mio padre. E’ stato un percorso naturale. Oggi ho le mie soddisfazioni: è una attività che dà i suoi frutti ma bisogna essere disposti a dare tanto impegno, dedicarvi tante energie, fisiche e mentali ed avere sempre in mente una chiara strategia aziendale, osservando giorno dopo giorno l’andamento del mercato”.
Daniela Pastore
“I fiori di Leverano? D’inverno i migliori d’Italia. Ma occorre un marchio per promuoverli”
Anthurium, rose, astromelie, curcume, gerbere: due ettari di terreno in agro di Leverano che la famiglia Paladini ha trasformato in un vero e proprio “Eden” variopinto. A piantare i primi fiori, papà Salvatore, nel ’75. L’appezzamento era di circa 50 aree, nel circondario si stava diffondendo a macchia d’olio il florivivaismo e molti agricoltori erano pronti a scommettere su questa nuova coltura che a fronte di terreni relativamente piccoli prometteva redditi alti, a patto di essere disposti ad investire in tecnologie e qualità.
“Mio padre ha cominciato con la coltivazione dei garofani, che prima avevano un discreto mercato”, racconta Antonio Paladini, 33 anni e già una pluriennale esperienza sul campo nell’azienda paterna, di cui è parte integrante assieme al fratello Marco ed alla sorella Anna. “A partire dalla metà degli anni Ottanta abbiamo cominciato a coltivare altre specie: anthurium, rose, gerbere, gladioli, ed abbiamo ampliato l’attività con la realizzazione di nuove serre e nuovi impianti tecnologici”.
Oggi l’azienda florivivaistica Paladini si estende su due ettari divisi in due grandi blocchi costellati da serre: un’area dedicata prevalentemente alla coltivazione di anthurium, seguita dalla giovane Anna, ormai una specialista di questo fiore, ed un’area più grande dove si coltivano tutte le altre specie, affidata ad Antonio, mentre Marco si divide fra le due proprietà e dà una mano dove c’è bisogno. Dalle serre dell’azienda Paladini, attrezzate sia per la coltivazione idroponica che per quella tradizionale, si producono ogni anno circa 500mila steli di fiori. Fattore di successo: l’ottima sinergia lavorativa fra padre e figli, aiutati anche da tre operai extracomunitari, e la presenza sui campi 24 ore su 24, 12 mesi l’anno. Notevoli poi gli investimenti per attrezzare l’azienda tecnologicamente: oggi acqua e sostanze nutritive vengono somministrate alle piante attraverso un sistema ad alta tecnologia, regolato da un computer centrale. Dedizione ma anche fattori climatici e peculiarità agronomiche costituiscono un valore aggiunto dei fiori di Leverano.
“I nostri fiori sono competitivi soprattutto d’inverno, da dicembre a febbraio, periodo in cui come qualità sono una spanna al di sopra dei fiori che si producono nel resto d’Italia, Liguria e Toscana comprese. Qualità dovuta prevalentemente al clima mite. Per questo sarebbe senza dubbio utile l’idea della Coldiretti di legare il prodotto ad un marchio territoriale: ci permetterebbe di avere maggiore visibilità, di vendere meglio il nostro prodotto e di raggiungere mercati nuovi”.
Nelle serre Paladini la primavera dura 12 mesi l’anno. “La temperatura va mantenuta costante a 18 gradi. Ciò comporta costi energetici elevati soprattutto in questo periodo di caro-petrolio. Stiamo pensando di abbattere i costi puntando sui biocarburanti, utilizzando come materia prima i residui della potatura degli ulivi e della sansa. C’è però da fare un investimento iniziale, per questo ci stiamo pensando un po’ su”.
La maggior parte della produzione viene venduta ai mercati floricoli di Leverano e Taviano per poi raggiungere attraverso i grossisti i negozi della Puglia ma anche del Nord Italia. Una parte viene venduta nello spaccio aziendale. “Purtroppo la congiuntura non è positiva. Il calo generale dei consumi ha avuto ripercussioni negative soprattutto su beni non di prima necessità, come appunto i fiori. La globalizzazione ci porta a dover fronteggiare oltre alla concorrenza interna, ad esempio con Terlizzi, anche estera, con Paesi come l’Olanda. Per questo dobbiamo fare investimenti oculati, puntare su specie floricole che si vendono di più, ottimizzare la vendita in alcuni periodi dell’anno, come la settimana dei morti che è in assoluto il periodo con il picco di vendite, ma anche le altre festività: Natale, Pasqua, San Valentino in cui si vendono migliaia di rose, la festa della mamma, la festa della donna”.
Per confrontarsi con altre realtà florivivaiste Antonio partecipa spesso alle fiere nazionali. “E’ un’occasione per uscire dal territorio, vedere come producono gli altri, prendere contatti con altri mercati”.
Un lavoro che prende completamente, assicura il giovane imprenditore, non privo di momenti di batticuore. “I rischi sono tanti. Ogni gelata o calamità naturale rischia di mandare all’aria mesi di duro lavoro. A volte ci alziamo nel cuore della notte, anche d’inverno, per fare degli interventi. A fine mese non c’è la garanzia dello stipendio. Ma tutto sommato è la vita che ho sempre amato: da ragazzino appena finivo i compiti andavo nelle serre ad aiutare mio padre. E’ stato un percorso naturale. Oggi ho le mie soddisfazioni: è una attività che dà i suoi frutti ma bisogna essere disposti a dare tanto impegno, dedicarvi tante energie, fisiche e mentali ed avere sempre in mente una chiara strategia aziendale, osservando giorno dopo giorno l’andamento del mercato”.
Daniela Pastore
Ortelle: l’ex depuratore dismesso e la cava abbandonata diventano il “Centro Ambientale Canali”.
Ortelle: l’ex depuratore dismesso e la cava abbandonata diventano il “Centro Ambientale Canali”.
L’area rinata grazie ad un progetto del Parco Costiero, sarà inaugurata Venerdì 13 Luglio alla presenza di tutti i rappresentanti istituzionali
Un’ex percolatore ed una cava in abbandono, diventati “Centro Ambientale Canali”, un punto di ristoro e un polo culturale con pergolati, tavolini e tabelle esplicative: snodo e raccordo essenziale della rete dei vecchi percorsi naturalistici e di quelli recuperati alle sterpaglie. Il 13 Luglio alle ore 18:00, taglio del nastro per questo piccolo miracolo firmato Parco Costa Otranto Santa Maria di Leuca Bosco di Tricase. Nelle parole del presidente, ing. Nicola Panico, l’apprezzamento del risultato: “L'inaugurazione di questa sera coinciderà con la presentazione e la promozione di un "modello". Un modello di architettura non solo integrata con l'ambiente ma a sostegno dell'ambiente e sostenibile dallo stesso. Un momento, inoltre, molto importante per l'intera comunità del Parco che vede in Ortelle il concretizzarsi di una prima tappa di una più ampia programmazione dell'Ente che prevede una serie di investimenti della medesima importanza, in parte già in atto, per tutti i Comuni del Parco. Naturalmente vi è poi la soddisfazione mia e dei due esperti del Comitato Esecutivo, l'ing. Luisella Guerrieri ed il dott. Francesco Minonne, nel vedere il taglio del nastro della prima importante opera del Parco dopo tre intensi anni di febbrile lavoro”. A inaugurare il fiore all’occhiello dell’area costiera,che impiega in modo esemplare i fondi europei, i rappresentanti istituzionali ci saranno tutti: il Ministro per gli affari Regionali Raffaele Fitto, l’on. Luigi Lazzari, per la Regione Provincia l’Assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, il presidente della Provincia Antonio Gabellone, il presidente della commissione ambiente Francesco Bruni, oltre al Presidente del Parco Nicola Panico e al Sindaco di Ortelle Francesco M.Rausa.
