La Masseria Pendinello in agro di Nardò (Lecce) è stata oggetto di un'interrogazione Parlamentare che riporto qui di seguito, ma è anche il posto in cui ho passato nella mia infanzia, sino alla giovinezza, le lunghissime vacanze estive. Per questo riporto un mio ricordo. Buona lettura
Atti Parlamentari - 7638 - Camera dei Deputati
LEGISLATURA II - DISCUSSIONI - SEDUTA DEL 4 MAGGIO 1954
DANIELE. — Al Ministro dell'agricoltura e delle foreste. «Per
conoscere se corri-sponde a verità che l'ente per la riforma fon-diaria di
Puglia e Lucania abbia recentemente comprata a trattativa privata nel
territorio di Nardò, in provincia di Lecce, per il prezzo di lire 45 milioni la
masseria Pendinelli, la quale già sarebbe stata acquistata alla fine dell'anno
1948, quando il valore dei terreni era più elevato, dal signor Tedesco
Salvato-re, attuale venditore, per il prezzo di soli 10 o 12 milioni di lire;
e, nel caso, se ritiene opportuno che l'ente suddetto sia autorizzato a
concludere contratti di tal genere, che oltre a prestarsi a facili manovre
speculative, dan-no origine a diffuso malcontento, perché tur-bano il mercato
fondiario, a scapito, special-mente, della formazione spontanea della pic-cola
proprietà contadina, ed a critiche giusti-ficate per il modo poco oculato con
cui viene speso il pubblico denaro ». (3109).
RISPOSTA. - « A norma dell'articolo 4 della legge 21 ottobre
1950, n. 841, la sezione spe-ciale per la riforma fondiaria in Puglia Lucania
richiedeva a questo Ministero la pre-scritta autorizzazione per l'acquisto
dell'azien-da Pendinelli, sita in agro di Nardò, pro-vincia di Lecce, di
proprietà di Tedesco Anto-nio Salvatore. « L'acquisto era motivato dalla
necessità di incrementare la insufficiente superficie espropriata nella zona in
relazione al numero dei richiedenti aventi diritto ad assegnazioni, nonché
dalla utilità di disporre dell'azienda stessa, ai fini di una più vasta ed
organica formazione della piccola proprietà contadina. «In ordine a tale
acquisto si precisa che la sopra richiamata disposizione di legge con-sente
agli enti di procedere per l'acquisto di beni fondiari mediante trattative
private, né l'oggetto dell'acquisto ed i fini da perseguire consentono di,
adottare procedure diverse. Comunque, la regolarità dell'operazione è garantita
dalla preventiva autorizzazione mini-steriale. Si fa, altresì, presente che il
prezzo di acquisto entro cui contenere le trattative ri-sulta indicato da una
apposita commissione, nominata dal Consiglio di amministrazione della sezione
speciale di riforma. «Comunque, nella determinazione del prezzo in parola è
stato seguito il criterio della valutazione a prezzo di mercato, cor-rente
nella zona, in relazione alla destinazione del terreno. Riferimenti a prezzi
corrisposti in passato per gli stessi terreni non appaiono determinanti perché
le varie operazioni, di-stanziandosi nel tempo, riguardano mercati fondiari
distinti, mentre resta l'impossibili-tà di conoscere con inconfutabile certezza
i prezzi praticati tra privati. «Si segnala, infine, che questo Ministero prima
di concedere la propria autorizzazione, ha disposto appositi accertamenti in
loco, a seguita dei quali il prezzo di acquisto con-cordato dall'ente con la
ditta Venditrice è stato successivamente ridotto ».
Il Ministro: MEDICI.
Ricordi della raccolta dei fichi d'India nella Masseria Pendinello
Ora c'è fichi d'India, un aquilone,
un ragazzo che tende
il suo elastico rosso
contro qualche lucertola
troppo spaurita e minima
per presentarsi a quel sogno
d'inaudite avventure
di cui s'inorgoglisca il cuore umano.
Vittorio Bodini (Poeta della Terra di Lecce)
Me lo sono chiesto insistentemente stamattina e non sono
riuscito a darmi una risposta. Come si può far ragionare un frutto come ragiona
un uomo? Dice l’uomo: siccome vogliono uccidermi mi metto la corazza, oppure il
giubbotto antiproiettile. Ma come si può far dire al Fico d’India, al frutto
del Fico d’India, che ha le spine per impedire di essere mangiato dagli
animali?
La massima aspirazione di ogni essere vivente è quella di
vivere e riprodursi, come può riprodursi uno che non sparge il suo seme? E se i
frutti del Fico d’India non li mangiano gli animali che fanno passare
inalterati dall’intestino i semi come fa a riprodursi?
E mentre pensavo a questo mi sono venuti in mente tempi
antichi quando cominciava il primo ottobre la scuola e i miei genitori non ne
volevano proprio sapere di andarsene dalla Campagna in agro di Nardò.
La Masseria si chiama “Pendinello” e da fine maggio ci
ospitava sino ai giorni di San Giuseppe di Copertino che si festeggia il 26
settembre quando piogge insistenti e ai limiti del diluvio ci costringevano a
far ritorno nella uggiosa autunnale San Cesario di Lecce.
