Semina su sodo, molto più di una
semplice innovazione
di Danilo Marandola
DIFFUSIONE NEL MONDO, COSA FARE PER
INIZIARE
La semina su sodo si è diffusa negli
ultimi anni in modo esponenziale a livello mondiale (111 milioni di
ettari), anche se solo l’1% è presente in Europa. Per accrescerne
la diffusione occorre favorire l’adozione di nuova filosofia
produttiva basata sul rispetto della fertilità del suolo e sull’uso
razionale delle risorse
La semina su sodo si propone come
alternativa produttiva in grado di ridurre l’impronta ambientale
dell’agricoltura garantendo, al contempo, competitività aziendale
e qualità di vita degli agricoltori. Le esperienze in atto nel
panorama italiano e le opportunità aperte dai programmi di sviluppo
rurale di alcune regioni sembrano confermare questa opportunità e
invitano a riflettere sulla necessità di favorire la diffusione di
questo sistema produttivo ancora troppo assente dal contesto
italiano. Gli aspetti di sostenibilità (ambientale, economica e
sociale) divengono, infatti, sempre più importanti alla luce del
contesto internazionale, comunitario e nazionale in cui l’agricoltura
si trova a dover operare. Gli scenari proposti dal cambiamento
climatico e gli impegni internazionali assunti in materia di
biodiversità, acqua e suolo richiedono in modo sempre più
stringente l’adozione di stili produttivi razionali, a basse
emissioni di CO2 e rispettosi delle risorse naturali. Le tanto
discusse azioni di «greening» richieste dalla futura pac, le
indicazioni contenute nel Libro Bianco del Mipaaf o gli indirizzi
forniti dalla Strategia nazionale per la biodiversità del Mattm
(Ministero dell’ambiente) sono una dimostrazione di quanto le
tematiche di sostenibilità ambientale stiano divenendo «calde»
anche per il settore primario.
I dati preliminari forniti dal 6°
censimento Generale dell’Agricoltura (Istat, 2010) forniscono un
quadro allarmante che vede il numero di aziende diminuire del 32,2%
(–775.000) nell’ultimo decennio. Questi aspetti interessano in
modo trasversale tutto il settore primario nazionale, ma in modo
particolare il comparto dei seminativi.
I seminativi interessano oltre il 54%
della sau nazionale (circa 7 milioni di ettari) e rientrano
nell’ordinamento produttivo di oltre 800.000 aziende (circa il 51%)
di quelle attive in Italia. Se da un lato, però, i dati mostrano una
drastica riduzione, rispetto al 2000, del numero delle aziende
interessate dai seminativi (–34,6%), gli stessi dati evidenziano
come la Sau interessata da tale ordinamento produttivo si sia ridotta
solo del 4%. Questo per certi versi può essere interpretato come un
indicatore del processo di specializzazione che sta interessando, e
che interesserà sempre di più nel prossimo futuro, le nostre
aziende agricole. Competitività, sostenibilità, professionalità
sono gli elementi chiave che dovranno guidare tale processo in un
contesto economico-ambientale di portata ormai globale. È proprio in
questo contesto che deve essere collocata la (ri)scoperta di pratiche
colturali come quella proposta dalla semina su sodo.
Cos’è la semina su sodo
La semina su sodo è un modo di fare
agricoltura che si basa sulla totale assenza di lavorazioni
meccaniche del terreno. Secondo una definizione di Phillips e Young
(1973), la semina su sodo
può essere definita come un sistema di
coltivazione che si realizza in terreni non lavorati (non dissodati)
attraverso l’apertura di sottili solchi di larghezza e profondità
sufficienti a ottenere un’idonea copertura del seme e senza il
ricorso a nessun altro tipo di lavorazione del terreno. In semina su
sodo assumono fondamentale importanza: la funzione delle radici (vive
e morte) e della micro-fauna del terreno nella creazione della
porosità dei suoli (foto 1)
l’avvicendamento colturale; la
costante copertura del terreno sia attraverso il rilascio in
superficie dei residui colturali (foto 2),
sia attraverso la coltivazione dedicata
di colture di copertura (cover crop)(foto 3).
