sabato 30 aprile 2016

"ExtravergineinPuglia" 2016 la brochure dell'evento



Corigliano d'Otranto, masseria Bianca, produzione primizie in serra










Foto di Lucio Meleleo https://www.facebook.com/salentobike

fienagione nell'uliveto di Gino L.DiMitri.

Oggi fienagione nell'uliveto di Gino L.DiMitri. C'è tutto, dal trifoglio bianco a quello incarnato, dalla sulla alla lupinella, dall'avena al loietto italico, e dalle vecce agli astragali.



Nel Salento leccese si stanno raccogliendo le patate novelle Sieglinde di Galatina vediamo di conoscere meglio questo tubero.



Recenti studi molecolari indicano che la patata è originaria del Perù, nelle vicinanze del lago Titicaca, vicino al confine boliviano.
A un’altitudine di circa 4000 metri (dove si trovano le cosiddette “patate amare” a causa dell’elevato contenuto di glicoalcaloidi), la domesticazione della patata avvenne almeno 7000 anni fa.
Non si conosce con esattezza la specie che ha dato origine alla Solanum tuberosum (la “nostra” patata), ma le specie selvatiche che tuberizzano sono distribuite tra i 38° di latitudine Nord nel territorio degli Stati Uniti, fino ai 45° Sud del Cile, arcipelago di Chiloé. Data la grande diversità che si incontrava nella zona di origine, gli antichi popoli andini selezionavano varietà senza alcaloidi, dando luogo al loro principale alimento.

Da cibo povero a must dei ristoranti. L’aroma delle patate cotte al forno ha il potere di sollevare l’umore delle persone, stimolando ricordi piacevoli e buonumore. Oltre a rendere felici, se mangiate bollite e fredde fanno dimagrire. Le novelle, ideali contro i bruciori di stomaco, sono perfette per chi soffre di insonnia o nevralgie: rilassano i muscoli e il sistema nervoso, grazie alla produzione di serotonina.
La patata fu introdotta in Europa nella seconda metà del XVI secolo dagli spagnoli, prima presenza nelle Isole Canarie già nel 1567. Lentamente, nel corso del Seicento, questa coltura cominciò a diffondersi prima in Inghilterra e in Irlanda, poi in seguito in Francia, dove inizialmente non fu usata come alimento perché ritenuta portatrice di malattie come la lebbra.
La sua diffusione “a tavola” come alimento, in Italia, la si deve ad Antoine Augustin Parmentier che ne aveva sperimentato il suo grande valore nutrizionale durante la guerra dei sette anni (1756-1763): fatto prigioniero dai Prussiani, l’agronomo francese ne imparò ad apprezzare il gusto. Tanto che, rientrato in patria, nel 1786 ottenne da re Luigi XVI, il permesso di una coltivazione sperimentale in campo, su una superficie di circa 20 ettari alle porte di Parigi. Si narra che per indurre i contadini a coltivare la patata, e soprattutto a utilizzarla nell’alimentazione, abbia usato lo stratagemma di far sorvegliare i campi in modo molto evidente, spargendo voce che si trattava di una coltivazione speciale e preziosa destinata alla corte del re, ma lasciando di notte le coltivazioni completamente sguarnite in modo da favorirne il furto da parte dei contadini, che così erano indotti a coltivare e a utilizzare come cibo le patate.
IL TUBERO NEL VECCHIO MONDO
Dopo essere comparsa negli orti botanici di diverse città del Vecchio Continente, quasi contemporaneamente, essere state scambiate per tartufi e quindi assaggiate crude (con ovvio disgusto), la specie iniziò a diffondersi a macchia d’olio. Anche in Germania, grazie all’impegno di Federico II di Prussia “sovrano illuminato” il quale, durante il suo regno, sviluppò l’economia del paese incentivando l’aumento della colonizzazione contadina delle province orientali, riuscendo a far trasferire nel territorio tedesco circa 500.000 nuovi abitanti. Grande successo ebbe la sua riforma agraria che permise, grazie all’introduzione dei magazzini statali, di evitare le carestie, nutrire i soldati durante le campagne militari evitando i saccheggi, e di controllare il prezzo del grano. Introdusse la patata nell’alimentazione tedesca prima della guerra dei sette anni (che Winston Churchill definì la prima vera “guerra mondiale”, poiché fu il primo conflitto della storia ad essere combattuto non solo sul territorio europeo, ma anche in varie parti del globo), promuovendone la coltivazione, che garantiva elevati rendimenti e cibo sufficiente per i suoi soldati durante le campagne belliche. Inoltre migliorò le tecniche di coltivazione, bonificò e disboscò numerosi terreni, aumentando così notevolmente la superficie da destinare all’agricoltura. Ancora oggi è possibile trovare patate sulla tomba di Federico Il Grande in segno di riconoscimento, per aver spinto la sua coltivazione in Germania.
La lenta diffusione della coltivazione di questo tubero in Europa può essere attribuita a diverse concause: diffidenza nei confronti di ciò che cresce sottoterra o di ciò il cui consumo potesse causare la lebbra; casi di intossicazione riscontrati dopo aver consumato patate che, lasciate alla luce per lungo tempo, avevano prodotto solanina; infine perché era considerato cibo di scarsa qualità in quanto consumato da ex galeotti o dai soldati nei tempi di guerra. Nonostante questa cautela iniziale, nell’Ottocento la patata diventò la specie più coltivata nel Regno Unito, in Olanda, in Germania e in tutti i Paesi del Nord Europa per effetto delle sue alte rese.
Ben presto le patate divennero la fonte di sostentamento principale e un alimento insostituibile per le popolazioni rurali grazie alle loro proprietà nutrizionali e all’apporto vitaminico e di minerali in esse largamente contenute, divenendo così protagoniste assolute delle mense contadine e simbolo della triste condizione dei lavoratori della terra, come testimonia I mangiatori di patate, primo quadro di figure di Vincent Van Gogh.