Accessibilità, sostenibilità e riscatto di aree destinate al degrado, sono le parole chiave di un progetto pilota, che vuole essere anche una dichiarazione di intenti su come il comitato esecutivo del Parco intende affrontare il tema della progettazione in un’area protetta: utilizzo di energie rinnovabili, metodi di costruzione rispettosi del paesaggio e tecniche di bioedilizia coniugate all’attenzione per tutti i potenziali visitatori e fruitori del Parco.
M.Maddalena Bitonti
Ufficio Stampa Ente Parco
press.parco@libero.it
L’area rinata grazie ad un progetto del Parco Costiero, sarà inaugurata Venerdì 13 Luglio alla presenza di tutti i rappresentanti istituzionali
Un’ex percolatore ed una cava in abbandono, diventati “Centro Ambientale Canali”, un punto di ristoro e un polo culturale con pergolati, tavolini e tabelle esplicative: snodo e raccordo essenziale della rete dei vecchi percorsi naturalistici e di quelli recuperati alle sterpaglie. Il 13 Luglio alle ore 18:00, taglio del nastro per questo piccolo miracolo firmato Parco Costa Otranto Santa Maria di Leuca Bosco di Tricase. Nelle parole del presidente, ing. Nicola Panico, l’apprezzamento del risultato: “L'inaugurazione di questa sera coinciderà con la presentazione e la promozione di un "modello". Un modello di architettura non solo integrata con l'ambiente ma a sostegno dell'ambiente e sostenibile dallo stesso. Un momento, inoltre, molto importante per l'intera comunità del Parco che vede in Ortelle il concretizzarsi di una prima tappa di una più ampia programmazione dell'Ente che prevede una serie di investimenti della medesima importanza, in parte già in atto, per tutti i Comuni del Parco. Naturalmente vi è poi la soddisfazione mia e dei due esperti del Comitato Esecutivo, l'ing. Luisella Guerrieri ed il dott. Francesco Minonne, nel vedere il taglio del nastro della prima importante opera del Parco dopo tre intensi anni di febbrile lavoro”. A inaugurare il fiore all’occhiello dell’area costiera,che impiega in modo esemplare i fondi europei, i rappresentanti istituzionali ci saranno tutti: il Ministro per gli affari Regionali Raffaele Fitto, l’on. Luigi Lazzari, per la Regione Provincia l’Assessore alla qualità del territorio Angela Barbanente, il presidente della Provincia Antonio Gabellone, il presidente della commissione ambiente Francesco Bruni, oltre al Presidente del Parco Nicola Panico e al Sindaco di Ortelle Francesco M.Rausa.
Accessibilità, sostenibilità e riscatto di aree destinate al degrado, sono le parole chiave di un progetto pilota, che vuole essere anche una dichiarazione di intenti su come il comitato esecutivo del Parco intende affrontare il tema della progettazione in un’area protetta: utilizzo di energie rinnovabili, metodi di costruzione rispettosi del paesaggio e tecniche di bioedilizia coniugate all’attenzione per tutti i potenziali visitatori e fruitori del Parco.
M.Maddalena Bitonti
Ufficio Stampa Ente Parco
press.parco@libero.it
martedì 10 luglio 2012
Coltiv@ La Professione: agronomi e forestali aprono le porte sul futuro del Paese. Partendo dai giovani
Coltiv@ La Professione: agronomi e forestali aprono le porte sul futuro del Paese. Partendo dai giovani
Il presidente Conaf Sisti: «Lavorare per lo sviluppo della professione significa lavorare per lo sviluppo del Paese»
E’ la professione dell’innovazione, la professione dell’ambiente, del paesaggio, della qualità e della sicurezza alimentare,sicurezza del territorio. E’ la professione del dottore agronomo e del dottore forestale, professione regolamentata dalla Direttiva Qualifiche e rappresentata da un Consiglio Nazionale, 18 Federazioni regionali, 92 Ordini provinciali, per 22mila professionisti in tutta Italia.
Una professione sempre al passo con i tempi ed al servizio della società; una professione da coltivare. Presentata dal Conaf – oggi a Roma presso Comando dei Carabinieri delle Politiche Agricole e Alimentari - la campagna di promozione Coltiv@ La Professione, che si svilupperà “nelle quattro stagioni” (in cui saranno suddivise le tematiche), seguendo le diverse competenze professionali. Un progetto che coinvolge l’intera categoria che vuole essere sempre più vicina e di supporto ai consumatori, alle imprese alle istituzioni locali e nazionali, attraverso anche la divulgazione di materiale informativo negli enti pubblici, nelle scuole e Università, e nel web e nei social network (Twitter e Facebook).
«L’obiettivo è quello di promuovere la valorizzazione della professione di dottore agronomo e di dottore forestale - afferma il presidente Conaf Andrea Sisti -; per i giovani e per lo sviluppo del territorio: una professione fondamentale per i processi produttivi agroalimentari e per il miglioramento della qualità della vita, che si prefigge di promuovere lo sviluppo di Europa 2020. E’ un progetto che vuole stimolare la qualificazione e la formazione universitaria per avere giovani motivati, stimolati ad intraprendere la carriera professionale. Lavorare per lo sviluppo della professione significa lavorare per lo sviluppo del Paese».
«I temi al centro della campagna Coltiv@ La Professione - sottolinea Rosanna Zari, vicepresidente Conaf – sono lo Sviluppo rurale sostenibile; valutazioni ambientali e fondiarie; sicurezza e gestione del territorio; biodiversità, parchi e foreste; paesaggio; qualità e sicurezza agroalimentare; cooperazione internazionale. Tutte tematiche che riguardano ormai quotidianamente la società civile e hanno ricadute dirette sulla vita dei cittadini»
ALCUNI TEMI DI “COLTIV@ LA PROFESSIONE” – Qualità e sicurezza agroalimentare: è importante far comprendere all’opinione pubblica il ruolo fondamentale dei dottori agronomi e dottori forestali per quanto concerne la rintracciabilità e la tracciabilità degli alimenti; l’importanza di conoscere l’etichetta dei prodotti agroalimentari; e sul fronte agrofarmaci, il ruolo del professionista nell’utilizzo utilizzo sostenibile e conformità alimentare.
Sviluppo rurale e sostenibile: approfondimenti sulle attività dei dottori agronomi e dei dottori forestali per uno sviluppo sostenibile; e poi l’evoluzione dello sviluppo rurale nell’ambito della nuova Politica agricola comune; e naturalmente le proposte della categoria.
