La nuova agricoltura dell'Italia
di Fabrizio Barca
22 luglio 2014
Argomenti: Qualità dei prodotti e servizi | Jean-Claude
Juncker | Ocse | Italia
Negli anni recenti molti, tra i quali chi scrive, hanno
dovuto rivalutare il ruolo dell'agricoltura nello sviluppo del Paese. Vi ha
concorso più di un fattore. Ha pesato la consapevolezza generale che il
contributo cedente dell'agricoltura alla formazione della produzione e
dell'occupazione non costituisse una legge naturale inesorabile, bensì l'esito
di scelte intenzionali e reversibili.
Che hanno a lungo ricercato la riduzione dei costi unitari a
prezzo della salute, delle condizioni di lavoro e della sostenibilità di lungo
periodo. Che hanno mortificato la diversità e il nesso cibo-cultura. Che in
Europa sono state a lungo disallineate rispetto agli interessi delle sue aree
meridionali. Ha poi pesato la crisi economica, che ha spinto a cercare nell'agricoltura
la soluzione a problemi di lavoro e anche di sussistenza: in Italia tra il 2010
e il 2012 l'agro-alimentare ha accresciuto le esportazioni del 20%, arrivando a
33,6 miliardi di euro. Sempre in Italia, al cambio di prospettiva ha
contribuito la (ritardata) apertura del Paese all'immigrazione internazionale,
con la crescente presenza sui campi di forza lavoro non di nascita italiana,
sia come lavoro dipendente, talora sfruttato in modo anche primitivo, talora in
un ruolo imprenditoriale di interesse.
Per molti di noi, poi, che con ruoli diversi hanno
intrapreso da oltre due anni l'affascinante lavoro nelle "aree
interne" del Paese (inserite dal Governo in carica fra gli indirizzi di
rilancio nel Piano nazionale di riforma) - ossia le aree lontane dai servizi
essenziali di salute, scuola e ferrovia, caratterizzate da diversità culturali
e naturali inadeguatamente valorizzate e spesso in seria o grave crisi
demografica - le questioni e la "grammatica" della produzione
agricola sono diventate familiari e sfidanti. È vero che, sulla base di una
intensa elaborazione iniziata in ambito Ocse nella seconda metà degli anni 90
(a partire dal suo Rural Working Party dove l'Italia gioca un ruolo di traino),
ci era già evidente la potenzialità di queste aree nell'offrire opportunità di
svago, di crescita e soprattutto di vita.
Ma dallo studio e dalle visite di campo di queste aree
abbiamo appreso in questi intensi mesi quanto profonda sia l'importanza di
costruire un'agricoltura innovativa, diversificata, contrattualmente forte,
consapevole delle proprie connessioni con il paesaggio e l'ambiente, attenta al
rapporto con il lavoro, capace di attrarre giovani. Abbiamo visto l'importanza
della cura del territorio e gli effetti del suo abbandono, per tutti noi.
Abbiamo capito quale ruolo può giocare la scuola, sia nel restituire l'orgoglio
per la vita a contatto della terra e per la manualità combinata con la
tecnologia, sia nel costruire le competenze per coniugare tutto ciò con un uso
intelligente dell'innovazione e per promuoverla.
Abbiamo incrociato sistemi agro-alimentari locali, dove la
capacità di cooperazione ha consentito o potrebbe consentire salti di qualità
significativi.
Per tutte queste ragioni abbiamo letto con interesse e,
diciamolo, speranza le valutazioni contenute nel Piano strategico per
l'innovazione e la ricerca nel settore agricolo, alimentare e forestale
presentato dal ministro Maurizio Martina nei giorni scorsi per la discussione
pubblica. "È necessario - vi si legge - preservare, valorizzare e utilizzare
con azioni coordinate unitarie, in controtendenza con quanto fatto in passato,
la grande ricchezza e variabilità biologica che, specie nel territorio
Mediterraneo, può concorrere a selezionare e implementare caratteri utili per
l'adattamento climatico". E ancora: "È prioritario favorire
l'integrazione fra aziende (agricole e agroalimentari), sia a livello
orizzontale - che verticale - nelle filiere - ... per ottimizzare
l'organizzazione dei processi, riequilibrare le posizioni contrattuali dei
produttori ...", immagino integrazione anche sotto forma di associazione,
come nei casi di maggiore successo che è dato osservare. E poi si propongono:
il "miglioramento, tutela e tracciabilità della qualità e distintività e
adeguamento dei prodotti agroalimentari" e la "sperimentazione di
modelli di selezione e attuazione dei progetti di ricerca transdisciplinare e
partecipata".
Non sono esperto di questo comparto e non lo si diviene solo
per osmosi (pur trascorrendo in questi territori gran parte del mio tempo di
lavoro). Ma colgo nella scelta di produrre il documento, proprio nel momento di
avvio del ciclo di programmazione comunitario (dei fondi strutturali e della
politica agricola), e nei suoi contenuti la volontà di tornare a svolgere un
ruolo nazionale di guida. Di cui il Paese ha bisogno.
Ciò appare evidente nell'affondo sui temi della ricerca e
dell'innovazione. Laddove si suggeriscono strumenti di policy che ne rafforzino
l'integrazione sul campo o che promuovano la ricerca "a rete": nella
genomica nutrizionale, per produrre alimenti a misura di esigenze sempre più
specifiche; nelle biotecnologie, per adattare il prodotto al clima; nelle
nanotecnologie, per garantire qualità e tracciabilità degli alimenti. O quando
si punta anche all'innovazione organizzativa, indispensabile per migliorare la
competitività dei sistemi locali. O ancora si privilegiano le produzioni che
hanno forti legami con gli eco-sistemi e i saperi locali, una grande
opportunità in tutto il Paese, dalla Magna Grecia alle terre del Rinascimento
comunale.
L'augurio è che l'innesto di questo documento su un
confronto in tema di agricoltura ancora lontano dai "circuiti che
contano" dia vita a un dibattito vivace capace di coinvolgere centinaia di
migliaia di lavoratori e di imprenditori dell'agroalimentare, i cittadini e la
cultura italiana. E che il confronto si estenda alla necessità di prevenire
nuove esasperate forme di privatizzazione della conoscenza. Una strada che
colpisce in modo particolare il modello di innovazione adattiva (delle
conoscenze accumulate altrove) tipico del nostro Paese. Le sacrosante
pregiudiziali su "sicurezza e salute" espresse nella sua agenda dal
neopresidente della Commissione europea Jean-Claude Juncker sull'Accordo di
libero scambio con gli Usa costituiscono una buona base di partenza.
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