L’importanza che la patata aveva assunto nell’alimentazione divenne ben visibile dopo che la Peronospora ne distrusse le coltivazione nel 1845, provocando milioni di morti ed una forte emigrazione di buona parte dei sopravvissuti verso il Nord America.


Tratto da Karpòs Magazine - Alimentazione e stili di vita - n. 4 - Settembre 2012 Mensile - n. 4 - Settembre 2012 - Supplemento a QN, Il Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Scritto da Luigi Frusciante https://issuu.com/karposmagazine/docs/karpos-magazine-2012-09-n4-ridotto/19

Luigi Frusciante nasce a Calvi (BN) il 2 febbraio del 1949 e dal 1994 è Professore Ordinario di Genetica Agraria presso il Dipartimento di Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II

giovedì 28 aprile 2016

La gestione sostenibile del terreno: la minima lavorazione



In questo articolo ci concentreremo sulla prima area, quella della gestione sostenibile del terreno, che prevede l’eliminazione dell’aratura per introdurre la minima lavorazione e il sodo.

Regola numero 1: evitare il compattamento

La regola numero uno per iniziare un percorso di gestione del terreno che preveda la graduale eliminazione dell’aratura a favore della minima lavorazione e del sodo, è evitare il compattamento degli aggregati del suolo. Si deve quindi iniziare già dalla trebbiatura dei raccolti estivi e autunnali, prevedendo l’entrata in campo su terreni non eccessivamente umidi, con mietitrebbie dotate di gommature a larga sezione e a bassa pressione capaci di minimizzare la formazione di carreggiate compattate. Inoltre, i rimorchi devono sostare solo sulle cappezzagne senza entrare sui campi.

La stabilità degli aggregati del suolo, cioè la loro buona struttura, è il presupposto della cosiddetta fertilità fisica, il cui decadimento è purtroppo un caso molto frequente in Italia che provoca una perdita di produzione, indipendentemente dalla disponibilità di nutrienti. La degradazione fisica del suolo si associa all’erosione dovuta all’azione dell’acqua e del vento, e bisogna tenere presente che per ripristinare un suolo degradato occorrono molti decenni, con l’aggiunta di costi elevati.


Foto Se si vogliono adottare le minime lavorazioni del terreno è indispensabile che sin dal momento della raccolta della coltura precedente le mietitrebbie siano dotate di gomme a larga sezione e a bassa pressione per evitare fenomeni di compattamento, e che si eviti di operare con terreno molto umido.

Regola numero 2: corretta gestione dei residui colturali

La regola numero due per avere successo dopo l’abbandono delle lavorazioni tradizionali profonde con ribaltamento della zolla, è la corretta gestione dei residui colturali, che costituiscono una preziosa risorsa per la fertilità del suolo.

