Antonio Bruno è Laureato in Scienze Agrarie Dottore Agronomo iscritto all'Ordine di Lecce - Esperto in diagnostica urbana e territoriale e studente all'Università del Salento del Corso di laurea in Viticultura ed Enologia
sabato 30 aprile 2016
fienagione nell'uliveto di Gino L.DiMitri.
Oggi fienagione nell'uliveto di Gino L.DiMitri. C'è tutto, dal trifoglio bianco a quello incarnato, dalla sulla alla lupinella, dall'avena al loietto italico, e dalle vecce agli astragali.
Nel Salento leccese si stanno raccogliendo le patate novelle Sieglinde di Galatina vediamo di conoscere meglio questo tubero.
Recenti studi molecolari indicano che la patata è originaria
del Perù, nelle vicinanze del lago Titicaca, vicino al confine boliviano.
A un’altitudine di circa 4000 metri (dove si trovano le
cosiddette “patate amare” a causa dell’elevato contenuto di glicoalcaloidi), la
domesticazione della patata avvenne almeno 7000 anni fa.
Non si conosce con esattezza la specie che ha dato origine
alla Solanum tuberosum (la “nostra” patata), ma le specie selvatiche che
tuberizzano sono distribuite tra i 38° di latitudine Nord nel territorio degli
Stati Uniti, fino ai 45° Sud del Cile, arcipelago di Chiloé. Data la grande
diversità che si incontrava nella zona di origine, gli antichi popoli andini
selezionavano varietà senza alcaloidi, dando luogo al loro principale alimento.
Da cibo povero a must dei ristoranti. L’aroma delle patate cotte
al forno ha il potere di sollevare l’umore delle persone, stimolando ricordi
piacevoli e buonumore. Oltre a rendere felici, se mangiate bollite e fredde
fanno dimagrire. Le novelle, ideali contro i bruciori di stomaco, sono perfette
per chi soffre di insonnia o nevralgie: rilassano i muscoli e il sistema
nervoso, grazie alla produzione di serotonina.
La patata fu introdotta in Europa nella seconda metà del XVI
secolo dagli spagnoli, prima presenza nelle Isole Canarie già nel 1567.
Lentamente, nel corso del Seicento, questa coltura cominciò a diffondersi prima
in Inghilterra e in Irlanda, poi in seguito in Francia, dove inizialmente non
fu usata come alimento perché ritenuta portatrice di malattie come la lebbra.
La sua diffusione “a tavola” come alimento, in Italia, la si
deve ad Antoine Augustin Parmentier che ne aveva sperimentato il suo grande valore
nutrizionale durante la guerra dei sette anni (1756-1763): fatto prigioniero
dai Prussiani, l’agronomo francese ne imparò ad apprezzare il gusto. Tanto che,
rientrato in patria, nel 1786 ottenne da re Luigi XVI, il permesso di una
coltivazione sperimentale in campo, su una superficie di circa 20 ettari alle
porte di Parigi. Si narra che per indurre i contadini a coltivare la patata, e
soprattutto a utilizzarla nell’alimentazione, abbia usato lo stratagemma di far
sorvegliare i campi in modo molto evidente, spargendo voce che si trattava di
una coltivazione speciale e preziosa destinata alla corte del re, ma lasciando
di notte le coltivazioni completamente sguarnite in modo da favorirne il furto
da parte dei contadini, che così erano indotti a coltivare e a utilizzare come
cibo le patate.
IL TUBERO NEL VECCHIO MONDO
Dopo essere comparsa negli orti botanici di diverse città
del Vecchio Continente, quasi contemporaneamente, essere state scambiate per
tartufi e quindi assaggiate crude (con ovvio disgusto), la specie iniziò a
diffondersi a macchia d’olio. Anche in Germania, grazie all’impegno di Federico
II di Prussia “sovrano illuminato” il quale, durante il suo regno, sviluppò l’economia
del paese incentivando l’aumento della colonizzazione contadina delle province
orientali, riuscendo a far trasferire nel territorio tedesco circa 500.000 nuovi
abitanti. Grande successo ebbe la sua riforma agraria che permise, grazie all’introduzione
dei magazzini statali, di evitare le carestie, nutrire i soldati durante le campagne
militari evitando i saccheggi, e di controllare il prezzo del grano. Introdusse
la patata nell’alimentazione tedesca prima della guerra dei sette anni (che
Winston Churchill definì la prima vera “guerra mondiale”, poiché fu il primo
conflitto della storia ad essere combattuto non solo sul territorio europeo, ma
anche in varie parti del globo), promuovendone la coltivazione, che garantiva elevati
rendimenti e cibo sufficiente per i suoi soldati durante le campagne belliche.