Sicurezza e gestione del territorio: fra i temi al centro dell’attenzione la prevenzione del dissesto idrogeologico e l’apporto delle competenze del dottore agronomo e del dottore forestale alla prevenzione; la gestione del territorio rurale e forestale finalizzato alla prevenzione; gli interventi di protezione civile da parte dei dottori agronomi e dottori forestali negli eventi calamitosi.
Roma, 21 giugno 2012 - C.s. n. 37
Il presidente Conaf Sisti: «Lavorare per lo sviluppo della professione significa lavorare per lo sviluppo del Paese»
E’ la professione dell’innovazione, la professione dell’ambiente, del paesaggio, della qualità e della sicurezza alimentare,sicurezza del territorio. E’ la professione del dottore agronomo e del dottore forestale, professione regolamentata dalla Direttiva Qualifiche e rappresentata da un Consiglio Nazionale, 18 Federazioni regionali, 92 Ordini provinciali, per 22mila professionisti in tutta Italia.
Una professione sempre al passo con i tempi ed al servizio della società; una professione da coltivare. Presentata dal Conaf – oggi a Roma presso Comando dei Carabinieri delle Politiche Agricole e Alimentari - la campagna di promozione Coltiv@ La Professione, che si svilupperà “nelle quattro stagioni” (in cui saranno suddivise le tematiche), seguendo le diverse competenze professionali. Un progetto che coinvolge l’intera categoria che vuole essere sempre più vicina e di supporto ai consumatori, alle imprese alle istituzioni locali e nazionali, attraverso anche la divulgazione di materiale informativo negli enti pubblici, nelle scuole e Università, e nel web e nei social network (Twitter e Facebook).
«L’obiettivo è quello di promuovere la valorizzazione della professione di dottore agronomo e di dottore forestale - afferma il presidente Conaf Andrea Sisti -; per i giovani e per lo sviluppo del territorio: una professione fondamentale per i processi produttivi agroalimentari e per il miglioramento della qualità della vita, che si prefigge di promuovere lo sviluppo di Europa 2020. E’ un progetto che vuole stimolare la qualificazione e la formazione universitaria per avere giovani motivati, stimolati ad intraprendere la carriera professionale. Lavorare per lo sviluppo della professione significa lavorare per lo sviluppo del Paese».
«I temi al centro della campagna Coltiv@ La Professione - sottolinea Rosanna Zari, vicepresidente Conaf – sono lo Sviluppo rurale sostenibile; valutazioni ambientali e fondiarie; sicurezza e gestione del territorio; biodiversità, parchi e foreste; paesaggio; qualità e sicurezza agroalimentare; cooperazione internazionale. Tutte tematiche che riguardano ormai quotidianamente la società civile e hanno ricadute dirette sulla vita dei cittadini»
ALCUNI TEMI DI “COLTIV@ LA PROFESSIONE” – Qualità e sicurezza agroalimentare: è importante far comprendere all’opinione pubblica il ruolo fondamentale dei dottori agronomi e dottori forestali per quanto concerne la rintracciabilità e la tracciabilità degli alimenti; l’importanza di conoscere l’etichetta dei prodotti agroalimentari; e sul fronte agrofarmaci, il ruolo del professionista nell’utilizzo utilizzo sostenibile e conformità alimentare.
Sviluppo rurale e sostenibile: approfondimenti sulle attività dei dottori agronomi e dei dottori forestali per uno sviluppo sostenibile; e poi l’evoluzione dello sviluppo rurale nell’ambito della nuova Politica agricola comune; e naturalmente le proposte della categoria.
Sicurezza e gestione del territorio: fra i temi al centro dell’attenzione la prevenzione del dissesto idrogeologico e l’apporto delle competenze del dottore agronomo e del dottore forestale alla prevenzione; la gestione del territorio rurale e forestale finalizzato alla prevenzione; gli interventi di protezione civile da parte dei dottori agronomi e dottori forestali negli eventi calamitosi.
Roma, 21 giugno 2012 - C.s. n. 37
Arboricoltura nel mondo antico
Arboricoltura nel mondo antico
L’arboricoltura del mondo antico comprendeva in primo luogo olivicoltura e viticoltura, e quindi la coltura degli alberi da frutto; questi ultimi spesso non richiedevano cure particolari, ma potevano allignavare e fruttificare spontaneamente.
Olivi- e viticoltura erano accomunate dalla comune esigenza di terreni asciutti, anche sassosi e montuosi, fino ai limiti d’altitudine delle colture (6-800 m per l’olivo, 800- 1000 m per la vite), e all’interno dei confini climatici, anch’essi approssimativamente coincidenti, almeno in area mediterranea. Una sistemazione particolare per gli olivi (ma anche per le viti), che consentiva di sfruttare terreni in pendio erto, era la creazione di terrazzamenti, di cui esistono significative tracce archeologiche; essi offrivano anche il vantaggio di evitare l’erosione dei pendii, e vi potevano venir praticate anche colture subarboree.
Davanti ad una fruttificazione relativamente rapida (2-3 anni dall’impianto) per la vite, l’olivo richiedeva invece almeno 15 anni per iniziare la produzione. La pianta dell’olivo raggiunge la piena capacità produttiva solo intorno ai 40 anni dall’impianto.
L’olivo era dunque per eccellenza l’albero che veniva piantato a beneficio delle generazioni a venire (ed era certo all’olivo che si riferiva Virgilio dicendo dell’agricoltore, serit arbores, quae alteri saeculo prosint). Per di più, l’olivo fruttifica in genere ad anni alterni, il che significa che solo la metà dei terreni a oliveto era ogni anno produttiva (una specie di “maggese naturale”!). La coltura dell’olivo, come le tecniche di oleificazione, fu importata a Roma dalla Grecia, attraverso la mediazione delle colonie della Magna Grecia. In Italia erano diffuse specie di olivi selvatici (oleastri), cui vennero applicate le pratiche di innesto per renderli fruttiferi.
Mentre l’olivicoltura non richiedeva un grande investimento lavorativo (era sufficiente provvedere periodicamente alla potatura), ben più impegnativa era la cura della vite, che a diversità dall’olivo fruttifica annualmente. Così come più complesse e impegnative erano le pratiche di “estrazione” del vino dall’uva che non dell’olio dalle olive. Inoltre, il vino, una volta maturato, era soggetto a facile decadimento acetico, se non attentamente preservato, mentre l’olio non era soggetto se non ad una lenta degradazione nel corso di due-tre anni, entro i quali poteva comunque essere consumato senza inconvenienti.
Sia la viticoltura che l’olivicoltura, là dove si trattasse di proprietà di una certa dimensione, operavano, in Grecia come in Italia, non solo ai fini dell’autoconsumo, ma altresì del commercio e dell’esportazione (anche su lunghe distanze). L’olivicoltura poteva essere la coltura più conveniente, o anche la sola praticabile, in certi poderi, e comunque il fabbisogno d’olio per il produttore stesso era limitato. A parte le grandi aziende, in certi casi anche aziende di minori dimensioni potevano produrre essenzialmente per il mercato (ciò vale anche per la viticoltura, sia in Grecia che in Italia).