Mio padre che all’epoca faceva il ferroviere (ora non è più)
più volte raccontava le traversate della gloriosa 6oo color verde acqua che
come un mezzo anfibio navigava la cittadina di Copertino che precedeva la
Masseria Pendinello.
Mio padre non diceva a nessuno che faceva il Capo Manovra
alla Stazione di Lecce, lui è come Nonno Libero della fiction TV “Un medico in
famiglia” e si fregiava di essere Ferroviere anche sul campanello di casa dove
campeggiava un “Bruno Giuseppe Ferroviere” che tanto mi ricordava quel “San
Giuseppe Artigiano”.
In quella Masseria Pendinello trascorrevamo il periodo di vacanze
e, finito il mese di agosto, ecco giungere i frutti di fine estate che noi
ragazzi andavamo a raccogliere direttamente dagli alberi dell’antica masseria.
Tra questi c’era il fico d’india (noi la chiamavamo
ficalindia).
Quando vedi il Fico d’India ai margini delle strade sei
certo che sia sempre stato lì, sei sicuro che i Messapi, i Greci e i Romani si
siano dati un gran da fare a mangiare i suoi gustosi e prelibati frutti.
Nell’immaginario collettivo il fico d'India è parte integrante
del paesaggio mediterraneo. E invece no! Viene da molto lontano. Alcuni
affermano che si tratta di un frutto introdotto in Italia dai Saraceni della
dinastia araba degli Agabliti di Kairnan, al tempo dello sbarco di Mazara nella
nostra Sicilia nell’anno 827.
Altri sostengono che sia stato importato dalle Americhe in
Spagna nel 1500, e che il suo nome ovvero “fico d'India”, sarebbe giustificato
dalla circostanza della sua provenienza dalle terre che Colombo credeva fossero
le Indie, pare che chi si sia dato un gran da fare a diffondere la cultura
nell'Italia meridionale siano stati i Borboni. Comunque sia nell'uno che
nell’altro caso i Messapi, i Greci e i Romani non l’hanno assaggiato, e non
sanno cosa si sono perso!
Ma comunque di tutto questo io ero all'oscuro quando con
Giampiero Geusa, Massimiliano Tarantino e Antonio Ferro in tenuta da mare
(eravamo tutti in slip, come i bambini del sud est asiatico e del medio
oriente) andavamo a raccogliere le ficalindie.
Ci organizzavamo giornalmente per la raccolta che facevamo a
più riprese perché i frutti (le ficalindie) hanno una maturazione che si dice
“scalare” (significa che non maturano tutti in una volta ma prima alcuni e poi
altri). Eravamo in slip io Giampiero Geusa di Nardò, Gianfranco Tarantino di
Bari e mio cugino Antonio Ferro di Lequile e tutti avevamo estrema attenzione
per le spine che potevano farci secchi nelle secche giornate d’estate, ecco
perché andavamo la mattina presto quando c’era ancora il residuo della brina
della notte che impregnava le spine e impediva che le stesse fossero disperse
nell'aria per giungere sulle nostre nude carni di ragazzi adolescenti che
avrebbero reagito con un dolore diffuso su tutto il corpo che forse avrebbe
avuto pace grazie alle cure delle premurose mamme.
Tutti eravamo armati di una canna o un bastone alla cui
estremità si metteva un barattolo di rame, andava bene quello dei pelati San
Marzano, dentro il quale si introduceva il fico d'India, che, con un semplice
movimento rotatorio, veniva distaccato dalla pala. Poi con la mano avvolta in
una busta di plastica per difendersi dalle punture, si afferrava lo spinoso
frutto e lo si riponeva delicatamente in un’altra busta di plastica che, una
volta piena, andava messa sotto il getto dell’acqua della fontana per ammorbidire
con l’acqua le spine e per disperderne la maggior parte attraverso il getto
violento.
Anche quello rappresentava un gioco dilettevole che, non
concesso mai dai genitori in altre occasioni, diveniva obbligatorio nel caso
delle ficalindie. I nostri genitori erano abituati alla penuria d’acqua ne
sapevano il valore e consideravano prezioso il liquido trasparente, per questo
non gradivano che noi la sprecassimo, non gradivano che noi lo trattassimo come
fosse illimitato.
E con la festa dell’acqua e della doccia conseguente finiva
la fase che potevamo curare noi ragazzi. Fatto questo ognuno si prendeva la sua
brava busta con dentro i fichi d’India lavati e si recava nella sua casa dove
ad aspettare c’era la regina del focolare, la casalinga per eccellenza, la mia
mamma!
Io non potevo proseguire poiché avrei dovuto usare il
coltello, oggetto pericoloso che non era concesso né usare, né tanto meno
detenere.
La mamma prendeva la busta e con un normale coltello da
cucina mozzava il frutto sia nella parte superiore e sia in quella inferiore,
subito dopo, in modo perpendicolare spaccava l’involucro del frutto tanto
quanto è lo spessore della buccia, quindi divaricava la spaccatura ed ecco che
il frutto mi veniva offerto in tutta la sua magnificenza ad essere mangiato.
C’era la ficalindia “Gialla” che è quella che mi piace di più, oppure la
"Rossa" o anche la "Bianca. Tutte buone!
Ancora oggi quando sento quel sapore dolce e i semi
scivolosi che facilmente si lasciano inghiottire ricordo quei tempi
meravigliosi e indimenticabili.
Antonio Bruno
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