In campagna si muore di burocrazia
Il passaporto per il mio asino
Storie dal Paese dei balzelli
Restaurare una cascina, coltivare la terra, vendemmiare. I miti
bucolici nella realtà sono incubi
Il ritmo di chiusura delle attività agricole è di 60 al
giorno: negli ultimi anni ne sono scomparse 172.000. E così in Italia avanza il
deserto
I miei vicini producono bovini da carne e cereali. Inoltre affittano
una casa per le vacanze. Mentre lei puliva per l’arrivo degli ospiti piomba un
controllo dell’Inps «A che titolo lavora qui?» le chiedono. E lei: «Sono la padrona».
«Falso, la casa risulta di suo marito e lei non ha un contratto». Balbetta:
«Siamo sposi da 40 anni». Tutto inutile
di Susanna Tamaro
Le illustrazioni sono di Giulia Pex
La via per comprendere la profonda
contraddittorietà del nostro Paese
è una sola. Provare a fare qualcosa.
Finché si resta nel campo della teoria,
infatti, si può anche trovare
un bandolo, una traccia che, apparentemente,
illumini il groviglio
delle inutili complessità. Se invece
ci si attiva in modo concreto, ben presto ci si
rende conto della situazione: più ci muoviamo,
più siamo prigionieri.
Personalmente mi sono sottoposta a diverse
prove iniziatiche. Ho restaurato una casa, ne ho
costruita un’altra, le ho dotate di un sistema fotovoltaico,
ho creato una piccola azienda agricola.
Tutto questo l’ho realizzato grazie unicamente
ai soldi guadagnati con il mio lavoro, senza
chiedere contributi e facilitazioni a nessuno, e
l’ho
fatto semplicemente perché sono convinta
che,
una volta risolti i tuoi problemi, devi provare
a
risolvere quelli degli altri. Ho sempre pensato
che
i soldi che stanno fermi, magari chiusi
in
qualche bel pouf—abitudine piuttosto diffusa
a
livello nazionale—non siano altro che carta.
Non
servono a niente e, dunque, non sono
niente.
Un’alluvione, un incendio, una famiglia
di
topolini affamati, il crack di una banca o un
tonfo
in Borsa bastano a vanificare ingentissimi
risparmi.
Dunque, armata delle migliori intenzioni
e
sedotta da quello che ora si chiama, purtroppo,
storytelling—il
ritorno alla terra, la superba
eccellenza
del Made in Italy alimentare
ecc.
ecc.—mi sono lanciata in quest’avventura.
Sulla
stampa e sui media siamo bersagliati da
continue
immagini da Mulino Bianco, che ci testimoniano
le
ardimentose esperienze di giovani
sprezzanti
del pericolo che hanno lasciato
un’attività—o
un’inattività—cittadina per dedicarsi
alla
terra, trasformando, grazie alle potenzialità
offerte
da questi tempi, quello che una
volta
era un lavoro inviso a tutti — lavorare la
terra—in
un’attività invidiabile oltre che, naturalmente,
successful. Le attività verdi, insomma,
sembrano
diventate la mecca della nostra
società.
Sulla carta ciò non è sbagliato, il settore
agricolo
ha — o meglio avrebbe — grandi potenzialità.
Potenzialità
che però attualmente
vengono
vanificate in modo sistematico dai
problemi
cronici del nostro Paese.
Da
dove cominciare? Forse dalla bilancia della
mia
cucina dove, oltre a pesare la farina e lo zucchero,
spesso
controllo il peso degli incartamenti
burocratici.
Per
mettere in funzione l’impianto fotovoltaico
ci
sono voluti ben due chili di carte. Per
ottenere
il Psr, vale a dire il Programma di sviluppo
rurale,
finanziato con i fondi della Comunità
europea,
dallo Stato e dalle Regioni
per
sostenere — e incrementare? — questo
settore,
non credo che le carte necessarie siano
molto
inferiori di numero. Neanche gli addetti
ai
lavori sono ormai in grado di decifrare
la
scrittura cuneiforme dei burocrati!