Le piante da frutto utilizzate nell’antichità coincidevano in larga parte con quelle attuali, con l’avvertenza che per ragioni climatiche e irrigue l’Italia era assai più ricca in alberi da frutta della Grecia (dove abbondavano soprattutto i fichi). Mele, pere, uva, prugne, cotogne, melograni, sorbe, carrube, e più tardi anche pesche, ciliegie, albicocche, cedri, costituivano le disponibilità in frutta fresca, mentre le frutta secche predominanti erano mandorle e noci.
A parte il consumo fresco, molte varietà potevano venir seccate per l’inverno, come pere, mele, prugne, carrube. Importanza particolare rivestiva, specie in Grecia, il consumo di fichi, freschi ma soprattutto seccati o tostati, di alto valore calorico. A Roma i fichi secchi venivano anzi consumati non come frutta, ma come companatico.
La pianta di fico allignava spontanea, e non richiedeva cure particolari, anche se in certe aree (Cnosso, Pilo in età micenea, Palestina e Siria) vi erano vere e proprie piantagioni di fichi (come oggi in Anatolia), anche in colture associate alla vite. Al di fuori delle specie coltivate, un ricco apporto alimentare arrecava, specie in Italia, lo sfruttamento di varietà selvatiche, quali in primo luogo il castagno (zone collinari e montuose dell’Italia centro-settentrionale); e come la quercia, le cui ghiande non servivano solo al pascolo brado dei suini, ma anche, in caso di necessità o di povertà estrema, come nutrimento umano, tostate e ridotte in farina per farne “pane” e farinate.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
L’arboricoltura del mondo antico comprendeva in primo luogo olivicoltura e viticoltura, e quindi la coltura degli alberi da frutto; questi ultimi spesso non richiedevano cure particolari, ma potevano allignavare e fruttificare spontaneamente.
Olivi- e viticoltura erano accomunate dalla comune esigenza di terreni asciutti, anche sassosi e montuosi, fino ai limiti d’altitudine delle colture (6-800 m per l’olivo, 800- 1000 m per la vite), e all’interno dei confini climatici, anch’essi approssimativamente coincidenti, almeno in area mediterranea. Una sistemazione particolare per gli olivi (ma anche per le viti), che consentiva di sfruttare terreni in pendio erto, era la creazione di terrazzamenti, di cui esistono significative tracce archeologiche; essi offrivano anche il vantaggio di evitare l’erosione dei pendii, e vi potevano venir praticate anche colture subarboree.
Davanti ad una fruttificazione relativamente rapida (2-3 anni dall’impianto) per la vite, l’olivo richiedeva invece almeno 15 anni per iniziare la produzione. La pianta dell’olivo raggiunge la piena capacità produttiva solo intorno ai 40 anni dall’impianto.
L’olivo era dunque per eccellenza l’albero che veniva piantato a beneficio delle generazioni a venire (ed era certo all’olivo che si riferiva Virgilio dicendo dell’agricoltore, serit arbores, quae alteri saeculo prosint). Per di più, l’olivo fruttifica in genere ad anni alterni, il che significa che solo la metà dei terreni a oliveto era ogni anno produttiva (una specie di “maggese naturale”!). La coltura dell’olivo, come le tecniche di oleificazione, fu importata a Roma dalla Grecia, attraverso la mediazione delle colonie della Magna Grecia. In Italia erano diffuse specie di olivi selvatici (oleastri), cui vennero applicate le pratiche di innesto per renderli fruttiferi.
Mentre l’olivicoltura non richiedeva un grande investimento lavorativo (era sufficiente provvedere periodicamente alla potatura), ben più impegnativa era la cura della vite, che a diversità dall’olivo fruttifica annualmente. Così come più complesse e impegnative erano le pratiche di “estrazione” del vino dall’uva che non dell’olio dalle olive. Inoltre, il vino, una volta maturato, era soggetto a facile decadimento acetico, se non attentamente preservato, mentre l’olio non era soggetto se non ad una lenta degradazione nel corso di due-tre anni, entro i quali poteva comunque essere consumato senza inconvenienti.
Sia la viticoltura che l’olivicoltura, là dove si trattasse di proprietà di una certa dimensione, operavano, in Grecia come in Italia, non solo ai fini dell’autoconsumo, ma altresì del commercio e dell’esportazione (anche su lunghe distanze). L’olivicoltura poteva essere la coltura più conveniente, o anche la sola praticabile, in certi poderi, e comunque il fabbisogno d’olio per il produttore stesso era limitato. A parte le grandi aziende, in certi casi anche aziende di minori dimensioni potevano produrre essenzialmente per il mercato (ciò vale anche per la viticoltura, sia in Grecia che in Italia).
Le piante da frutto utilizzate nell’antichità coincidevano in larga parte con quelle attuali, con l’avvertenza che per ragioni climatiche e irrigue l’Italia era assai più ricca in alberi da frutta della Grecia (dove abbondavano soprattutto i fichi). Mele, pere, uva, prugne, cotogne, melograni, sorbe, carrube, e più tardi anche pesche, ciliegie, albicocche, cedri, costituivano le disponibilità in frutta fresca, mentre le frutta secche predominanti erano mandorle e noci.
A parte il consumo fresco, molte varietà potevano venir seccate per l’inverno, come pere, mele, prugne, carrube. Importanza particolare rivestiva, specie in Grecia, il consumo di fichi, freschi ma soprattutto seccati o tostati, di alto valore calorico. A Roma i fichi secchi venivano anzi consumati non come frutta, ma come companatico.
La pianta di fico allignava spontanea, e non richiedeva cure particolari, anche se in certe aree (Cnosso, Pilo in età micenea, Palestina e Siria) vi erano vere e proprie piantagioni di fichi (come oggi in Anatolia), anche in colture associate alla vite. Al di fuori delle specie coltivate, un ricco apporto alimentare arrecava, specie in Italia, lo sfruttamento di varietà selvatiche, quali in primo luogo il castagno (zone collinari e montuose dell’Italia centro-settentrionale); e come la quercia, le cui ghiande non servivano solo al pascolo brado dei suini, ma anche, in caso di necessità o di povertà estrema, come nutrimento umano, tostate e ridotte in farina per farne “pane” e farinate.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
Intervista a...Andrea Segrè
Intervista a...Andrea Segrè (1)
Nel suo ultimo lavoro “Economia a
colori” mette in luce come la nostra sia una società degli
sprechi, destinata all’implosione se non trova una nuova
prospettiva di sviluppo, che lei vede nel binomio ecologia-economia.
Ci può spiegare come si può concretizzare questa sua visione
dell’economia e della società? Quale percorso secondo lei potrebbe
essere intrapreso per cambiare la situazione?
La proposta che faccio è in realtà di
invertire i termini, perché ecologia ed economia stanno insieme,
hanno la stessa radice, eco-casa: l’economia è la buona gestione
della nostra casa, dove abitiamo, e l’ecologia dovrebbe essere la
buona gestione della nostra “grande casa”, cioè il pianeta.