Inoltre migliorò le tecniche di coltivazione, bonificò e disboscò numerosi
terreni, aumentando così notevolmente la superficie da destinare all’agricoltura.
Ancora oggi è possibile trovare patate sulla tomba di Federico Il Grande in segno
di riconoscimento, per aver spinto la sua coltivazione in Germania.
La lenta diffusione della coltivazione di questo tubero in
Europa può essere attribuita a diverse concause: diffidenza nei confronti di
ciò che cresce sottoterra o di ciò il cui consumo potesse causare la lebbra;
casi di intossicazione riscontrati dopo aver consumato patate che, lasciate
alla luce per lungo tempo, avevano prodotto solanina; infine perché era
considerato cibo di scarsa qualità in quanto consumato da ex galeotti o dai
soldati nei tempi di guerra. Nonostante questa cautela iniziale, nell’Ottocento
la patata diventò la specie più coltivata nel Regno Unito, in Olanda, in
Germania e in tutti i Paesi del Nord Europa per effetto delle sue alte rese.
Ben presto le patate divennero la fonte di sostentamento
principale e un alimento insostituibile per le popolazioni rurali grazie alle
loro proprietà nutrizionali e all’apporto vitaminico e di minerali in esse
largamente contenute, divenendo così protagoniste assolute delle mense
contadine e simbolo della triste condizione dei lavoratori della terra, come testimonia
I mangiatori di patate, primo quadro di figure di Vincent Van Gogh.
L’importanza che la patata aveva assunto nell’alimentazione divenne
ben visibile dopo che la Peronospora ne distrusse le coltivazione nel 1845,
provocando milioni di morti ed una forte emigrazione di buona parte dei
sopravvissuti verso il Nord America.
Tratto da Karpòs Magazine - Alimentazione e stili di vita -
n. 4 - Settembre 2012 Mensile - n. 4 - Settembre 2012 - Supplemento a QN, Il
Resto del Carlino, La Nazione e Il Giorno. Scritto da Luigi Frusciante https://issuu.com/karposmagazine/docs/karpos-magazine-2012-09-n4-ridotto/19
Luigi Frusciante nasce a Calvi (BN) il 2 febbraio del 1949 e
dal 1994 è Professore Ordinario di Genetica Agraria presso il Dipartimento di
Agraria dell’Università degli Studi di Napoli Federico II
venerdì 29 aprile 2016
giovedì 28 aprile 2016
La gestione sostenibile del terreno: la minima lavorazione
In questo articolo ci concentreremo
sulla prima area, quella della gestione sostenibile del terreno, che
prevede l’eliminazione dell’aratura per introdurre la minima
lavorazione e il sodo.
Regola numero 1: evitare il
compattamento
La regola numero uno per iniziare un
percorso di gestione del terreno che preveda la graduale eliminazione
dell’aratura a favore della minima lavorazione e del sodo, è
evitare il compattamento degli aggregati del suolo. Si deve quindi
iniziare già dalla trebbiatura dei raccolti estivi e autunnali,
prevedendo l’entrata in campo su terreni non eccessivamente umidi,
con mietitrebbie dotate di gommature a larga sezione e a bassa
pressione capaci di minimizzare la formazione di carreggiate
compattate. Inoltre, i rimorchi devono sostare solo sulle cappezzagne
senza entrare sui campi.
La stabilità degli aggregati del
suolo, cioè la loro buona struttura, è il presupposto della
cosiddetta fertilità fisica, il cui decadimento è purtroppo un caso
molto frequente in Italia che provoca una perdita di produzione,
indipendentemente dalla disponibilità di nutrienti. La degradazione
fisica del suolo si associa all’erosione dovuta all’azione
dell’acqua e del vento, e bisogna tenere presente che per
ripristinare un suolo degradato occorrono molti decenni, con
l’aggiunta di costi elevati.
Foto Se si vogliono adottare le minime
lavorazioni del terreno è indispensabile che sin dal momento della
raccolta della coltura precedente le mietitrebbie siano dotate di
gomme a larga sezione e a bassa pressione per evitare fenomeni di
compattamento, e che si eviti di operare con terreno molto umido.
Regola numero 2: corretta gestione dei
residui colturali
La regola numero due per avere successo
dopo l’abbandono delle lavorazioni tradizionali profonde con
ribaltamento della zolla, è la corretta gestione dei residui
colturali, che costituiscono una preziosa risorsa per la fertilità
del suolo.