Dato
che il mio principale strumento di lavoro
è
la lingua italiana, provo un senso di indignazione
assoluta
davanti alla perversione
del
burocratese. In questa nebbia legislativa
può
avvenire tutto e il contrario di tutto e—tra
questo
tutto e il contrario di tutto—prospera
la
grassa intercapedine della corruzione.
Le
imprese agricole dunque, come d’altronde
ogni
settore del nostro Paese, sono intrappolate
in
una quantità abnorme di leggi, molto
spesso
in contraddizione tra di loro, con
un’aggravante
in più. L’agricoltura è un’attività
viva
e mutevole, condizionata dalle stagioni e
—ora
più che mai—dalle bizzarrie meteorologiche.
Aspettare,
essere fermati, ritardare,
bloccare
per un intoppo burocratico può voler
dire
perdere o aver danneggiato il lavoro di un
anno.
L’allegro
storytelling del ritorno alla terra
mostra
il suo vero volto di fronte alla nuda crudezza
dei
dati. Il ritmo di chiusura delle attività
agricole
è di 60 al giorno, per un totale di
172.000
aziende chiuse negli ultimi anni. Continuando
di
questo passo, secondo gli studi di
Coldiretti,
tra 33 anni nel nostro Paese non esisterà
più
neppure un’azienda agricola. Forse,
allora,
la scienza avrà trovato delle pillole in
grado
di sostentarci senza alimentazione ma,
se
così non sarà, anche «il Paese dove fioriscono
i
limoni» si trasformerà in una landa di migranti
ambientali.
Tra
l’altro i limoni, povero Goethe, fioriscono
sempre
meno. In Sicilia, tanto per fare un
esempio,
il 50% degli agrumeti sono stati divelti,
la
stessa sorte stanno subendo i pescheti
dell’Emilia,
per non parlare dell’ecatombe di
ulivi
già avvenuta in buona parte delle regioni
del
Sud. Le politiche e le leggi comunitarie
hanno
— credo — una grande responsabilità
in
questo campo. Per quale ragione, infatti,
una
zucchina, per rientrare nella legalità, deve
misurare
13 cm? E per quale altra, se non il delirio
di
un perverso, un grappolo di ribes deve
avere
almeno 12 chicchi per essere messo sul
mercato?
A chi giovano i frutti della terra trasformati
in
prodotti da catena di montaggio? Il
resto
del danno lo fa un mercato malato per
cui
un chilo di mele viene pagato 4 centesimi
al
produttore, mentre la sola raccolta ne costa
18.
Si potrebbe farle raccogliere da chi ha bisogno,
naturalmente,
ma la legge non lo consente.
Le
grandi raccolte che venivano fatte unendo
le
forze—un giorno mi aiuti tu, un altro ti
do
una mano io—non possono più esistere e,
oltre
alla civiltà umana, è la frutta la prima vittima
di
questo sistema. Non resta allora che lasciarla
marcire
sugli alberi. Ma lasciar marcire
qualcosa
che era nato per nutrirci non può che
evocare
sinistri presentimenti.
Presentimenti
che si aggravano fino al panico
quando
a venir sradicati dalle ruspe sono
centinaia,
migliaia di alberi nel pieno del vigore
vegetativo
e produttivo. Come si può pensare
che
tutto questo non abbia conseguenze tragiche?
Fino
ad ora, purtroppo, l’agricoltura nazionale
è
stata trattata alla stregua di un malato
terminale:
tenuta in vita con trasfusioni, tende
di
ossigeno, iniezioni di miracolosi prodotti
rigeneranti
il cui effetto è destinato a vanificarsi
nel
breve corso di una stagione. Di questo
sostentamento
artificiale hanno beneficiato
soprattutto
le realtà di grandi dimensioni. Alle
aziende
piccole, familiari, che costituiscono
—
o meglio, costituivano — l’ossatura della
campagna
italiana non è rimasto che soccombere.