Anche quegli economisti che considerano economia ed ecologia come un
unico insieme, i cosiddetti
economisti ecologici, in realtà non
tengono conto che abbiamo sbagliato le proporzioni. Si devono
invertire i termini: il punto di vista di noi agro-economisti, che
veniamo dall’agricoltura o dall’economia dell’agricoltura, è
quello di chi guarda le piante crescere, e ci appare dunque scontato
il fatto che la grande casa debba contenere la piccola casa. Non può
essere l’economia che contiene l’ecologia anche perché, e lo
sappiamo già da tanto tempo, le risorse naturali che ci servono per
produrre gli alimenti (la terra, l’acqua, l’energia, etc.) sono
limitate, sono scarse, non sono infinite come qualcuno ha pensato, e
dobbiamo dare loro il tempo di rigenerarsi attraverso dei cicli e,
quindi, se questo è vero, anche i consumi materiali devono essere
altrettanto limitati (è proprio una
legge fisica, il secondo principio
della termodinamica).
Tutto questo vuol dire che noi dobbiamo
considerare l’economia dentro l’ecologia e non viceversa,
dovremmo avere l’idea, appunto, di una società che ci porta verso
l’ecologia economica, dove l’economia è uno strumento, un
aggettivo, una parte; solo allora saremo in grado di capire bene
quali sono i limiti ecologici del nostro pianeta e non andremo oltre
i limiti che abbiamo già superato.
L’attuale crescita, in realtà non ci
sta facendo uscire dalla crisi, ma questa potrebbe essere proprio
un’opportunità per cambiare qualche cosa, e noi che studiamo,
l’agricoltura ne siamo ben consci. Torniamo all’economia reale,
all’economia primaria, quella vera, e facciamo capire anche che ha
un ruolo primario importante, e l’esempio più straordinario è
proprio l’agricoltura sociale.
Da anni lei si occupa del tema degli
sprechi sia dal punto di vista scientifico sia da quello dell’impegno
sociale, con iniziative importanti come il “Last Minute market”.
Come è nata quest’idea? Quali risultati ha dato finora?
L’idea è un po’ la scoperta
dell’acqua calda. Il sistema legato al mercato, alla crescita,
porta a degli sprechi a delle eccedenze, tutti ricordano ad esempio
qualche anno fa il caso delle eccedenze comunitarie: agrumi e
pomodori che venivano distrutti, per altro con gli stessi attrezzi
utilizzati per produrli. Col passare del tempo mi sono accorto,
operando sul campo, che lo spreco non è un fallimento del mercato,
cioè produci più di ciò che vendi e allora distruggi, ma che
proprio il sistema è costruito sullo spreco: la continua produzione
di beni presuppone una loro veloce sostituzione, così rapida che non
si fa in tempo neanche a consumarli perché si deve, appunto, far
andare avanti il sistema. Produrre, produrre, produrre, dunque,
acquistare, acquistare, acquistare e di conseguenza consumare,
consumare, consumare, in maniera talmente veloce che è in questa
sostituzione che si genera lo spreco:
cioè si getta via qualcosa che può ancora essere utilizzato. Alla
fine degli anni ‘90 abbiamo avviato un progetto concreto che è
diventato uno spin off, cioè una vera e propria società
dell’Università di Bologna, i cui soci sono miei ex studenti che
nel frattempo si sono laureati ed altri ricercatori, questa società
coniuga, per così dire, l’aspetto imprenditoriale a quello legato
alla solidarietà: hai una eccedenza, perché non la fai consumare a
chi ha una carenza? Creando un’economia del dono e quindi
un’economia solidale che dà a chi ne ha bisogno, però con un
obiettivo a monte, che è l’aspetto legato alla sostenibilità: gli
sprechi devono essere ridotti
perché non possono essere giustificati
neanche col fatto di essere indirizzati a persone indigenti, perché
questo sta succedendo. Lo spreco è in realtà un errore, è una
perdita, è un surplus, è una eccedenza che genera dei costi
ambientali ed economici perché questi rifiuti si devono smaltire,
tutto questo inquina e costa. Allora il recupero va bene fin quanto
ce n’è e ce ne sarà ancora molto, ma l’obiettivo deve essere
ridurre la produzione, rendere il sistema più efficiente, più
eco-efficiente. Tra le tante iniziative, abbiamo lanciato una
campagna europea contro lo spreco, per raggiungere
l’obiettivo che noi abbiamo chiamato
“spreco zero”, quando lo avremo raggiunto a quel punto ci
inventeremo qualcos’altro da fare, le idee non mancano.
Una delle iniziative di cui lei è
promotore è “Un anno contro lo spreco”, che ogni anno declina il
tema generale dello spreco dando un’attenzione particolare ai
diversi consumi: il cibo (2010), l’acqua (2011) e l’energia
(2012). Quali risultati hanno dato le campagne sul cibo e sull’acqua
degli anni precedenti? Quali risultati si aspetta per la campagna in
corso?
“Un anno contro lo spreco” è una
campagna europea, adottata dal Parlamento Europeo che ha votato, a
gennaio di quest’anno, una risoluzione sulla base di un documento
che avevamo presentato nel 2010, sullo spreco di cibo. Ci chiedevamo
cosa fare per ridurre a zero gli sprechi e allora decidemmo di
mettere in campo una serie di azioni, ma a che livello? Limitarlo a
quello nazionale sarebbe stato a dir poco riduttivo, essendo il
sistema globale che ci porta allo spreco: allora abbiamo trovato
udienza, non a caso, alla Commissione Agricoltura e Sviluppo Rurale
del Parlamento europeo che è presieduta da un italiano, Paolo De
Castro. Per nostra fortuna ha intuito subito la portata di questa
proposta, perché riguarda molto l’agricoltura: perché lo spreco
nei campi c’è ancora ed è una inefficienza che, in qualche modo,
anche gli agricoltori pagano. Quindi il primo anno abbiamo declinato
“Spreco Cibo” ed abbiamo pubblicato il libro nero dello spreco di
cibo in Italia: 16-18 milioni di tonnellate che si perdono per la
filiera agroalimentare, dal campo al nostro frigorifero e una buona
parte sta lì, nei campi. Abbiamo fatto un calcolo, anche dal punto
di vista economico, stiamo parlando di qualcosa con un valore
compreso tra gli 11 e 12 miliardi di euro, è
lo 0,7% del PIL (dati riferiti al
2010). Abbiamo trasformato queste tonnellate in nutrienti ed abbiamo
capito che si potrebbe dare da mangiare per un anno, colazione,
pranzo e cena, ad una popolazione come quella della Spagna di 44
milioni di persone. Il 2011 l’abbiamo dedicato all’acqua.
Gettando via il cibo si getta via anche l’acqua che abbiamo
utilizzato per produrre gli alimenti, ma non soltanto l’acqua di
quel momento, del cibo, di quella fettina di carne piuttosto che di
quella mela ma tutta l’acqua che si usa per produrre, trasformare,
distribuire e, anche, smaltire se non si consuma. E’ emerso un dato
piuttosto impressionante: è pari al 10% del Mare Adriatico, cioè 13
milioni di m3 , l’ acqua che, sostanzialmente, si getta via. È una
risorsa rinnovabile, ma teniamone conto perché questo poi vuol dire
che ogni alimento ha un suo costo in termini di acqua e la nostra
dieta, in qualche modo, ha un effetto anche sull’acqua e
sull’ambiente in generale.