Semplificare le lavorazioni presuppone
la distribuzione in maniera omogenea sulla superficie del terreno dei
residui della coltura precedente. Una buona uniformità nella
copertura del terreno da parte dei residui colturali deriva
dall’impiego di mietitrebbie equipaggiate con barre di taglio
provviste di trincia stocchi e con dispositivi di
trincia-spargipaglia per sfibrare il più possibile il residuo e
spargerlo su tutto il fronte di lavoro, evitando le aree di accumulo.
Un buon risultato di questa operazione
si ottiene utilizzando coltelli non usurati e ben regolati a seconda
della biomassa che ci si trova davanti ( umidità, consistenza,
altezza della pianta). La trinciatura degli stocchi dopo la raccolta
è un’operazione necessaria a garantire che il residuo venga
sfibrato e ridotto in dimensioni tali da degradarsi nel tempo. Per
tutte queste operazioni al momento della raccolta è consigliabile
equipaggiare le mietitrebbie con pneumatici a sezione larga che
riducono il calpestamento e la formazione delle ormaie.
Foto residui colturali devono essere
ben trinciati e sminuzzati per evitare che siano un ostacolo alla
buona deposizione del seme che deve essere posto a contatto con
terreno sufficientemente umido per poter germinare velocemente.
Quali vantaggi portano i residui sul
terreno
La presenza di residui colturali in
superficie, che nel caso del sodo vengono mantenuti per tutta la
stagione, porta ai seguenti vantaggi:
1.Si attenua l’aggressività delle
piogge con riduzione dell’erosione e dello scorrimento
superficiale.
2.Si mantiene a lungo un certo tasso di
umidità nel terreno.
3.Aumenta la portanza del suolo,
consentendo di entrare in campo con più facilità anche in
condizioni di umidità eccessiva.
4.Aumenta la percentuale di sostanza
organica del suolo.
5.Si incrementa la presenza di biofauna
utile, come ad esempio i lombrichi, che costituiscono il primo
segnale del buono stato di salute del terreno.
Foto I residui colturali in superficie
portano vantaggi considerevoli in particolare sui terreni collinari,
riuscendo a rallentare sia i fenomeni di erosione del terreno sia gli
smottamenti che sono all’ordine del giorno se si praticano le
lavorazioni tradizionali.
Regola numero 3: l’uso delle cover
crops
Si chiamano cover crops le colture
intercalari, coltivate negli “spazi vuoti” degli avvicendamenti,
con lo scopo di fornire un’adeguata copertura del suolo nei periodi
a maggiore rischio di erosione o di mineralizzazione della sostanza
organica.
Le specie tradizionalmente impiegate
sono quelle appartenenti alle famiglie delle leguminose (es. veccia,
favino, trifogli – squarroso, pratense, incarnato, sotterraneo),
delle graminacee (es. orzo, avena, segale, triticale) e delle
crucifere (es. Brassica juncea e carinata, colza, senape).
Le specie leguminose vengono seminate
principalmente allo scopo di fornire al terreno l’azoto fissato per
via simbiontica e renderlo disponibile per le colture da reddito in
successione (in genere a ciclo primaverile-estivo, come mais o
girasole). Le graminacee sono impiegate invece per l’effetto di
contenimento delle piante infestanti oppure come catch-crops, cioè
come colture finalizzate ad assorbire eventuali residui di azoto
lasciati nel terreno da colture precedenti.
Scritto da Roberto Bartolini Laureato
in agraria all'Università di Bologna, giornalista professionista dal
1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo Edagricole di Bologna,
passando dal ruolo di redattore a quello direttore editoriale. Per
oltre 15 anni è stato direttore responsabile del settimanale Terra e
Vita. Oggi svolge attività di consulenza editoriale e agronomica,
occupandosi di seminativi e di innovazione tecnologica.
I benefici delle cover crops per il suolo e le colture
La gestione sostenibile dei terreni
agricoli prevede la pratica della minima lavorazione, che ha tre
regole molto semplici la terza delle queali prevede l’utilizzo
delle cover crops.
Le imprese agricole che intendono
praticare questo tipo di gestione possono godere di alcuni importanti
benefici delle cover crops. Li elenchiamo qui di seguito.