Il concetto di semina su sodo è spesso
frainteso e questo invita a chiarirne bene il significato e le
implicazioni. Per molti si tratta semplicemente di un’innovazione
tecnologica o meccanica che permette di seminare su terreni non
dissodati.
Si tratta, invece, di un vero e proprio
sistema colturale alternativo a quello convenzionale che richiede
professionalità, esperienza e adeguata tecnologia (Derpsch et al.,
2010). Per il buon esito della semina su sodo, infatti, non si deve
tenere in considerazione solo il fattore semina, ma un intero sistema
di fattori colturali e gestionali che va rivisto e adeguato rispetto
a quello che caratterizza i sistemi convenzionali di coltivazione: il
controllo delle erbe infestanti (foto 4a e 4b),
delle fitopatie e dei parassiti,
possibilmente coadiuvato da tecnologie di precisione; la
realizzazione di avvicendamenti colturali che devono essere calibrati
non solo in funzione delle finalità produttive dell’azienda, ma
anche in relazione alla funzione che le diverse colture possono
svolgere nel miglioramento della fertilità chimico-fisica del suolo;
la coltivazione di cover crops, possibilmente leguminose; le
fertilizzazioni; la gestione dello stato fisico-chimico del suolo; la
scelta delle varietà; le sistemazioni idraulico-agrarie. In semina
su sodo questi fattori devono essere adattati alle esigenze e alle
caratteristiche pedoclimatiche e produttive dell’azienda che
intende convertirsi alla «non-lavorazione». Anche per queste
caratteristiche, l’ideale adozione della semina su sodo dovrebbe
mirare a instaurare regimi permanenti o continuativi di non
lavorazione del terreno più che essere una scelta, a volte
opportunistica, cui si ricorre a stagioni alterne o in modo
occasionale.
Diffusione nel mondo
Secondo un lavoro di ricerca (Derpsch
et al., 2010), negli ultimi 10 anni la semina su sodo si è diffusa
in tutto il mondo in modo esponenziale, passando da 45 milioni di
ettari nel 1999, a 72 milioni nel 2003 per giungere, nel 2009, a 111
milioni di ettari (un incremento medio di circa 6 milioni di
ettaro/anno). I Paesi in cui è più diffusa sono Stati Uniti (26
milioni di ettari), Brasile (25 milioni) e Argentina (19 milioni).
Seguono poi Australia (17 milioni) e Canada (13 milioni). In questi
calcoli l’autore della ricerca ha escluso tutti i terreni soggetti
a un regime saltuario od occasionale di semina su sodo. Solo in Asia,
ad esempio, si stima che oltre 5 milioni di ettari siano coltivati
per un anno in semina su sodo e arati nell’anno seguente in ragione
delle esigenze di avvicendamento frumento-riso.
Anche la semina diretta, intesa come
impiego di macchine in grado di seminare su terreno non dissodato in
un solo passaggio operando delle lavorazioni che alterano la
struttura degli strati superficiali e, in alcuni casi, anche più
profondi del terreno, è esclusa da questo conteggio. Questo sistema
colturale, lontano parente della semina su sodo, è adottato su
milioni di ettari in Russia, Ucraina e Kazakistan. Per evitare
sovrastime, nel computo delle superfici investite a semina su sodo
l’autore ha considerato una sola volta anche i suoli interessati da
doppio raccolto, una modalità produttiva diffusa in molte aree del
mondo anche grazie a questo sistema di coltivazione. Le ragioni che
stanno guidando questa forte diffusione sono legate alla maggiore
competitività della semina su sodo rispetto all’agricoltura
convenzionale, soprattutto in termini di risparmio di tempo, lavoro e
gasolio. L’attuale diff usione in tutto il mondo testimonia la
grande adattabilità di questo sistema alle diverse condizioni
climatiche, pedologiche e colturali. È praticata dal circolo polare
artico (Finlandia) fino ai tropici (Kenia, Uganda), dal livello del
mare fino a 3.000 metri di altitudine (Bolivia, Colombia), in aree
estremamente piovose con più di 2.000 mm di pioggia all’anno
(Brasile) così come in aree estremamente siccitose con soli 250 mm
di pioggia annuali (Australia occidentale, Cina settentrionale), in
aziende di piccole dimensioni così come in aziende da migliaia di
ettari (Usa, Kazakistan), su terreni con 90% di sabbia (Australia)
così come su terreni con 80% di argilla. Questa diffusione dimostra
come la semina su sodo non debba essere più considerata una semplice
moda o una stravaganza, ma una pratica agricola ormai ampiamente
consolidata. Un vero e proprio modo di approcciarsi ai concetti di
gestione sostenibile dell’agro-ambiente che non può più essere
ignorato dal mondo della ricerca, della consulenza aziendale,
dall’industria e della politica (Derpsch et al., 2010).