Semplificare le lavorazioni presuppone la distribuzione in maniera omogenea sulla superficie del terreno dei residui della coltura precedente. Una buona uniformità nella copertura del terreno da parte dei residui colturali deriva dall’impiego di mietitrebbie equipaggiate con barre di taglio provviste di trincia stocchi e con dispositivi di trincia-spargipaglia per sfibrare il più possibile il residuo e spargerlo su tutto il fronte di lavoro, evitando le aree di accumulo.

Un buon risultato di questa operazione si ottiene utilizzando coltelli non usurati e ben regolati a seconda della biomassa che ci si trova davanti ( umidità, consistenza, altezza della pianta). La trinciatura degli stocchi dopo la raccolta è un’operazione necessaria a garantire che il residuo venga sfibrato e ridotto in dimensioni tali da degradarsi nel tempo. Per tutte queste operazioni al momento della raccolta è consigliabile equipaggiare le mietitrebbie con pneumatici a sezione larga che riducono il calpestamento e la formazione delle ormaie.


Foto residui colturali devono essere ben trinciati e sminuzzati per evitare che siano un ostacolo alla buona deposizione del seme che deve essere posto a contatto con terreno sufficientemente umido per poter germinare velocemente.

Quali vantaggi portano i residui sul terreno

La presenza di residui colturali in superficie, che nel caso del sodo vengono mantenuti per tutta la stagione, porta ai seguenti vantaggi:
1.Si attenua l’aggressività delle piogge con riduzione dell’erosione e dello scorrimento superficiale.
2.Si mantiene a lungo un certo tasso di umidità nel terreno.
3.Aumenta la portanza del suolo, consentendo di entrare in campo con più facilità anche in condizioni di umidità eccessiva.
4.Aumenta la percentuale di sostanza organica del suolo.
5.Si incrementa la presenza di biofauna utile, come ad esempio i lombrichi, che costituiscono il primo segnale del buono stato di salute del terreno.


Foto I residui colturali in superficie portano vantaggi considerevoli in particolare sui terreni collinari, riuscendo a rallentare sia i fenomeni di erosione del terreno sia gli smottamenti che sono all’ordine del giorno se si praticano le lavorazioni tradizionali.

Regola numero 3: l’uso delle cover crops

Si chiamano cover crops le colture intercalari, coltivate negli “spazi vuoti” degli avvicendamenti, con lo scopo di fornire un’adeguata copertura del suolo nei periodi a maggiore rischio di erosione o di mineralizzazione della sostanza organica.

Le specie tradizionalmente impiegate sono quelle appartenenti alle famiglie delle leguminose (es. veccia, favino, trifogli – squarroso, pratense, incarnato, sotterraneo), delle graminacee (es. orzo, avena, segale, triticale) e delle crucifere (es. Brassica juncea e carinata, colza, senape).

Le specie leguminose vengono seminate principalmente allo scopo di fornire al terreno l’azoto fissato per via simbiontica e renderlo disponibile per le colture da reddito in successione (in genere a ciclo primaverile-estivo, come mais o girasole). Le graminacee sono impiegate invece per l’effetto di contenimento delle piante infestanti oppure come catch-crops, cioè come colture finalizzate ad assorbire eventuali residui di azoto lasciati nel terreno da colture precedenti.
Sinapis alba
Senape (più in alto) e rafano (qui sopra), due esempi di cover crops da seminare e mantenere sul terreno nel periodo che intercorre tra raccolta e semina della coltura successiva.

Scritto da Roberto Bartolini Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.

I benefici delle cover crops per il suolo e le colture



La gestione sostenibile dei terreni agricoli prevede la pratica della minima lavorazione, che ha tre regole molto semplici la terza delle queali prevede l’utilizzo delle cover crops.

Le imprese agricole che intendono praticare questo tipo di gestione possono godere di alcuni importanti benefici delle cover crops. Li elenchiamo qui di seguito.