Mineralizzazione e nuova biomassa
Un terreno privo di vegetazione non
solo non produce biomassa, ma addirittura depaupera le sue riserve di
sostanza organica e s’impoverisce di elementi nutritivi. Nel
terreno l’attività biologica, che ovviamente non s’interrompe in
assenza di una coltura, procede a carico sia della sostanza organica
non ancora umificata (ad esempio sui residui della precedente
coltura) e sia dell’humus già presente nel terreno, con processi
biochimici complessi che contemplano anche quelli di
mineralizzazione. La mineralizzazione libera elementi nutritivi che,
in assenza di una vegetazione in grado di intercettarli (da qui la
funzione di cattura delle cover crops evidenziata nel termine
cacth-crop coniato qualche anno fa), possono essere facilmente
lisciviati (composti azotati) o trasportati fuori dall’appezzamento
con l’erosione. Quando nel suolo sono attivi i processi di
mineralizzazione, la presenza delle cover crops è in grado di
intercettare i prodotti di questo metabolismo utilizzandoli per
creare nuova biomassa.
nella foto l
'avena che è una buona opzione di coltura
da copertura (cover crops) piante di avena mature cresceranno alti 2
a 3 piedi, ma le loro radici possono estendersi fino a 6 piedi nel
terreno .
Azione anti-erosiva
Il terreno nudo è più intensamente
soggetto a fenomeni di erosione sia idrica che eolica. La presenza di
vegetazione impedisce, o riduce fortemente, l’erosione (da qui la
funzione di copertura evidenziata nel termine cover crops) attraverso
due principali meccanismi. Il primo, di trattenimento, dipende dallo
sviluppo dell’apparato radicale; il secondo, di assorbimento
dell’azione cinetica prodotta dall’acqua o dal vento, dipende
dallo sviluppo della parte epigea. In questo caso, però, lo scopo si
persegue anche lasciando il terreno coperto dal residuo colturale,
evitando o limitando fortemente le lavorazioni.
Più sostanza organica
La semina delle cover crops incrementa
l’apporto di sostanza organica e rappresenta una non trascurabile
fonte di composti azotati, che consente di ridurre le concimazioni
chimiche. Queste colture, infatti, permettono di ridurre l’uso di
agrochimici sia direttamente, tramite l’azione di cattura o di
fissazione dell’azoto atmosferico propria delle leguminose; sia
indirettamente, attraverso un miglioramento della fertilità del
suolo ascrivibile allo stimolo dell’attività microbiologica e
all’incremento di humus nel suolo.
Le cover crops hanno radici che
muoiono, si lasciano alle spalle i canali nel terreno per le radici
delle colture successive rendendo più facile per le nuove radici
raggiungere la profondità
Il ruolo “biofumigante” delle
cover crops
Un altro aspetto importante legato
all’uso delle cover crops riguarda la “biofumigazione”, che
consiste nell’utilizzo di piante da sovescio contenenti elementi
biologicamente attivi in grado di combattere o eliminare nematodi,
funghi o altri patogeni contenuti nel terreno.
Scritto da Roberto Bartolini.
Laureato in agraria all'Università di Bologna, giornalista
professionista dal 1987, ha lavorato per 35 anni nel Gruppo
Edagricole di Bologna, passando dal ruolo di redattore a quello
direttore editoriale. Per oltre 15 anni è stato direttore
responsabile del settimanale Terra e Vita. Oggi svolge attività di
consulenza editoriale e agronomica, occupandosi di seminativi e di
innovazione tecnologica.
No till Semina su sodo, molto più di una semplice innovazione
Semina su sodo, molto più di una
semplice innovazione
di Danilo Marandola
DIFFUSIONE NEL MONDO, COSA FARE PER
INIZIARE
La semina su sodo si è diffusa negli
ultimi anni in modo esponenziale a livello mondiale (111 milioni di
ettari), anche se solo l’1% è presente in Europa. Per accrescerne
la diffusione occorre favorire l’adozione di nuova filosofia
produttiva basata sul rispetto della fertilità del suolo e sull’uso
razionale delle risorse
La semina su sodo si propone come
alternativa produttiva in grado di ridurre l’impronta ambientale
dell’agricoltura garantendo, al contempo, competitività aziendale
e qualità di vita degli agricoltori. Le esperienze in atto nel
panorama italiano e le opportunità aperte dai programmi di sviluppo
rurale di alcune regioni sembrano confermare questa opportunità e
invitano a riflettere sulla necessità di favorire la diffusione di
questo sistema produttivo ancora troppo assente dal contesto
italiano. Gli aspetti di sostenibilità (ambientale, economica e
sociale) divengono, infatti, sempre più importanti alla luce del
contesto internazionale, comunitario e nazionale in cui l’agricoltura
si trova a dover operare. Gli scenari proposti dal cambiamento
climatico e gli impegni internazionali assunti in materia di
biodiversità, acqua e suolo richiedono in modo sempre più
stringente l’adozione di stili produttivi razionali, a basse
emissioni di CO2 e rispettosi delle risorse naturali. Le tanto
discusse azioni di «greening» richieste dalla futura pac, le
indicazioni contenute nel Libro Bianco del Mipaaf o gli indirizzi
forniti dalla Strategia nazionale per la biodiversità del Mattm
(Ministero dell’ambiente) sono una dimostrazione di quanto le
tematiche di sostenibilità ambientale stiano divenendo «calde»
anche per il settore primario.