Quest’anno la campagna è legata
all’energia (i dati non sono ancora disponibili, li stiamo
raccogliendo e li presenteremo ad ottobre come ogni anno), perché
gettare via il cibo significa sprecare il cibo stesso che potrebbe
essere mangiato, l’acqua come abbiamo detto, ma anche l’energia
che abbiamo utilizzato per produrre quel cibo. I primi dati che ho a
disposizione, e che non posso anticipare perché li dobbiamo
verificare, sono molto significativi. Nel 2013 faremo “Un anno a
spreco zero”, parleremo di tutti gli sprechi assieme: l’obiettivo
sarà quello di fare il punto della situazione dei risultati ottenuti
in termini di riduzione degli sprechi. Inoltre, il 2014 sarà, come
richiesto nella risoluzione del Parlamento Europeo, l’anno di lotta
europea contro lo spreco: allora io spero che lì, tutti i 27 i Paesi
metteranno in moto dei meccanismi per ridurre, come è scritto nella
risoluzione, del 50% gli sprechi alimentari entro il 2025.
(1) Economista, Preside della facoltà
di Agraria di Bologna
“Programma di “Tutela della Biodiversità nel Sistema di Conservazione della Natura in Puglia”
“Programma
di
“Tutela della Biodiversità nel Sistema di Conservazione della
Natura in Puglia”
Al
via le prime azioni di tutela di chirotteri e vallonee lungo il Parco
“Costa Otranto Leuca e Bosco di Tricase”
Grande
soddisfazione è stata espressa dal Presidente del Parco, ing.Nicola
Panico per
l’attuazione dell’importante progetto “Misure
– riferisce il Presidente – che riguardano l’intera comunità
del Parco. La presenza dei pipistrelli è fondamentale per gli
equilibri del nostro ecosistema, e per la preziosa azione di bonifica
ambientale che questi mammiferi svolgono. La loro sopravvivenza è
fortemente compromessa da cattive prassi come l’uso di pesticidi
nelle campagne e l’incontrollata fruizione delle grotte presenti
lungo tutta la fascia costiera del Parco. Lo stesso dicasi per la
quercia vallonea di Tricase, alla cui tutela è stato destinato metà
del budget dell’intero progetto: uno sforzo esemplare compiuto per
salvaguardare uno dei simboli del Parco. Quello finanziato –
continua Panico - è il primo di una serie di progetti ed iniziative
in direzione della conservazione delle specie faunistiche e vegetali
più vulnerabili”.
Si
concretizza infatti in questo periodo la prima parte del progetto,
approvato e finanziato dalla Regione Puglia al Parco, che prevede
assieme alla protezione dei pipistrelli,
e la salvaguardia delle grotte, loro habitat d’elezione, anche la
tutela della Quercia
Vallonea (Quercus
macrolepis): l’entità
botanica più suggestiva della flora salentina, che
figura tra le
specie per le quali a livello mondiale è riconosciuta l’esigenza
di istituire riserve per salvaguardare lo stock genetico (UNESCO
1979).
All’occhio
attento del visitatore non sfuggiranno i primi interventi. Per quanto
riguarda la prima linea, dedicata ai piccoli mammiferi, sono stati
collocati abbeveratoi
faunistici utili a
loro e a molte altre specie faunistiche; nel tempo sono spariti gli
specchi d’acqua nelle campagne, come vecchi
piluni, conche, vasche di abbeveraggio nei pascoli,
ormai dismessi o chiusi per motivi di sicurezza. Ciò ha ridotto
notevolmente le riserve d’acqua utilizzabili dagli animali
selvatici. Ma questi preziosi punti di “dissetamento”, in alcuni
casi, afferma il responsabile del Progetto, dott.
Biol. Francesco Minonne,
sono anche opere di riqualificazione pensate per la sistemazione di
punti soggetti a degrado: come quello collocato nella spiaggetta di
Porto Badisco dove si cercherà di ripristinare la sorgente
continuamente interrata da detriti e sabbia rimossa.
A
comprendere e percepire l’area naturale come bene inestimabile,
sono poi in allestimento, lungo tutto l’asse costiero, le tabelle
illustrative, con
indicazioni divulgative dell’area ed informazioni scientifiche
distintive degli habitat e delle specie che ci vivono.
Completano
l’opera, in perfetta armonia con l’ambiente, i segnalatori
dell’area protetta,
stilizzazioni in acciaio COR-TEN, di grande utilità alla percezione
consapevole del Parco. Sentinelle dei luoghi con informazioni e
numeri utili a tutti, essi sono anche un invito a soffermarsi ed
osservare il volo dei migratori, i paesaggi mozzafiato, le preziose
specie botaniche custodite nel territorio.
In
ultimo si possono osservare ad Otranto, presso le grotte della monaca
e le fonti di Carlo Magno, e il cunicolo del Diavolo a Badisco, le
nuove cancellate in
acciaio, adeguatamente
studiate per favorire il passaggio dei chirotteri , idonee anche per
mettere in sicurezza siti pericolosi.
Nota
di particolare rilevo è che i massi utilizzati per la realizzazione
degli abbeveratoi sono stati prelevati lungo la litoranea da siti di
accumulo con scarichi abusivi di inerti; la ditta realizzatrice delle
opere si è impegnata in un lavoro di pulizia e rimozione dei rifiuti
nei punti di installazione dei segnalatori che diventano così anche
riferimenti simbolici di legalità e cura del luoghi.
Il
Progetto ha avviato, inoltre, un piano di monitoraggio sia per i
chirotteri che per le vallonee che permette lo studio sullo stato di
salute e di diffusione di entrambe le popolazioni nell’Area
protetta.
M.Maddalena
Bitonti
Ufficio
Stampa Ente Parco
lunedì 9 luglio 2012
Cantine del Matino, un secolo di vini e passione - Dal 1899 ad oggi, una cooperativa di produttori impegnati nella sfida della qualità
Cantine del Matino, un secolo di vini e passione - Dal 1899 ad oggi, una cooperativa di produttori impegnati nella sfida della qualità
Cantine del Matino Cooperativa tra Produttori Agricoli di Matino Via Vittorio Veneto, 44 73046 MATINO (LE) Tel:0833 506704 Fax:0833 507049 info@cantinedelmatino.com
La cooperativa tra produttori agricoli di Matino ha festeggiato i suoi primi cento anni di vita nel 1999. È infatti tra le più antiche cantine pugliesi, nata nel 1899, questa azienda si chiamava Consorzio agrario cooperativo di Matino, è nata in un momento storico, in cui in Italia si parlava di conquiste di spazi coloniali. Teoricamente, quindi, c’era una certa propensione all’espansione, gli italiani pensavano in grande. E infatti non sorse solo per fare vino, ma come un complesso di attività tendente alla promozione dell’economia di Matino. Affianco al settore vinicolo sorse un frantoio oleario, un impianto di trebbiatura tra i più moderni del tempo. E anche la lavorazione del tabacco orientale e poi, visto che il mondo agricolo ha sempre avuto il problema della liquidità, il Consorzio si preoccupava di fare una politica di prestiti e rimborsi a tasso agevolato che oggi potremmo definire banca.