L’idea
che la terra, lasciata a se stessa, ritrovi
l’arcaica
armonia di un primitivo Eden è
un
sogno da seguaci di Gaia che poco o nulla
ha
a che fare con la realtà. Abbandonati a sé,
gli
alberi in breve non producono più frutti, i
campi
lasciati incolti non generano cibo ma
rovi
e copiose malerbe. La stessa sorte subiscono
i
pascoli dismessi. In poco tempo la vegetazione
prende
il sopravvento ovunque, annullando
la
possibilità di creare risorse alimentari.
Ormai
da molto tempo coltivare la terra non
rende
più. Per le estensioni modeste, come
quelle
dei cereali, nel migliore — ma proprio
nel
migliore — dei casi, al massimo non si va
in
perdita. Il 23% del nostro territorio presenta
ormai
avanzati stati di degrado, percentuale
che
sale al 41,1% per il Centro-Sud. Dove degrado
vuol
dire deserto che avanza. E il deserto, è
bene
ricordarlo, è quel luogo in cui non cresce
più
nulla.
Un
Paese che avesse a cuore il proprio futuro
farebbe
estesissime campagne di ri-alfabetizzazione
agraria,
concederebbe incentivi e
sgravi
— per ora presenti soltanto, credo, in
Lombardia
e Veneto — a chi applica l’agricoltura
antideserto.
Modalità di agricoltura che,
oltre
a essere lungimirante, consentirebbe un
risparmio
da subito. La preparazione di un letto
di
semina, infatti, con il sistema tradizionale
costa
375 euro a ettaro, mentre con le tecniche
scientificamente
più moderne può arrivare
a
costare 68 euro per ettaro. Invece, per il
momento,
lo Stato continua a spendersi con
gran
zelo nell’unica attività che sembra davvero
capace
di fare: sorvegliare le irregolarità e
somministrare
multe.
Parafrasando
il detto evangelico, verrebbe
da
dire che lo Stato va in cerca con spasmodica
sbadatezza
si fa sfuggire le travi. «Mi arrendo!
Non
ce la faccio più!». Quante volte ho sentito
ripetere
queste parole! E quante realtà ho visto
chiudere,
mandando a casa uno, due, tre lavoratori!
In
chiusura, dato che il mio mestiere è quello
di
raccontare storie, permettetemi di fare
qualche
esempio in grado di aiutare la comprensione
concreta
della tanto inneggiata vita
in
campagna per chi non ne ha la consuetudine.
L’anno
scorso la vendemmia di un mio conoscente
è
stata interrotta bruscamente da un
controllo
dell’Inps. Abominio! Risultava che
pagava
quattordici operai e invece nella vigna
ce
ne erano soltanto tredici! Inutile spiegare
che
il quattordicesimo aveva la febbre e che sarebbe
stato
grave il contrario: tredici operai
pagati
e uno in nero. Per i funzionari questa
incongruenza
nascondeva qualcosa di losco
che
necessitava di ulteriori, vessatori accertamenti.
Dunque,
niente più vendemmia. Con il bel
risultato
che l’anno dopo il mio amico ha comprato
una
bella macchina con cui ha fatto la
vendemmia
e i tredici, anzi i quattordici, a malincuore,
li
ha lasciati per sempre a casa.
A
me è capitato, ad esempio, di dover ridipingere
una
serra—serra peraltro visibile soltanto
dal
cielo! — perché la tinta non è stata
ritenuta
perfettamente in linea con la volontà
dei
sorvolatori. La multa dunque può arrivare
per
una tinta «sbagliata» ma può venire anche
per
un cugino o una zia che sono venuti a darti
una
mano nel vigneto o nell’uliveto—sfruttamento
di
mano d’opera —, per una piccola tettoia
ombreggiante
che hai tirato su durante la
canicola
estiva — falso ideologico —, per un
vecchio
ciuchino che hai salvato dal macello e
che
non hai dotato di regolare passaporto.
Già,
i passaporti degli equini! A raccontarla
adesso
viene da ridere ma qualche anno fa
questa
vicenda ha fatto piangere diverse persone.