Diffusione in Europa
In Europa i sistemi agronomici basati
sul no-till sono diffusi su circa 1 milione di ettari, meno dell’1%
dei terreni coltivati con questo sistema a livello mondiale. Secondo
le stime fornite da Ecaf (European conservation agriculture
federation) (2006), l’Italia annovera circa 80.000 ettari di
terreno in regime di semina su sodo, equivalenti a circa l’1% dei
terreni investiti a seminativi. Nel 2005 Basch asseriva che in Europa
gli amministratori non erano ancora del tutto convinti che il
concetto di agricoltura conservativa fosse adatto a soddisfare i
requisiti di un’agricoltura pienamente sostenibile. Dal 2005, però,
le cose si sono (in parte) evolute tanto che è stata la stessa
Unione Europea, nel 2010 e nel 2011, ad approvare per l’Italia il
lancio di due misure agroambientali che, nell’ambito dei Psr del
Veneto e della Lombardia, offrono sostegno agli agricoltori che
scelgono di convertire la propria azienda alla semina su sodo. Un
modo diverso di fare agricoltura Gli aspetti sociali connessi
all’adozione di pratiche agronomiche sostenibili sono raramente
esaminati in profondità, probabilmente a causa di un assunto
(implicito) secondo il quale lavorare sugli aspetti ambientali,
produttivi e microeconomici della sostenibilità porti
automaticamente a tenere in
considerazione anche gli aspetti sociali (Allen et al., 1991).
Gli aspetti sociali della sostenibilità
possono, invece, fortemente influenzare la diffusione e l’adozione
di pratiche conservative come quelle proposte dalla semina su sodo. È
dimostrato, ad esempio, come la formazione del capitale sociale abbia
favorito in molti Paesi lo sviluppo di azioni collettive di
conservazione del suolo, contribuendo a una più rapida e diffusa
adozione delle buone pratiche agricole (Cramb, 2005). Le pratiche di
agricoltura conservativa rappresentano per le aziende e per gli
agricoltori qualcosa di più di semplici innovazioni in quanto vanno
a sovvertire il tradizionale modo di fare agricoltura che ha
caratterizzato, almeno nell’ultimo mezzo secolo, il comparto dei
seminativi in Italia. La «filosfia» produttiva proposta dalla
semina su sodo chiede agli agricoltori di abbandonare le tradizionali
pratiche di coltivazione e di adottare nuovi paradigmi produttivi che
richiedono nuove competenze e nuove capacità tecnico professionali
che, in molti casi, mettono alla prova anche il dinamismo e
l’elasticità degli stessi operatori. Non a caso ricerche di
settore ed esperienze aziendali confermano come l’agricoltura
conservativa sia più velocemente e facilmente adottata dagli
agricoltori più giovani, quelli evidentemente più predisposti a
mettere in discussione il proprio bagaglio di esperienze per aprirsi
a nuovi modi di fare agricoltura. Alla luce di ciò appare chiaro che
la «rivoluzione» dell’agricoltura conservativa dovrebbe partire
in primo luogo da una crescita culturale, tecnica e professionale del
capitale umano rappresentato dagli agricoltori, dagli agrotecnici e
dai professionisti della consulenza aziendale, figure che oggi sono
chiamate ad approcciarsi in modo nuovo ai concetti di sostenibilità
e di uso razionale delle risorse in agricoltura. Fattori che possono
favorire la diffusione Una serie di condizioni ambientali possono
favorire la diffusione della semina su sodo. Fra queste: natura
acclive dei terreni; problemi di erosione; climi aridi o periodi
siccitosi particolarmente intensi e lunghi; degrado e stanchezza dei
suoli; riduzione delle capacità e potenzialità lavorative; alti
costi di produzione e bassi prezzi di vendita; riduzione dei sostegni
in agricoltura. In queste condizioni l’adozione della semina su
sodo può risultare più rapida, specialmente se i risultati di campo
sono sin da subito incoraggianti. La presenza nel territorio di
organizzazioni, di associazioni e di agricoltori che hanno maturato
una certa esperienza nel sistema può, inoltre, contribuire in modo
determinante alla diffusione di questo nuovo paradigma produttivo.