Il credito agrario all’inizio del secolo fu realizzato con grande successo da questa piccola entità imprenditoriale collettiva del sud del Salento. Una data importante per la storia di questa azienda, e non solo, è il 1940, quando una legge fascista impose che tutti i consorzi italiani confluissero in un’unica confederazione nazionale. Questo significava la scomparsa della piccola ma efficiente realtà matinese. In una notte il direttore del Consorzio Giorgio Primiceri, scorporò le attività del credito dal resto della cooperativa e la costituì con statuto autonomo con la denominazione “Banca Agricola di Matino” (la futura BPP).
Nel 1964 lo stabilimento fu totalmente rifatto, ampliato, dotato di nuove tecnologie. Fu aggiunto ai tre, un quarto capannone, in un periodo dove si producevano quantitativi notevoli di vino grezzo destinato ai mercati “nobili” dalla Toscana al Piemonte fino alla Francia, dove andava ad arricchire i vari Chateau d’alto borgo.
La situazione per i produttori di vino grezzo divento sempre più difficile a causa della concorrenza, dell’aumento dei costi di produzione ed energetica, ed i dirigenti di allora incominciarono a pensare sempre più all’imbottigliamento come rimedio per uscire dai rischi costanti della crisi. Per invogliare e qualificare l’imbottigliato prodotto in questa azienda nel 1971 venne riconosciuta la denominazione d’origine controllata (D.O.C.) al vino Matino, la prima riconosciuta in Puglia, e potenziato l’impianto d’imbottigliamento.
La riduzione degli ettari vitati invogliata dalle politiche agricole dei governi che si sono avvicendati negli ultimi 20 anni, hanno portato ad una riduzione drastica della produzione vinicola, mettendo a dura prova tutte le strutture produttive del Salento. Nel novembre del 1998, l’amministrazione della cooperativa è affidata ad un nuovo consiglio d’amministrazione rappresentato dall’ingegnere Ettore De Luca, che ha attivato un processo di ammodernamento e di rilancio commerciale mirante ad attenuare gli effetti della crisi del settore vitivinicolo.
La cantina è in continua evoluzione, tesa a migliorare la qualità, offrire una vasta gamma di prodotti (18), utili a soddisfare le esigenze dei vari settori commerciali faticosamente conquistati, grazie al lavoro dei collaboratori commerciali.
“La vendemmia di quest’anno (si riferisce all’anno 2005 n.d.r.) è stata abbondante e di qualità buona che ci permetterà di esordire con il nostro novello Rosso D’Autunno 2005 un prodotto che può essere il biglietto da visita per una produzione 2005 che si presenta eccellente”, assicurano dalla cantina.
“Rosso d’autunno” elisir di lunga vita
Nome: “Rosso d’autunno”
Regione: Puglia
Indicazione: Salento i.g.t. novello
Colore: rosso rubino con riflessi granata
Profumo: macerato, caratteristico fruttato
Sapore: armonico, morbido, con vena di dolce
Zona di produzione: Salento
Microclima: mediterraneo
Natura del terreno: argilloso - calcareo
Vitigni: primitivo 50% - negroamaro 50%
Sistema di allevamento: alberello
Sistemi di potatura: a cornetti
Sistema d’impianto: 4000 ceppi per ha
Produzione media per pianta: 2 kg
Esposizione dei vitigni: sud-est
Eta’ del vigneto: 40 anni
Epoca di raccolta: fine agosto
Vinificazione: macerazione carbonica
Affinamento: acciaio a bassa temperatura
Abbinamento gastronomico: tutto pasto
Temperatura di servizio: 18°C
Giudizio finale: ottimo
Cantine del Matino Cooperativa tra Produttori Agricoli di Matino Via Vittorio Veneto, 44 73046 MATINO (LE) Tel:0833 506704 Fax:0833 507049 info@cantinedelmatino.com
La cooperativa tra produttori agricoli di Matino ha festeggiato i suoi primi cento anni di vita nel 1999. È infatti tra le più antiche cantine pugliesi, nata nel 1899, questa azienda si chiamava Consorzio agrario cooperativo di Matino, è nata in un momento storico, in cui in Italia si parlava di conquiste di spazi coloniali. Teoricamente, quindi, c’era una certa propensione all’espansione, gli italiani pensavano in grande. E infatti non sorse solo per fare vino, ma come un complesso di attività tendente alla promozione dell’economia di Matino. Affianco al settore vinicolo sorse un frantoio oleario, un impianto di trebbiatura tra i più moderni del tempo. E anche la lavorazione del tabacco orientale e poi, visto che il mondo agricolo ha sempre avuto il problema della liquidità, il Consorzio si preoccupava di fare una politica di prestiti e rimborsi a tasso agevolato che oggi potremmo definire banca.
Il credito agrario all’inizio del secolo fu realizzato con grande successo da questa piccola entità imprenditoriale collettiva del sud del Salento. Una data importante per la storia di questa azienda, e non solo, è il 1940, quando una legge fascista impose che tutti i consorzi italiani confluissero in un’unica confederazione nazionale. Questo significava la scomparsa della piccola ma efficiente realtà matinese. In una notte il direttore del Consorzio Giorgio Primiceri, scorporò le attività del credito dal resto della cooperativa e la costituì con statuto autonomo con la denominazione “Banca Agricola di Matino” (la futura BPP).
Nel 1964 lo stabilimento fu totalmente rifatto, ampliato, dotato di nuove tecnologie. Fu aggiunto ai tre, un quarto capannone, in un periodo dove si producevano quantitativi notevoli di vino grezzo destinato ai mercati “nobili” dalla Toscana al Piemonte fino alla Francia, dove andava ad arricchire i vari Chateau d’alto borgo.
La situazione per i produttori di vino grezzo divento sempre più difficile a causa della concorrenza, dell’aumento dei costi di produzione ed energetica, ed i dirigenti di allora incominciarono a pensare sempre più all’imbottigliamento come rimedio per uscire dai rischi costanti della crisi. Per invogliare e qualificare l’imbottigliato prodotto in questa azienda nel 1971 venne riconosciuta la denominazione d’origine controllata (D.O.C.) al vino Matino, la prima riconosciuta in Puglia, e potenziato l’impianto d’imbottigliamento.
La riduzione degli ettari vitati invogliata dalle politiche agricole dei governi che si sono avvicendati negli ultimi 20 anni, hanno portato ad una riduzione drastica della produzione vinicola, mettendo a dura prova tutte le strutture produttive del Salento. Nel novembre del 1998, l’amministrazione della cooperativa è affidata ad un nuovo consiglio d’amministrazione rappresentato dall’ingegnere Ettore De Luca, che ha attivato un processo di ammodernamento e di rilancio commerciale mirante ad attenuare gli effetti della crisi del settore vitivinicolo.