Mineralizzazione e nuova biomassa

Un terreno privo di vegetazione non solo non produce biomassa, ma addirittura depaupera le sue riserve di sostanza organica e s’impoverisce di elementi nutritivi. Nel terreno l’attività biologica, che ovviamente non s’interrompe in assenza di una coltura, procede a carico sia della sostanza organica non ancora umificata (ad esempio sui residui della precedente coltura) e sia dell’humus già presente nel terreno, con processi biochimici complessi che contemplano anche quelli di mineralizzazione. La mineralizzazione libera elementi nutritivi che, in assenza di una vegetazione in grado di intercettarli (da qui la funzione di cattura delle cover crops evidenziata nel termine cacth-crop coniato qualche anno fa), possono essere facilmente lisciviati (composti azotati) o trasportati fuori dall’appezzamento con l’erosione. Quando nel suolo sono attivi i processi di mineralizzazione, la presenza delle cover crops è in grado di intercettare i prodotti di questo metabolismo utilizzandoli per creare nuova biomassa.
nella foto l 'avena che è una buona opzione di coltura da copertura (cover crops) piante di avena mature cresceranno alti 2 a 3 piedi, ma le loro radici possono estendersi fino a 6 piedi nel terreno .


Azione anti-erosiva

Il terreno nudo è più intensamente soggetto a fenomeni di erosione sia idrica che eolica. La presenza di vegetazione impedisce, o riduce fortemente, l’erosione (da qui la funzione di copertura evidenziata nel termine cover crops) attraverso due principali meccanismi. Il primo, di trattenimento, dipende dallo sviluppo dell’apparato radicale; il secondo, di assorbimento dell’azione cinetica prodotta dall’acqua o dal vento, dipende dallo sviluppo della parte epigea. In questo caso, però, lo scopo si persegue anche lasciando il terreno coperto dal residuo colturale, evitando o limitando fortemente le lavorazioni.

Più sostanza organica

La semina delle cover crops incrementa l’apporto di sostanza organica e rappresenta una non trascurabile fonte di composti azotati, che consente di ridurre le concimazioni chimiche. Queste colture, infatti, permettono di ridurre l’uso di agrochimici sia direttamente, tramite l’azione di cattura o di fissazione dell’azoto atmosferico propria delle leguminose; sia indirettamente, attraverso un miglioramento della fertilità del suolo ascrivibile allo stimolo dell’attività microbiologica e all’incremento di humus nel suolo.
Le cover crops hanno radici che muoiono, si lasciano alle spalle i canali nel terreno per le radici delle colture successive rendendo più facile per le nuove radici raggiungere la profondità

Il ruolo “biofumigante” delle cover crops

Un altro aspetto importante legato all’uso delle cover crops riguarda la “biofumigazione”, che consiste nell’utilizzo di piante da sovescio contenenti elementi biologicamente attivi in grado di combattere o eliminare nematodi, funghi o altri patogeni contenuti nel terreno.

Scritto da Roberto Bartolini. Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.

No till Semina su sodo, molto più di una semplice innovazione

Semina su sodo, molto più di una semplice innovazione
di Danilo Marandola

DIFFUSIONE NEL MONDO, COSA FARE PER INIZIARE
La semina su sodo si è diffusa negli ultimi anni in modo esponenziale a livello mondiale (111 milioni di ettari), anche se solo l’1% è presente in Europa. Per accrescerne la diffusione occorre favorire l’adozione di nuova filosofia produttiva basata sul rispetto della fertilità del suolo e sull’uso razionale delle risorse

La semina su sodo si propone come alternativa produttiva in grado di ridurre l’impronta ambientale dell’agricoltura garantendo, al contempo, competitività aziendale e qualità di vita degli agricoltori. Le esperienze in atto nel panorama italiano e le opportunità aperte dai programmi di sviluppo rurale di alcune regioni sembrano confermare questa opportunità e invitano a riflettere sulla necessità di favorire la diffusione di questo sistema produttivo ancora troppo assente dal contesto italiano. Gli aspetti di sostenibilità (ambientale, economica e sociale) divengono, infatti, sempre più importanti alla luce del contesto internazionale, comunitario e nazionale in cui l’agricoltura si trova a dover operare. Gli scenari proposti dal cambiamento climatico e gli impegni internazionali assunti in materia di biodiversità, acqua e suolo richiedono in modo sempre più stringente l’adozione di stili produttivi razionali, a basse emissioni di CO2 e rispettosi delle risorse naturali. Le tanto discusse azioni di «greening» richieste dalla futura pac, le indicazioni contenute nel Libro Bianco del Mipaaf o gli indirizzi forniti dalla Strategia nazionale per la biodiversità del Mattm (Ministero dell’ambiente) sono una dimostrazione di quanto le tematiche di sostenibilità ambientale stiano divenendo «calde» anche per il settore primario.