Alcune esperienze in corso nel contesto
italiano dimostrano come gli agricoltori che adottano il no-till
siano in grado di valorizzare questi aspetti grazie alla loro
particolare attitudine a fare rete e a condividere esperienze e
risultati (Marandola et al., 2009). I tecnici della consulenza e gli
agricoltori «pionieri» sono pertanto chiamati a svolgere il ruolo
di animatori locali per convincere i colleghi che l’agricoltura
conservativa è un modo possibile, conveniente e opportuno di
coltivare. Questo richiama la necessità di realizzare visite ai
campi, di mostrare il funzionamento delle macchine e di dimostrare i
benefici connessi all’adozione della semina su sodo.
Come e cosa fare per iniziare
Una delle principali cose da fare in
vista di una conversione aziendale alla semina su sodo è la
definizione di un buon programma di rotazioni colturali.
L’importanza degli avvicendamenti
nella conservazione dello stato di fertilità dei suoli è
riconosciuta ormai da molti anni, ma oggi diviene oggetto di
particolare attenzione alla luce delle richieste di greening avanzate
dalla pac post 2013. Tale importanza diviene ancora più rilevante
nei sistemi agronomici no-till in quanto è proprio dalla mirata
rotazione delle colture che dipende lo stato fisico (porosità,
struttura) e chimico (dotazione di elementi minerali, contenuto di
sostanza organica) dei suoli. In semina su sodo, infatti, è
l’alternanza di apparati radicali fittonanti o fascicolati, robusti
o capillari, che permette di riproporre in modo seminaturale quelli
che sono gli effetti fisici normalmente realizzati dalle lavorazioni
meccaniche del terreno. Inoltre, un’attenta rotazione colturale può
contribuire a facilitare la gestione delle erbe infestanti o a
contenere il carico di parassiti e patogeni presenti in campo. In più
un mirato avvicendamento colturale, opportunamente integrato con
cover crops proteiche, può contribuire a migliorare la fertilità
del suolo offrendo anche la possibilità di contenere o
razionalizzare, nel medio lungo periodo, il ricorso alle
fertilizzazioni minerali. Alla luce di ciò, appare chiaro che in
semina su sodo la definizione di un piano di avvicendamenti colturali
debba essere funzionale non solo al prodotto che si vuole ottenere
dalle diverse colture ma anche alla funzione agronomica che tali
colture possono svolgere nella gestione della fertilità del suolo.
Limitazioni fisiche e chimiche come il compattamento dei suoli, i
ristagni, la dotazione di macro e microelementi chimici, devono
essere corrette prima di convertire un terreno alla non-lavorazione.
