Agricoltura e innovazione. A proposito di un articolo di
Barca
di Alfonso Pascale
Sul “Sole 24 Ore” di oggi è apparso un articolo di Fabrizio
Barca intitolato “La nuova agricoltura dell’Italia” che merita di essere
segnalato per una molteplicità di motivi. Il primo riguarda l’attenzione
crescente che settori della cultura economica vanno ultimamente dedicando al
settore primario. L’economista ammette che egli stesso ha incominciato solo di
recente a rivalutare il ruolo dell’agricoltura nello sviluppo del Paese. Fino a
ieri era convinto, come altri studiosi della sua disciplina, che costituisse
una legge naturale il contributo cedente dell’agricoltura alla formazione della
produzione e dell’occupazione e non già l’esito di scelte intenzionali e
reversibili. A convincerlo della necessità di questa revisione autocritica è stato il lavoro di approfondimento - negli
ultimi due anni - del tema delle aree interne.
Il secondo motivo che mi spinge a segnalare l’articolo è il
giudizio positivo che Barca esprime riguardo al Piano strategico per l’innovazione e la ricerca nel settore
agricolo, alimentare e forestale presentato, nei giorni scorsi, dal ministro
Maurizio Martina. In realtà, l’ex ministro della Coesione territoriale precisa
di non essere esperto di questo comparto “e non lo si diviene solo per osmosi”.
Ma ritiene di dover cogliere la novità in alcuni passaggi del documento: quello
dove si suggeriscono strumenti di policy che ne rafforzino l’integrazione sul
campo o che promuovano la ricerca “a rete”: nella genomica nutrizionale, per
produrre alimenti a misura di esigenze sempre più specifiche; nelle
biotecnologie, per adattare il prodotto al clima; nelle nanotecnologie, per
garantire qualità e tracciabilità degli alimenti.
Il documento costituisce, senza dubbio, uno strumento per
favorire maggiori sinergie tra la politica nazionale della ricerca e quella
europea nel momento di avvio della programmazione comunitaria dei fondi
strutturali. Ma non convince la visione riduttiva con cui si affronta il
paradigma dell’innovazione sociale, individuandola come una specifica tipologia
di innovazione e relegandola all’ambito dell’agricoltura familiare e di
comunità.
Nel Piano si tende a distinguere l’innovazione incrementale
(legata soprattutto agli aspetti ambientali e alla diversificazione) per
aziende di medio-grandi dimensioni; l’innovazione radicale, per aziende di
piccole dimensioni (di nicchia e diversificate); l’innovazione sociale, per
aziende a carattere familiare mediante la promozione di reti ibride di supporto
amministrazioni-società civile-imprese, utili a generare un clima di sostegno
reciproco che favorisca l’azione collettiva.
È una suddivisione assunta astrattamente e che distorce il
rapporto tra innovazione e ricerca in quanto – così facendo - l’innovazione
sociale (cioè il cambiamento che investe sia le relazioni tra i soggetti
interessati ad innovare, sia il contesto in cui l’innovazione si produce) perde
la sua valenza sistemica e, dunque, la sua capacità di agire in profondità e in
modo diffuso nel sistema agricolo.
A questa osservazione si collega un rilievo critico che
vorrei muovere all’articolo di Barca. E qui risiede il terzo ed ultimo motivo
che induce a segnalarlo. Lo studioso si augura che il documento del Mipaaf
solleciti “un dibattito vivace capace di coinvolgere centinaia di migliaia di
lavoratori e di imprenditori dell’agroalimentare, i cittadini e la cultura
italiana; e che il confronto si estenda alla necessità di prevenire nuove
esasperate forme di privatizzazione della conoscenza; una strada che colpisce
in modo particolare il modello di innovazione adattiva (delle conoscenze
accumulate altrove) tipico del nostro Paese”. A quale modello si riferisca
Barca è lui stesso a precisarlo quando considera una buona base di partenza
della neopresidenza Juncker le pregiudiziali su “sicurezza e salute” sull’Accordo
di libero scambio Ue-Usa.
Stupisce che uno studioso di politiche dello sviluppo della
levatura di Barca ceda su questioni fondamentali – quali sono le politiche
dell’innovazione e della ricerca – in un riduzionismo economicistico.
Finora l’alimentazione (nell’accezione sistemica della
bioeconomia, della sicurezza e dei cambiamenti climatici) è stata individuata
come materia attinente alla sfera delle relazioni internazionali in ambiti
appropriati, quali Onu e Fao, per le sue valenze squisitamente politiche ed
etiche.
Le politiche della ricerca e dell’innovazione per il settore
agroalimentare sono da sempre considerate in un quadro condiviso di regole e di
collaborazioni tra i diversi Paesi del mondo, anche quando attengono a modelli
produttivi specifici e a peculiari condizioni socio-ambientali, senza mai
riferirle a ragioni di competitività dei sistemi economici nazionali.
Una loro derubricazione a fattori di competitività
territoriale potrebbe - a mio modo di vedere - determinare una pericolosa deriva
che metterebbe a repentaglio la stessa credibilità della nostra comunità
scientifica a livello internazionale. E indurrebbe l’Unione europea a svolgere
un’azione infruttuosa e del tutto velleitaria nelle sedi internazionali –
bilaterali e multilaterali - di confronto sugli scambi commerciali.
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