I dati preliminari forniti dal 6° censimento Generale dell’Agricoltura (Istat, 2010) forniscono un quadro allarmante che vede il numero di aziende diminuire del 32,2% (–775.000) nell’ultimo decennio. Questi aspetti interessano in modo trasversale tutto il settore primario nazionale, ma in modo particolare il comparto dei seminativi.

I seminativi interessano oltre il 54% della sau nazionale (circa 7 milioni di ettari) e rientrano nell’ordinamento produttivo di oltre 800.000 aziende (circa il 51%) di quelle attive in Italia. Se da un lato, però, i dati mostrano una drastica riduzione, rispetto al 2000, del numero delle aziende interessate dai seminativi (–34,6%), gli stessi dati evidenziano come la Sau interessata da tale ordinamento produttivo si sia ridotta solo del 4%. Questo per certi versi può essere interpretato come un indicatore del processo di specializzazione che sta interessando, e che interesserà sempre di più nel prossimo futuro, le nostre aziende agricole. Competitività, sostenibilità, professionalità sono gli elementi chiave che dovranno guidare tale processo in un contesto economico-ambientale di portata ormai globale. È proprio in questo contesto che deve essere collocata la (ri)scoperta di pratiche colturali come quella proposta dalla semina su sodo.

Cos’è la semina su sodo
La semina su sodo è un modo di fare agricoltura che si basa sulla totale assenza di lavorazioni meccaniche del terreno. Secondo una definizione di Phillips e Young (1973), la semina su sodo
può essere definita come un sistema di coltivazione che si realizza in terreni non lavorati (non dissodati) attraverso l’apertura di sottili solchi di larghezza e profondità sufficienti a ottenere un’idonea copertura del seme e senza il ricorso a nessun altro tipo di lavorazione del terreno. In semina su sodo assumono fondamentale importanza: la funzione delle radici (vive e morte) e della micro-fauna del terreno nella creazione della porosità dei suoli (foto 1)


l’avvicendamento colturale; la costante copertura del terreno sia attraverso il rilascio in superficie dei residui colturali (foto 2),


sia attraverso la coltivazione dedicata di colture di copertura (cover crop)(foto 3). 


Il concetto di semina su sodo è spesso frainteso e questo invita a chiarirne bene il significato e le implicazioni. Per molti si tratta semplicemente di un’innovazione tecnologica o meccanica che permette di seminare su terreni non dissodati.

Si tratta, invece, di un vero e proprio sistema colturale alternativo a quello convenzionale che richiede professionalità, esperienza e adeguata tecnologia (Derpsch et al., 2010). Per il buon esito della semina su sodo, infatti, non si deve tenere in considerazione solo il fattore semina, ma un intero sistema di fattori colturali e gestionali che va rivisto e adeguato rispetto a quello che caratterizza i sistemi convenzionali di coltivazione: il controllo delle erbe infestanti (foto 4a e 4b),



delle fitopatie e dei parassiti, possibilmente coadiuvato da tecnologie di precisione; la realizzazione di avvicendamenti colturali che devono essere calibrati non solo in funzione delle finalità produttive dell’azienda, ma anche in relazione alla funzione che le diverse colture possono svolgere nel miglioramento della fertilità chimico-fisica del suolo; la coltivazione di cover crops, possibilmente leguminose; le fertilizzazioni; la gestione dello stato fisico-chimico del suolo; la scelta delle varietà; le sistemazioni idraulico-agrarie. In semina su sodo questi fattori devono essere adattati alle esigenze e alle caratteristiche pedoclimatiche e produttive dell’azienda che intende convertirsi alla «non-lavorazione». Anche per queste caratteristiche, l’ideale adozione della semina su sodo dovrebbe mirare a instaurare regimi permanenti o continuativi di non lavorazione del terreno più che essere una scelta, a volte opportunistica, cui si ricorre a stagioni alterne o in modo occasionale.

Diffusione nel mondo

Secondo un lavoro di ricerca (Derpsch et al., 2010), negli ultimi 10 anni la semina su sodo si è diffusa in tutto il mondo in modo esponenziale, passando da 45 milioni di ettari nel 1999, a 72 milioni nel 2003 per giungere, nel 2009, a 111 milioni di ettari (un incremento medio di circa 6 milioni di ettaro/anno). I Paesi in cui è più diffusa sono Stati Uniti (26 milioni di ettari), Brasile (25 milioni) e Argentina (19 milioni). Seguono poi Australia (17 milioni) e Canada (13 milioni). In questi calcoli l’autore della ricerca ha escluso tutti i terreni soggetti a un regime saltuario od occasionale di semina su sodo. Solo in Asia, ad esempio, si stima che oltre 5 milioni di ettari siano coltivati per un anno in semina su sodo e arati nell’anno seguente in ragione delle esigenze di avvicendamento frumento-riso.