Questo è vero, in special modo, per i terreni più degradati, poveri
e sfruttati che, prima di iniziare, avrebbero bisogno di particolari
cure preparatorie. Fra queste, ad esempio: coltivazione di colture
preparatorie come leguminose o foraggere; opere di decompattamento;
opere di livellamento; opere di spietramento; opere di sistemazione
idraulico-agraria (per terreni pianeggianti con problemi di ristagni,
per terreni acclivi ed esposti a rischio di ruscellamenti ed erosione
superficiale) (foto 5);
letamazioni e/o buone concimazioni di
fondo. Secondo la Fao (2010) i suoli convertiti in modo permanente
alla semina su sodo, anche quelli più degradati, generalmente
migliorano le proprie caratteristiche con il passare degli anni e
queste operazioni, una volta eseguite, potrebbero non essere più
necessarie in seguito. Il successo della semina su sodo è legato al
ripristino degli equilibri seminaturali che normalmente si instaurano
in un suolo non lavorato. Il passaggio da uno stato fortemente
artificiale come quello che si genera in agricoltura convenzionale a
tale stato seminaturale richiede un periodo di conversione attraverso
il quale il sistema suolo può stabilizzarsi e offrire i migliori
risultati produttivi. La durata di tale periodo di conversione è
direttamente proporzionale allo stato di salute e fertilità che si
registra nel suolo al momento del passaggio alla non lavorazione:
tanto più stressati, stanchi, compattati e poveri di sostanza
organica sono i terreni, tanto più lunga sarà l’attesa di buoni
risultati che, nei casi più estremi, potrebbero anche faticare a
venire.
Cosa occorre allora per iniziare?
Bisogna prima di tutto acquisire
padronanza ed esperienza con le macchine e con i concetti di base,
magari partendo dalla conversione di una piccola superficie
aziendale, anche per ridurre i timori connessi al rischio. In più
l’agricoltore deve prepararsi e abituarsi a uno stile di vita e a
un piano di lavoro completamente diversi rispetto a quelli connessi
al sistema convenzionale di coltivazione. Secondo la Fao (2010) è
consigliabile che l’agricoltore consulti prima agricoltori già
esperti e condivida con loro esperienze e obiettivi. L’esperienza
di un agricoltore che lavora da anni con questo sistema può,
infatti, fornire importanti indicazioni sui fattori chiave della
buona riuscita e sugli errori che devono essere evitati.
Danilo Marandola Inea - Rete rurale
nazionale
APPROFONDIMENTO
Strategie a favore della semina su sodo
Per la semina su sodo esistono, sia a
livello aziendale sia a livello di contoterzisti, dei gap conoscitivi
e tecnologici e dei pregiudizi che andrebbero oculatamente colmati
grazie al prezioso supporto dei professionisti della consulenza.
Appare chiaro che questo insieme di funzioni dovrebbe essere
opportunamente favorito dagli enti territoriali e dalle strutture
tecniche attive a livello locale. Formazione, informazione,
consulenza aziendale, ricerca, innovazione tecnologica e
investimenti, agroambiente, cooperazione fra agricoltori sono
elementi che dovrebbero essere messi a sistema per accrescere
l’efficienza della misure Psr che saranno proposte per favorire
l’adozione del no till nella programmazione post 2013.
Tra l’altro, le proposte di
regolamento per la futura policy di sviluppo rurale (2014-2020)
annunciano delle novità che sembrano offrire la possibilità di
operare in questa direzione. In primo luogo, l’impostazione
strategica indirizzata al raggiungimento di obiettivi e non più
organizzata per assi a «tenuta stagna», cosa che può facilitare la
realizzazione di progetti integrati a più alto valore aggiunto che
sappiano utilizzare in modo complementare le diverse misure. In
secondo luogo, la proposta di una misura di cooperazione di «ampio
respiro» che si propone di voler favorire la realizzazione di
progetti condivisi volti sia alla più ampia diffusione di pratiche
agroambientali sia all’integrazione del mondo aziendale e di quello
della ricerca.
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Fonte: ARTICOLO PUBBLICATO SU
L’INFORMATORE AGRARIO N. 11/2012 A PAG. 44
http://www.aipas.eu/files/15-IA_Articolo_Semina_su_sodo_innovazione_D.Marandola_marzo_2012.pdf
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