La cantina è in continua evoluzione, tesa a migliorare la qualità, offrire una vasta gamma di prodotti (18), utili a soddisfare le esigenze dei vari settori commerciali faticosamente conquistati, grazie al lavoro dei collaboratori commerciali.
“La vendemmia di quest’anno (si riferisce all’anno 2005 n.d.r.) è stata abbondante e di qualità buona che ci permetterà di esordire con il nostro novello Rosso D’Autunno 2005 un prodotto che può essere il biglietto da visita per una produzione 2005 che si presenta eccellente”, assicurano dalla cantina.
“Rosso d’autunno” elisir di lunga vita
Nome: “Rosso d’autunno”
Regione: Puglia
Indicazione: Salento i.g.t. novello
Colore: rosso rubino con riflessi granata
Profumo: macerato, caratteristico fruttato
Sapore: armonico, morbido, con vena di dolce
Zona di produzione: Salento
Microclima: mediterraneo
Natura del terreno: argilloso - calcareo
Vitigni: primitivo 50% - negroamaro 50%
Sistema di allevamento: alberello
Sistemi di potatura: a cornetti
Sistema d’impianto: 4000 ceppi per ha
Produzione media per pianta: 2 kg
Esposizione dei vitigni: sud-est
Eta’ del vigneto: 40 anni
Epoca di raccolta: fine agosto
Vinificazione: macerazione carbonica
Affinamento: acciaio a bassa temperatura
Abbinamento gastronomico: tutto pasto
Temperatura di servizio: 18°C
Giudizio finale: ottimo
ABBEVILLEA CHRYSOPHYLLA, Mirtacee.
ABBEVILLEA CHRYSOPHYLLA, Mirtacee.
Brasile (Stato di Minas Geraes, presso Pitangui), «guabiroba do mate».
Albero di circa 10 metri : rami rigati, giallastri: ramoscelli lievemente pubescenti : foglie cartacee, ovato-oblunghe, acuminate, acute alla base, con margine reflesso, crenulato, verdi-gialle di sopra e lucide, pallide di sotto, 5-10 per 2 -2,5 cm.: fiori su peduncoli sottili, solitari, laterali : frutto globoso, 2,5 cm. di diametro, — Propagazione. — Semi - talee - margotta.
Brasile (Stato di Minas Geraes, presso Pitangui), «guabiroba do mate».
Albero di circa 10 metri : rami rigati, giallastri: ramoscelli lievemente pubescenti : foglie cartacee, ovato-oblunghe, acuminate, acute alla base, con margine reflesso, crenulato, verdi-gialle di sopra e lucide, pallide di sotto, 5-10 per 2 -2,5 cm.: fiori su peduncoli sottili, solitari, laterali : frutto globoso, 2,5 cm. di diametro, — Propagazione. — Semi - talee - margotta.
Orticoltura nel mondo antico
Orticoltura nel mondo antico
Largamente praticata nel mondo antico, l’orticoltura si distingue sotto vari aspetti dalle coltivazioni cerealicole. In primo luogo, per le più limitate superfici lavorate, che in genere formavano le dipendenze viciniori dell’azienda agricola; quindi, per la maggiore richiesta di irrigazione (con acque fluenti o di pozzo/cisterna) e di lavorazione, a zappa e a mano, e non ad aratro (zappatura, diserbo); ancora, per la necessità di una proficua concimazione (con cenere, sterco d’asino, guano colombino). Infine, le coltivazioni orticole non richiedevano riposi biennali (maggese), bastando a
mantenere la fertilità del suolo l’alternanza delle colture sulle singole parcelle. Gli antichi del resto conoscevano e sfruttavano le potenzialità fertilizzatrici delle leguminose, che consentivano una rotazione delle colture anche su campi aperti. Le specie messe a coltura vanno distinte in tre grandi categorie: (a) leguminose, (b) ortaggi (verdure); (c) radici e tuberi.
(a) leguminose
Quanto alle leguminose (lat. legumina), il cui apporto nutritivo era di grande rilievo, le specie coltivate nell’antichità erano: ceci, fave, lenticchie, piselli, lupini, oltre ad un’unica specie di fagioli, i fagioli dell’occhio (Vigna unguicolata). Ceci e fave, oltre che nell’orto, potevano venir coltivati in campi aperti, dato il loro larghissimo impiego (in Italia queste leguminose potevano essere lavorate con aratura a traino bovino); i lupini, diffusissimi, e oggi noti forse solo dalle pagine dei Malavoglia, rappresentavano un alimento “povero” e scarsamente apprezzato.
(b) ortaggi
Gli ortaggi verdi (lat. olera) comprendevano un ricco assortimento di specie, fra cui si segnalavano le verdure a foglia (lattughe, cavoli, broccoli, bietole), a stelo (asparagi, sedani, cardi) e a frutto (cetrioli, zucche).
© radici e tuberi
Fra le radici e tuberi, si aveva un largo uso di cipolle, porri, aglio, pastinache, rafani, rape (particolarmente apprezzate a Roma), ravanelli. Si deve naturalmente tenere presente che non esiste una perfetta sovrapponibilità fra le specie coltivate nel mondo antico e quelle in uso attualmente, dati i processi di differenziazione e selezione nel frattempo intervenuti, che possono aver reso le essenze attuali anche molto diverse da quelle dell’antichità.
Accanto alla coltivazione orticola, varietà selvatiche delle specie coltivate (bulbi come gli odierni lampasciuni), e specie non coltivate (asfodelo, scorzonera), erano correntemente oggetto di raccolta.
Presso le classi più povere e i più piccoli proprietari, l’orticoltura rimpiazzava le colture ceralicole: un appezzamento di 1/2 ettari non poteva infatti sostenere l’allevamento di un bove per l’aratura. I legumi costituivano d’altronde una risorsa di grande valore proteico e calorico, tale da rimpiazzare almeno in parte i cereali. Il vantaggio dell’orto rispetto al campo era anche quello dell’immediata disponibilità, distribuita lungo il decorso delle stagioni, di prodotti che non richiedevano lavorazioni
intermedie quali trebbiatura, macinatura per i cereali, ovvero premitura, torchiatura ecc. per l’olio, ed erano quindi pronti al consumo immediato. I prodotti dell’orto esigevano al massimo una semplice bollitura o tostatura, e nel caso di insalate, cipolle e cetrioli, neppure questa.
Nel territorio dell’Attica gli orti costituivano, costretti com’erano entro limiti imposti dalla disponibilità d’acqua per l’irrigazione, una caratteristica rilevante del paesaggio suburbano. A Roma, a partire dal I secolo d. C., si estese intorno all’urbe, per un raggio di alcuni km, una “cintura” ortofrutticola formata da piccoli appezzamenti di circa 1 ha, che rifornivano la capitale di legumi, cavoli, lattughe, rape – vegetali che costituivano il normale companatico della plebe.
Oddone Longo, 9 ottobre 2003 - In occasione del 250° Anniversario dei Georgofili
Iscriviti a:
Post (Atom)