Anche la semina diretta, intesa come impiego di macchine in grado di seminare su terreno non dissodato in un solo passaggio operando delle lavorazioni che alterano la struttura degli strati superficiali e, in alcuni casi, anche più profondi del terreno, è esclusa da questo conteggio. Questo sistema colturale, lontano parente della semina su sodo, è adottato su milioni di ettari in Russia, Ucraina e Kazakistan. Per evitare sovrastime, nel computo delle superfici investite a semina su sodo l’autore ha considerato una sola volta anche i suoli interessati da doppio raccolto, una modalità produttiva diffusa in molte aree del mondo anche grazie a questo sistema di coltivazione. Le ragioni che stanno guidando questa forte diffusione sono legate alla maggiore competitività della semina su sodo rispetto all’agricoltura convenzionale, soprattutto in termini di risparmio di tempo, lavoro e gasolio. L’attuale diff usione in tutto il mondo testimonia la grande adattabilità di questo sistema alle diverse condizioni climatiche, pedologiche e colturali. È praticata dal circolo polare artico (Finlandia) fino ai tropici (Kenia, Uganda), dal livello del mare fino a 3.000 metri di altitudine (Bolivia, Colombia), in aree estremamente piovose con più di 2.000 mm di pioggia all’anno (Brasile) così come in aree estremamente siccitose con soli 250 mm di pioggia annuali (Australia occidentale, Cina settentrionale), in aziende di piccole dimensioni così come in aziende da migliaia di ettari (Usa, Kazakistan), su terreni con 90% di sabbia (Australia) così come su terreni con 80% di argilla. Questa diffusione dimostra come la semina su sodo non debba essere più considerata una semplice moda o una stravaganza, ma una pratica agricola ormai ampiamente consolidata. Un vero e proprio modo di approcciarsi ai concetti di gestione sostenibile dell’agro-ambiente che non può più essere ignorato dal mondo della ricerca, della consulenza aziendale, dall’industria e della politica (Derpsch et al., 2010).

Diffusione in Europa

In Europa i sistemi agronomici basati sul no-till sono diffusi su circa 1 milione di ettari, meno dell’1% dei terreni coltivati con questo sistema a livello mondiale. Secondo le stime fornite da Ecaf (European conservation agriculture federation) (2006), l’Italia annovera circa 80.000 ettari di terreno in regime di semina su sodo, equivalenti a circa l’1% dei terreni investiti a seminativi. Nel 2005 Basch asseriva che in Europa gli amministratori non erano ancora del tutto convinti che il concetto di agricoltura conservativa fosse adatto a soddisfare i requisiti di un’agricoltura pienamente sostenibile. Dal 2005, però, le cose si sono (in parte) evolute tanto che è stata la stessa Unione Europea, nel 2010 e nel 2011, ad approvare per l’Italia il lancio di due misure agroambientali che, nell’ambito dei Psr del Veneto e della Lombardia, offrono sostegno agli agricoltori che scelgono di convertire la propria azienda alla semina su sodo. Un modo diverso di fare agricoltura Gli aspetti sociali connessi all’adozione di pratiche agronomiche sostenibili sono raramente esaminati in profondità, probabilmente a causa di un assunto (implicito) secondo il quale lavorare sugli aspetti ambientali, produttivi e microeconomici della sostenibilità porti
automaticamente a tenere in considerazione anche gli aspetti sociali (Allen et al., 1991).