I dati preliminari forniti dal 6°
censimento Generale dell’Agricoltura (Istat, 2010) forniscono un
quadro allarmante che vede il numero di aziende diminuire del 32,2%
(–775.000) nell’ultimo decennio. Questi aspetti interessano in
modo trasversale tutto il settore primario nazionale, ma in modo
particolare il comparto dei seminativi.
I seminativi interessano oltre il 54%
della sau nazionale (circa 7 milioni di ettari) e rientrano
nell’ordinamento produttivo di oltre 800.000 aziende (circa il 51%)
di quelle attive in Italia. Se da un lato, però, i dati mostrano una
drastica riduzione, rispetto al 2000, del numero delle aziende
interessate dai seminativi (–34,6%), gli stessi dati evidenziano
come la Sau interessata da tale ordinamento produttivo si sia ridotta
solo del 4%. Questo per certi versi può essere interpretato come un
indicatore del processo di specializzazione che sta interessando, e
che interesserà sempre di più nel prossimo futuro, le nostre
aziende agricole. Competitività, sostenibilità, professionalità
sono gli elementi chiave che dovranno guidare tale processo in un
contesto economico-ambientale di portata ormai globale. È proprio in
questo contesto che deve essere collocata la (ri)scoperta di pratiche
colturali come quella proposta dalla semina su sodo.
Cos’è la semina su sodo
La semina su sodo è un modo di fare
agricoltura che si basa sulla totale assenza di lavorazioni
meccaniche del terreno. Secondo una definizione di Phillips e Young
(1973), la semina su sodo
può essere definita come un sistema di
coltivazione che si realizza in terreni non lavorati (non dissodati)
attraverso l’apertura di sottili solchi di larghezza e profondità
sufficienti a ottenere un’idonea copertura del seme e senza il
ricorso a nessun altro tipo di lavorazione del terreno. In semina su
sodo assumono fondamentale importanza: la funzione delle radici (vive
e morte) e della micro-fauna del terreno nella creazione della
porosità dei suoli (foto 1)
l’avvicendamento colturale; la
costante copertura del terreno sia attraverso il rilascio in
superficie dei residui colturali (foto 2),
sia attraverso la coltivazione dedicata
di colture di copertura (cover crop)(foto 3).
Il concetto di semina su sodo è spesso
frainteso e questo invita a chiarirne bene il significato e le
implicazioni. Per molti si tratta semplicemente di un’innovazione
tecnologica o meccanica che permette di seminare su terreni non
dissodati.
Si tratta, invece, di un vero e proprio
sistema colturale alternativo a quello convenzionale che richiede
professionalità, esperienza e adeguata tecnologia (Derpsch et al.,
2010). Per il buon esito della semina su sodo, infatti, non si deve
tenere in considerazione solo il fattore semina, ma un intero sistema
di fattori colturali e gestionali che va rivisto e adeguato rispetto
a quello che caratterizza i sistemi convenzionali di coltivazione: il
controllo delle erbe infestanti (foto 4a e 4b),
delle fitopatie e dei parassiti,
possibilmente coadiuvato da tecnologie di precisione; la
realizzazione di avvicendamenti colturali che devono essere calibrati
non solo in funzione delle finalità produttive dell’azienda, ma
anche in relazione alla funzione che le diverse colture possono
svolgere nel miglioramento della fertilità chimico-fisica del suolo;
la coltivazione di cover crops, possibilmente leguminose; le
fertilizzazioni; la gestione dello stato fisico-chimico del suolo; la
scelta delle varietà; le sistemazioni idraulico-agrarie. In semina
su sodo questi fattori devono essere adattati alle esigenze e alle
caratteristiche pedoclimatiche e produttive dell’azienda che
intende convertirsi alla «non-lavorazione». Anche per queste
caratteristiche, l’ideale adozione della semina su sodo dovrebbe
mirare a instaurare regimi permanenti o continuativi di non
lavorazione del terreno più che essere una scelta, a volte
opportunistica, cui si ricorre a stagioni alterne o in modo
occasionale.