Un
bel giorno, infatti, qualcuno in qualche
stanza
aveva deciso, di punto in bianco,
che
tutti i quadrupedi di origine equina dovessero
essere
forniti di questo documento. Decisione
naturalmente
mai comunicata per lettera
agli
interessati, vale a dire ai proprietari di
vari
ronzinanti, e così, senza nessun preavviso,
erano
fioccate le multe. «Dov’è il passaporto
della
bestia?». «Perché? Serve un passaporto?
».
«Certo! Non si è adeguato alla normativa?
».
«Veramente non sapevo...». «Non legge
la
Gazzetta Ufficiale?». «A dire il vero, no...».
«Allora
sono tremila a capo. Lei ne ha quattro.
Dunque
fanno dodicimila». Come sfuggire al
dubbio
che si trattasse dell’ennesimo folle balzello,
dato
che, dopo solo due anni, il passaporto
degli
equini non è stato più considerato
obbligatorio?
E
per finire—potrei andare avanti all’infinito
come
Sherazade nelle Mille e una notte —
vorrei
raccontare ciò che è accaduto a una mia
vicina
di casa. La loro azienda produce bovini
da
carne e cereali. Oltre a questo, affittano una
casa
per le vacanze. Proprio mentre era intenta
a
pulire la casa per l’imminente arrivo degli
ospiti,
piomba un controllo dell’Inps. «A che
titolo
lavora in questa casa?» le chiedono. E lei
serena:
«Sono la padrona di casa». «Non è vero
»
le rispondono. «La casa risulta essere di
suo
marito». «Appunto...» cerca di controbattere
la
mia amica. «Ma lei non ha un regolare
contratto
di lavoro». «Sono la moglie» balbetta
confusa,
«siamo sposati da quarant’anni».
Tutto
inutile. L’alternativa era tra pagare ventimila
euro
di multa per lavoro in nero o l’immediata
iscrizione
all’Inps della moglie da parte
del
marito, anche se lei ha superato da un bel
po’
i sessant’anni. Che dire? I caporali ringraziano!
Nel
1840, John Ruskin durante un suo viaggio
in
Italia, annota nel suo diario:
«Sono giunto alfine alla meta
dopo aver subito
l’assalto di una folta schiera
di doganieri
[...]. Vediamo nell’ordine:
porta di Bologna,
uscita: passaporto e gabella.
Ponte, mezzo miglio
più avanti: pedaggio. Dogana,
due miglia
innanzi, lasciati gli Stati
Pontifici: passaporto
e gabella. Dogana, dopo un
quarto di miglio,
entrati nel ducato di Modena,
prima l’ufficiale
della dogana, poi l’addetto ai
passaporti. Versato
un tributo a entrambi. Porta di
Modena,
entrata: dogana, gabella,
passaporto, idem.
Porta di Modena uscita:
passaporto, gabella.
Porta di Reggio, dogana,
gabella, passaporto,
idem. Porta di Reggio, uscita:
passaporto, gabella.
Cambio di cavalli, più avanti:
passaporto,
gabella. Entrata nel ducato di
Parma, ponte:
pedaggio, dogana, gabella,
passaporto,
idem. Dunque in totale sedici
soste, con una
perdita media di tre minuti e
un franco ogni
volta. Quello della dogana di
Modena non s’è
rabbonito per meno di cinque
paoli; l’ufficiale
pontificio di Bologna ci ha
assicurato che in
coscienza non poteva evitare la
perquisizione
per meno di una piastra. Nell’intero
sistema
c’è un che di furtivo e
abietto: arriva il doganiere,
poggia la mano lurida sulla
carrozza e
non molla la presa finché non
vi infili un franco,
altrimenti attacca a frugarti».
Dal
viaggio di Ruskin sono trascorsi centosettantasei
anni.
Le cose sono cambiate? Mah!
Dato
che il mio ciuchino ormai ha il passaporto,
vien
voglia davvero di saltare in groppa e
lanciarsi
al trotto verso le Alpi. Evitando ogni
dogana,
naturalmente.
Fonte Corriere della sera di Domenica 2 giugno 2019
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