Gli aspetti sociali della sostenibilità possono, invece, fortemente influenzare la diffusione e l’adozione di pratiche conservative come quelle proposte dalla semina su sodo. È dimostrato, ad esempio, come la formazione del capitale sociale abbia favorito in molti Paesi lo sviluppo di azioni collettive di conservazione del suolo, contribuendo a una più rapida e diffusa adozione delle buone pratiche agricole (Cramb, 2005). Le pratiche di agricoltura conservativa rappresentano per le aziende e per gli agricoltori qualcosa di più di semplici innovazioni in quanto vanno a sovvertire il tradizionale modo di fare agricoltura che ha caratterizzato, almeno nell’ultimo mezzo secolo, il comparto dei seminativi in Italia. La «filosfia» produttiva proposta dalla semina su sodo chiede agli agricoltori di abbandonare le tradizionali pratiche di coltivazione e di adottare nuovi paradigmi produttivi che richiedono nuove competenze e nuove capacità tecnico professionali che, in molti casi, mettono alla prova anche il dinamismo e l’elasticità degli stessi operatori. Non a caso ricerche di settore ed esperienze aziendali confermano come l’agricoltura conservativa sia più velocemente e facilmente adottata dagli agricoltori più giovani, quelli evidentemente più predisposti a mettere in discussione il proprio bagaglio di esperienze per aprirsi a nuovi modi di fare agricoltura. Alla luce di ciò appare chiaro che la «rivoluzione» dell’agricoltura conservativa dovrebbe partire in primo luogo da una crescita culturale, tecnica e professionale del capitale umano rappresentato dagli agricoltori, dagli agrotecnici e dai professionisti della consulenza aziendale, figure che oggi sono chiamate ad approcciarsi in modo nuovo ai concetti di sostenibilità e di uso razionale delle risorse in agricoltura. Fattori che possono favorire la diffusione Una serie di condizioni ambientali possono favorire la diffusione della semina su sodo. Fra queste: natura acclive dei terreni; problemi di erosione; climi aridi o periodi siccitosi particolarmente intensi e lunghi; degrado e stanchezza dei suoli; riduzione delle capacità e potenzialità lavorative; alti costi di produzione e bassi prezzi di vendita; riduzione dei sostegni in agricoltura. In queste condizioni l’adozione della semina su sodo può risultare più rapida, specialmente se i risultati di campo sono sin da subito incoraggianti. La presenza nel territorio di organizzazioni, di associazioni e di agricoltori che hanno maturato una certa esperienza nel sistema può, inoltre, contribuire in modo determinante alla diffusione di questo nuovo paradigma produttivo.

Alcune esperienze in corso nel contesto italiano dimostrano come gli agricoltori che adottano il no-till siano in grado di valorizzare questi aspetti grazie alla loro particolare attitudine a fare rete e a condividere esperienze e risultati (Marandola et al., 2009). I tecnici della consulenza e gli agricoltori «pionieri» sono pertanto chiamati a svolgere il ruolo di animatori locali per convincere i colleghi che l’agricoltura conservativa è un modo possibile, conveniente e opportuno di coltivare. Questo richiama la necessità di realizzare visite ai campi, di mostrare il funzionamento delle macchine e di dimostrare i benefici connessi all’adozione della semina su sodo.

Come e cosa fare per iniziare

Una delle principali cose da fare in vista di una conversione aziendale alla semina su sodo è la definizione di un buon programma di rotazioni colturali.
L’importanza degli avvicendamenti nella conservazione dello stato di fertilità dei suoli è riconosciuta ormai da molti anni, ma oggi diviene oggetto di particolare attenzione alla luce delle richieste di greening avanzate dalla pac post 2013. Tale importanza diviene ancora più rilevante nei sistemi agronomici no-till in quanto è proprio dalla mirata rotazione delle colture che dipende lo stato fisico (porosità, struttura) e chimico (dotazione di elementi minerali, contenuto di sostanza organica) dei suoli. In semina su sodo, infatti, è l’alternanza di apparati radicali fittonanti o fascicolati, robusti o capillari, che permette di riproporre in modo seminaturale quelli che sono gli effetti fisici normalmente realizzati dalle lavorazioni meccaniche del terreno. Inoltre, un’attenta rotazione colturale può contribuire a facilitare la gestione delle erbe infestanti o a contenere il carico di parassiti e patogeni presenti in campo. In più un mirato avvicendamento colturale, opportunamente integrato con cover crops proteiche, può contribuire a migliorare la fertilità del suolo offrendo anche la possibilità di contenere o razionalizzare, nel medio lungo periodo, il ricorso alle fertilizzazioni minerali. Alla luce di ciò, appare chiaro che in semina su sodo la definizione di un piano di avvicendamenti colturali debba essere funzionale non solo al prodotto che si vuole ottenere dalle diverse colture ma anche alla funzione agronomica che tali colture possono svolgere nella gestione della fertilità del suolo. Limitazioni fisiche e chimiche come il compattamento dei suoli, i ristagni, la dotazione di macro e microelementi chimici, devono essere corrette prima di convertire un terreno alla non-lavorazione. Questo è vero, in special modo, per i terreni più degradati, poveri e sfruttati che, prima di iniziare, avrebbero bisogno di particolari cure preparatorie. Fra queste, ad esempio: coltivazione di colture preparatorie come leguminose o foraggere; opere di decompattamento; opere di livellamento; opere di spietramento; opere di sistemazione idraulico-agraria (per terreni pianeggianti con problemi di ristagni, per terreni acclivi ed esposti a rischio di ruscellamenti ed erosione superficiale) (foto 5);


