“Comunicare tutto a tutti. Abbattere
definitivamente il paradigma della segretezza. Eliminare tutti gli
ostacoli che si oppongono alla libera circolazione della conoscenza
scientifica. Tutti i risultati della ricerca devono essere
accessibili a chiunque. Sono questi, sosteneva lo storico Paolo
Rossi, alcuni valori fondanti della rivoluzione scientifica del
Seicento”.
Così, Pietro Greco, giornalista e
divulgatore scientifico, introduce un suo pezzo dedicato alla
cosiddetta “citizen science” nella versione 2.0. La citizen
science è quella forma di ricerca e produzione scientifica nella
quale hanno un ruolo centrale i non addetti ai lavori, i “non
scienziati”, in pratica i comuni cittadini. Come si legge sul
numero di Pagina 99 della scorsa settimana, di recente, questa
“scienza alternativa” ha ricevuto una sorprendente, e per questo
ancor più significativa, legittimazione addirittura dalla Casa
Bianca, dato che l’amministrazione Obama vuole incentivare la
“scienza dei cittadini” sulla base non solo dell’indiscusso
valore civile e culturale della pratica, ma anche di quello
economico, stimato in 2,5 miliardi di dollari l’anno.
Anche nella scienza “ufficiale”
italiana non mancano correnti di pensiero che si rifanno
sostanzialmente a queste espressioni avanzate del mondo scientifico
internazionale, per quanto, come visto, ormai sempre più
consolidate. Uno tra i più rilevanti è il modello della “ricerca
partecipata” propugnato da “Epichange”, nato all’interno
della rivista Epidemiologia e Prevenzione. Per quanto, in questo
Paese, le teorie (e le relative pratiche) critiche sul metodo della
delega in materia di salute, e quindi di sanità e di ricerca
scientifica, specie sui posti di lavoro, abbiano una storia antica e
nobile (un nome su tutti: quello di Giulio Antonio Maccacaro).
Il modello della “ricerca partecipata” sta trovando una sua importante applicazione in Puglia, con uno studio sullo stato di salute della popolazione di Manfredonia, città teatro, ormai quasi quarant’anni fa, di un gravissimo incidente industriale accaduto nell’impianto Enichem, dal quale si sprigionò una nube tossica contenente composti a base di arsenico. La Puglia, però, si conferma terra di grandi contrasti. Anche in ambito scientifico.
A fronte, infatti, di esperienze
avanguardisticamente virtuose come quella di Manfredonia, dove
ricercatori professionisti collaborano, a pari dignità, con i
cittadini interessati alla ricerca, i quali, per una volta, diventano
soggetti attivi e non meri oggetti dello studio, vi sono altre
questioni, dall’enorme impatto civile, ambientale e sanitario,
nelle quali la scienza ufficiale non si copre propriamente di gloria
sotto il profilo della ricerca partecipata. A tacer d’altro.
Gli ultimi, clamorosi sviluppi della
vicenda “Xylella”, nel Salento, sono noti: la Procura della
Repubblica blocca le eradicazioni degli ulivi; indaga i principali
responsabili della gestione della presunta “emergenza”, tra i
quali tutti i dirigenti degli enti scientifici regionali che hanno
diretto, per non dire “ideato”, la parte tecnico-scientifica
della storia; ma, soprattutto, sovverte, sulla base di una consulenza
tecnico-scientifica, tutti i veri e propri dogmi che, stando alla
prospettazione accusatoria, quella stessa classe scientifica aveva
imposto come verità ufficiali alla comunità salentina e, stante il
rilievo nazionale della vicenda, all’opinione pubblica del Paese in
generale. Verità ufficiali sulle quali si è già in parte consumato
uno scempio ambientale “legale” senza precedenti in danno del
paesaggio, dell’ambiente e della salute pubblica salentini, e uno
ancor più colossale stava per perpetrarsi con il pianificato
abbattimento di centinaia di altri monumenti naturali, quali sono gli
alberi d’ulivo.
La storia giudiziaria è ancora tutta
da scrivere; la verità tutta da scoprire nel processo; e tutti
coloro che hanno ricevuto avvisi di garanzia sono presunti non
colpevoli fino al giudicato penale di condanna. Ciò posto, anche in
questa fase assolutamente embrionale del procedimento penale, qualche
considerazione si può e si deve farla. La prima delle quali riguarda
proprio il ruolo della scienza e degli scienziati protagonisti di
questa vicenda: abbiano commesso o meno reati, siano questi, in
ipotesi, di natura dolosa o colposa (e le varie ipotesi non sono
proprio equivalenti, com’è ovvio), quegli uomini di scienza hanno,
oggi, certamente una cospicua quantità di materiali di
“autocritica”, per dirla in maniera delicata.
L’impostazione è stata quella
solita, “preseicentesca”, per parafrasare lo storico Paolo Rossi
su citato: quella della Torre d’avorio, dove questo trust di
cervelli incubava le sue folgoranti intuizioni e da dove ne usciva
per comunicare all’opinione pubblica soprattutto la sua spocchiosa
irrisione verso coloro (i noti “santoni”) che, in qualsiasi modo,
osassero porre qualche dubbio o domanda su quei dogmi di fede,
spacciati per verità scientifiche, che oggi una Procura della
Repubblica, sulla base di un suo studio, fa a brandelli. Un giudice
della Corte Suprema degli Stati Uniti, Luis Brandeis, diceva che “la
luce del sole è il miglior disinfettante”.
Quando una parte, ancora troppo ampia,
di scienziati si farà una ragione di questo principio, renderà un
grande servigio alla scienza e al Paese. Nonché a se stessa.
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