Diffusione nel mondo
Secondo un lavoro di ricerca (Derpsch
et al., 2010), negli ultimi 10 anni la semina su sodo si è diffusa
in tutto il mondo in modo esponenziale, passando da 45 milioni di
ettari nel 1999, a 72 milioni nel 2003 per giungere, nel 2009, a 111
milioni di ettari (un incremento medio di circa 6 milioni di
ettaro/anno). I Paesi in cui è più diffusa sono Stati Uniti (26
milioni di ettari), Brasile (25 milioni) e Argentina (19 milioni).
Seguono poi Australia (17 milioni) e Canada (13 milioni). In questi
calcoli l’autore della ricerca ha escluso tutti i terreni soggetti
a un regime saltuario od occasionale di semina su sodo. Solo in Asia,
ad esempio, si stima che oltre 5 milioni di ettari siano coltivati
per un anno in semina su sodo e arati nell’anno seguente in ragione
delle esigenze di avvicendamento frumento-riso.
Anche la semina diretta, intesa come
impiego di macchine in grado di seminare su terreno non dissodato in
un solo passaggio operando delle lavorazioni che alterano la
struttura degli strati superficiali e, in alcuni casi, anche più
profondi del terreno, è esclusa da questo conteggio. Questo sistema
colturale, lontano parente della semina su sodo, è adottato su
milioni di ettari in Russia, Ucraina e Kazakistan. Per evitare
sovrastime, nel computo delle superfici investite a semina su sodo
l’autore ha considerato una sola volta anche i suoli interessati da
doppio raccolto, una modalità produttiva diffusa in molte aree del
mondo anche grazie a questo sistema di coltivazione. Le ragioni che
stanno guidando questa forte diffusione sono legate alla maggiore
competitività della semina su sodo rispetto all’agricoltura
convenzionale, soprattutto in termini di risparmio di tempo, lavoro e
gasolio. L’attuale diff usione in tutto il mondo testimonia la
grande adattabilità di questo sistema alle diverse condizioni
climatiche, pedologiche e colturali. È praticata dal circolo polare
artico (Finlandia) fino ai tropici (Kenia, Uganda), dal livello del
mare fino a 3.000 metri di altitudine (Bolivia, Colombia), in aree
estremamente piovose con più di 2.000 mm di pioggia all’anno
(Brasile) così come in aree estremamente siccitose con soli 250 mm
di pioggia annuali (Australia occidentale, Cina settentrionale), in
aziende di piccole dimensioni così come in aziende da migliaia di
ettari (Usa, Kazakistan), su terreni con 90% di sabbia (Australia)
così come su terreni con 80% di argilla. Questa diffusione dimostra
come la semina su sodo non debba essere più considerata una semplice
moda o una stravaganza, ma una pratica agricola ormai ampiamente
consolidata. Un vero e proprio modo di approcciarsi ai concetti di
gestione sostenibile dell’agro-ambiente che non può più essere
ignorato dal mondo della ricerca, della consulenza aziendale,
dall’industria e della politica (Derpsch et al., 2010).
Diffusione in Europa
In Europa i sistemi agronomici basati
sul no-till sono diffusi su circa 1 milione di ettari, meno dell’1%
dei terreni coltivati con questo sistema a livello mondiale. Secondo
le stime fornite da Ecaf (European conservation agriculture
federation) (2006), l’Italia annovera circa 80.000 ettari di
terreno in regime di semina su sodo, equivalenti a circa l’1% dei
terreni investiti a seminativi. Nel 2005 Basch asseriva che in Europa
gli amministratori non erano ancora del tutto convinti che il
concetto di agricoltura conservativa fosse adatto a soddisfare i
requisiti di un’agricoltura pienamente sostenibile. Dal 2005, però,
le cose si sono (in parte) evolute tanto che è stata la stessa
Unione Europea, nel 2010 e nel 2011, ad approvare per l’Italia il
lancio di due misure agroambientali che, nell’ambito dei Psr del
Veneto e della Lombardia, offrono sostegno agli agricoltori che
scelgono di convertire la propria azienda alla semina su sodo. Un
modo diverso di fare agricoltura Gli aspetti sociali connessi
all’adozione di pratiche agronomiche sostenibili sono raramente
esaminati in profondità, probabilmente a causa di un assunto
(implicito) secondo il quale lavorare sugli aspetti ambientali,
produttivi e microeconomici della sostenibilità porti
automaticamente a tenere in
considerazione anche gli aspetti sociali (Allen et al., 1991).