letamazioni e/o buone concimazioni di fondo. Secondo la Fao (2010) i suoli convertiti in modo permanente alla semina su sodo, anche quelli più degradati, generalmente migliorano le proprie caratteristiche con il passare degli anni e queste operazioni, una volta eseguite, potrebbero non essere più necessarie in seguito. Il successo della semina su sodo è legato al ripristino degli equilibri seminaturali che normalmente si instaurano in un suolo non lavorato. Il passaggio da uno stato fortemente artificiale come quello che si genera in agricoltura convenzionale a tale stato seminaturale richiede un periodo di conversione attraverso il quale il sistema suolo può stabilizzarsi e offrire i migliori risultati produttivi. La durata di tale periodo di conversione è direttamente proporzionale allo stato di salute e fertilità che si registra nel suolo al momento del passaggio alla non lavorazione: tanto più stressati, stanchi, compattati e poveri di sostanza organica sono i terreni, tanto più lunga sarà l’attesa di buoni risultati che, nei casi più estremi, potrebbero anche faticare a venire.
Cosa occorre allora per iniziare?
Bisogna prima di tutto acquisire padronanza ed esperienza con le macchine e con i concetti di base, magari partendo dalla conversione di una piccola superficie aziendale, anche per ridurre i timori connessi al rischio. In più l’agricoltore deve prepararsi e abituarsi a uno stile di vita e a un piano di lavoro completamente diversi rispetto a quelli connessi al sistema convenzionale di coltivazione. Secondo la Fao (2010) è consigliabile che l’agricoltore consulti prima agricoltori già esperti e condivida con loro esperienze e obiettivi. L’esperienza di un agricoltore che lavora da anni con questo sistema può, infatti, fornire importanti indicazioni sui fattori chiave della buona riuscita e sugli errori che devono essere evitati.

Danilo Marandola Inea - Rete rurale nazionale
APPROFONDIMENTO

Strategie a favore della semina su sodo
Per la semina su sodo esistono, sia a livello aziendale sia a livello di contoterzisti, dei gap conoscitivi e tecnologici e dei pregiudizi che andrebbero oculatamente colmati grazie al prezioso supporto dei professionisti della consulenza. Appare chiaro che questo insieme di funzioni dovrebbe essere opportunamente favorito dagli enti territoriali e dalle strutture tecniche attive a livello locale. Formazione, informazione, consulenza aziendale, ricerca, innovazione tecnologica e investimenti, agroambiente, cooperazione fra agricoltori sono elementi che dovrebbero essere messi a sistema per accrescere l’efficienza della misure Psr che saranno proposte per favorire l’adozione del no till nella programmazione post 2013.
Tra l’altro, le proposte di regolamento per la futura policy di sviluppo rurale (2014-2020) annunciano delle novità che sembrano offrire la possibilità di operare in questa direzione. In primo luogo, l’impostazione strategica indirizzata al raggiungimento di obiettivi e non più organizzata per assi a «tenuta stagna», cosa che può facilitare la realizzazione di progetti integrati a più alto valore aggiunto che sappiano utilizzare in modo complementare le diverse misure. In secondo luogo, la proposta di una misura di cooperazione di «ampio respiro» che si propone di voler favorire la realizzazione di progetti condivisi volti sia alla più ampia diffusione di pratiche agroambientali sia all’integrazione del mondo aziendale e di quello della ricerca.

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Fonte: ARTICOLO PUBBLICATO SU L’INFORMATORE AGRARIO N. 11/2012 A PAG. 44 http://www.aipas.eu/files/15-IA_Articolo_Semina_su_sodo_innovazione_D.Marandola_marzo_2012.pdf