Gli aspetti sociali della sostenibilità
possono, invece, fortemente influenzare la diffusione e l’adozione
di pratiche conservative come quelle proposte dalla semina su sodo. È
dimostrato, ad esempio, come la formazione del capitale sociale abbia
favorito in molti Paesi lo sviluppo di azioni collettive di
conservazione del suolo, contribuendo a una più rapida e diffusa
adozione delle buone pratiche agricole (Cramb, 2005). Le pratiche di
agricoltura conservativa rappresentano per le aziende e per gli
agricoltori qualcosa di più di semplici innovazioni in quanto vanno
a sovvertire il tradizionale modo di fare agricoltura che ha
caratterizzato, almeno nell’ultimo mezzo secolo, il comparto dei
seminativi in Italia. La «filosfia» produttiva proposta dalla
semina su sodo chiede agli agricoltori di abbandonare le tradizionali
pratiche di coltivazione e di adottare nuovi paradigmi produttivi che
richiedono nuove competenze e nuove capacità tecnico professionali
che, in molti casi, mettono alla prova anche il dinamismo e
l’elasticità degli stessi operatori. Non a caso ricerche di
settore ed esperienze aziendali confermano come l’agricoltura
conservativa sia più velocemente e facilmente adottata dagli
agricoltori più giovani, quelli evidentemente più predisposti a
mettere in discussione il proprio bagaglio di esperienze per aprirsi
a nuovi modi di fare agricoltura. Alla luce di ciò appare chiaro che
la «rivoluzione» dell’agricoltura conservativa dovrebbe partire
in primo luogo da una crescita culturale, tecnica e professionale del
capitale umano rappresentato dagli agricoltori, dagli agrotecnici e
dai professionisti della consulenza aziendale, figure che oggi sono
chiamate ad approcciarsi in modo nuovo ai concetti di sostenibilità
e di uso razionale delle risorse in agricoltura. Fattori che possono
favorire la diffusione Una serie di condizioni ambientali possono
favorire la diffusione della semina su sodo. Fra queste: natura
acclive dei terreni; problemi di erosione; climi aridi o periodi
siccitosi particolarmente intensi e lunghi; degrado e stanchezza dei
suoli; riduzione delle capacità e potenzialità lavorative; alti
costi di produzione e bassi prezzi di vendita; riduzione dei sostegni
in agricoltura. In queste condizioni l’adozione della semina su
sodo può risultare più rapida, specialmente se i risultati di campo
sono sin da subito incoraggianti. La presenza nel territorio di
organizzazioni, di associazioni e di agricoltori che hanno maturato
una certa esperienza nel sistema può, inoltre, contribuire in modo
determinante alla diffusione di questo nuovo paradigma produttivo.
Alcune esperienze in corso nel contesto
italiano dimostrano come gli agricoltori che adottano il no-till
siano in grado di valorizzare questi aspetti grazie alla loro
particolare attitudine a fare rete e a condividere esperienze e
risultati (Marandola et al., 2009). I tecnici della consulenza e gli
agricoltori «pionieri» sono pertanto chiamati a svolgere il ruolo
di animatori locali per convincere i colleghi che l’agricoltura
conservativa è un modo possibile, conveniente e opportuno di
coltivare. Questo richiama la necessità di realizzare visite ai
campi, di mostrare il funzionamento delle macchine e di dimostrare i
benefici connessi all’adozione della semina su sodo.
Come e cosa fare per iniziare
Una delle principali cose da fare in
vista di una conversione aziendale alla semina su sodo è la
definizione di un buon programma di rotazioni colturali.
L’importanza degli avvicendamenti
nella conservazione dello stato di fertilità dei suoli è
riconosciuta ormai da molti anni, ma oggi diviene oggetto di
particolare attenzione alla luce delle richieste di greening avanzate
dalla pac post 2013. Tale importanza diviene ancora più rilevante
nei sistemi agronomici no-till in quanto è proprio dalla mirata
rotazione delle colture che dipende lo stato fisico (porosità,
struttura) e chimico (dotazione di elementi minerali, contenuto di
sostanza organica) dei suoli. In semina su sodo, infatti, è
l’alternanza di apparati radicali fittonanti o fascicolati, robusti
o capillari, che permette di riproporre in modo seminaturale quelli
che sono gli effetti fisici normalmente realizzati dalle lavorazioni
meccaniche del terreno. Inoltre, un’attenta rotazione colturale può
contribuire a facilitare la gestione delle erbe infestanti o a
contenere il carico di parassiti e patogeni presenti in campo. In più
un mirato avvicendamento colturale, opportunamente integrato con
cover crops proteiche, può contribuire a migliorare la fertilità
del suolo offrendo anche la possibilità di contenere o
razionalizzare, nel medio lungo periodo, il ricorso alle
fertilizzazioni minerali. Alla luce di ciò, appare chiaro che in
semina su sodo la definizione di un piano di avvicendamenti colturali
debba essere funzionale non solo al prodotto che si vuole ottenere
dalle diverse colture ma anche alla funzione agronomica che tali
colture possono svolgere nella gestione della fertilità del suolo.
Limitazioni fisiche e chimiche come il compattamento dei suoli, i
ristagni, la dotazione di macro e microelementi chimici, devono
essere corrette prima di convertire un terreno alla non-lavorazione.
Questo è vero, in special modo, per i terreni più degradati, poveri
e sfruttati che, prima di iniziare, avrebbero bisogno di particolari
cure preparatorie. Fra queste, ad esempio: coltivazione di colture
preparatorie come leguminose o foraggere; opere di decompattamento;
opere di livellamento; opere di spietramento; opere di sistemazione
idraulico-agraria (per terreni pianeggianti con problemi di ristagni,
per terreni acclivi ed esposti a rischio di ruscellamenti ed erosione
superficiale) (foto 5);
letamazioni e/o buone concimazioni di
fondo. Secondo la Fao (2010) i suoli convertiti in modo permanente
alla semina su sodo, anche quelli più degradati, generalmente
migliorano le proprie caratteristiche con il passare degli anni e
queste operazioni, una volta eseguite, potrebbero non essere più
necessarie in seguito. Il successo della semina su sodo è legato al
ripristino degli equilibri seminaturali che normalmente si instaurano
in un suolo non lavorato. Il passaggio da uno stato fortemente
artificiale come quello che si genera in agricoltura convenzionale a
tale stato seminaturale richiede un periodo di conversione attraverso
il quale il sistema suolo può stabilizzarsi e offrire i migliori
risultati produttivi. La durata di tale periodo di conversione è
direttamente proporzionale allo stato di salute e fertilità che si
registra nel suolo al momento del passaggio alla non lavorazione:
tanto più stressati, stanchi, compattati e poveri di sostanza
organica sono i terreni, tanto più lunga sarà l’attesa di buoni
risultati che, nei casi più estremi, potrebbero anche faticare a
venire.
Cosa occorre allora per iniziare?
Bisogna prima di tutto acquisire
padronanza ed esperienza con le macchine e con i concetti di base,
magari partendo dalla conversione di una piccola superficie
aziendale, anche per ridurre i timori connessi al rischio. In più
l’agricoltore deve prepararsi e abituarsi a uno stile di vita e a
un piano di lavoro completamente diversi rispetto a quelli connessi
al sistema convenzionale di coltivazione. Secondo la Fao (2010) è
consigliabile che l’agricoltore consulti prima agricoltori già
esperti e condivida con loro esperienze e obiettivi. L’esperienza
di un agricoltore che lavora da anni con questo sistema può,
infatti, fornire importanti indicazioni sui fattori chiave della
buona riuscita e sugli errori che devono essere evitati.
Danilo Marandola Inea - Rete rurale
nazionale
APPROFONDIMENTO
Strategie a favore della semina su sodo
Per la semina su sodo esistono, sia a
livello aziendale sia a livello di contoterzisti, dei gap conoscitivi
e tecnologici e dei pregiudizi che andrebbero oculatamente colmati
grazie al prezioso supporto dei professionisti della consulenza.
Appare chiaro che questo insieme di funzioni dovrebbe essere
opportunamente favorito dagli enti territoriali e dalle strutture
tecniche attive a livello locale. Formazione, informazione,
consulenza aziendale, ricerca, innovazione tecnologica e
investimenti, agroambiente, cooperazione fra agricoltori sono
elementi che dovrebbero essere messi a sistema per accrescere
l’efficienza della misure Psr che saranno proposte per favorire
l’adozione del no till nella programmazione post 2013.
Tra l’altro, le proposte di
regolamento per la futura policy di sviluppo rurale (2014-2020)
annunciano delle novità che sembrano offrire la possibilità di
operare in questa direzione. In primo luogo, l’impostazione
strategica indirizzata al raggiungimento di obiettivi e non più
organizzata per assi a «tenuta stagna», cosa che può facilitare la
realizzazione di progetti integrati a più alto valore aggiunto che
sappiano utilizzare in modo complementare le diverse misure. In
secondo luogo, la proposta di una misura di cooperazione di «ampio
respiro» che si propone di voler favorire la realizzazione di
progetti condivisi volti sia alla più ampia diffusione di pratiche
agroambientali sia all’integrazione del mondo aziendale e di quello
della ricerca.
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Fonte: ARTICOLO PUBBLICATO SU
L’INFORMATORE AGRARIO N. 11/2012 A PAG. 44
http://www.aipas.eu/files/15-IA_Articolo_Semina_su_sodo_innovazione_D.Marandola_marzo_2012.pdf
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