giovedì 24 dicembre 2015

Xylella 24 dicembre 2015

REPORTAGE
Lo scontro tra giustizia e scienza sulla xylella in Puglia

Daniele Rielli (Quit), giornalista e scrittore
Qualche giorno fa la procura di Lecce ha disposto il sequestro degli ulivi infettati dal batterio della xylella in Puglia destinati allo sradicamento nel tentativo di contenere il contagio, e ha indagato dieci persone, compreso il commissario speciale e alcuni ricercatori.

A ottobre lavorando per una rivista svizzera ero salito con due ricercatori dell’università di Bari e Joseph Marie Bové – uno dei più importanti botanisti del mondo, membro dell’accademia delle scienze di Parigi e maggior esperto mondiale della xylella degli agrumi – su un piccolo promontorio non molto lontano da Gallipoli. Da lì sopra il colpo d’occhio è qualcosa che difficilmente si scorda, una distesa di ulivi secchi, cuspidi grigie e spettrali, che si estende fino all’orizzonte. Dopo aver percorso in auto la zona dei primi focolai, Bové, una persona che per carattere ed età avanzata non le manda certo a dire, ha sentenziato: “Oggi questa è la peggior emergenza fitosanitaria al mondo”.

Più tardi, durante la visita in un campo, qualcuno gli ha riferito che una larga fetta dell’opinione pubblica non credeva ancora che il batterio xylella fosse la causa primaria del disseccamento, pensava piuttosto che ci fosse sotto un qualche tipo di complotto. Bovè allora ha sussurrato alcuni incredible con il suo inglese con un forte accento francese e infine ha scosso la testa torvo e ha chiesto: “Davvero pensano questo nel 2015?”. Davvero.

La situazione

Nei due anni trascorsi dall’individuazione del batterio nella zona di Gallipoli, le strade, i bar e i social network del Salento sono stati percorsi da un numero inimmaginabile di teorie complottiste. L’ultima è la panzana che vorrebbe la xylella come una malattia diffusa dolosamente per agevolare il passaggio del gasdotto Tap (che però, se davvero c’è bisogno di rispondere a una cosa del genere, passerà esattamente dall’altra parte del Salento rispetto alla zona di comparsa della xylella).

Un contesto in cui persone prive di alcun tipo di studio universitario contestavano i risultati dei centri di ricerca accreditati dalle istituzioni è diventato qualcosa di perfettamente normale. Di fronte a un’epidemia fitosanitaria di una gravità senza precedenti una lunga schiera di santoni improvvisati ha così avuto sull’opinione pubblica un’influenza pari, se non maggiore, a quello dei ricercatori di Cnr, Iam ed Efsa.

Quest’ultimo centro di ricerca europeo ha persino dovuto, sostanzialmente a furor di popolo, esprimersi su un video di YouTube che ritraeva una supposta sperimentazione per curare le piante. Il video, per inciso, era proposto senza alcun riferimento alla metodologia scientifica utilizzata e quindi perfettamente inutile.

Ad ogni buon conto quelle piante, spesso citate sui social network come esempio di guarigione, le ho visitate nuovamente a ottobre: lungi dall’essere guarite erano ormai completamente secche.

L’ambientalista che aveva organizzato la “sperimentazione” sostiene ora, non senza invidiabile savoir-faire, che siano state avvelenate nottetempo da ignoti.

Un altro duro colpo alla nostra reputazione internazionale, dopo le rimostranze europee alla timidezza con cui è stata affrontata l’epidemia

Quando appare il male, è sempre rassicurante immaginarsi un colpevole umano, un capro espiatorio. È una lunga tradizione, ne sapeva qualcosa René Girard, il filosofo francese recentemente scomparso – e questa è una delle cose che ho constatato personalmente quando in primavera ho dedicato alla xylella un lungo reportage su Internazionale.

A stigmatizzare il clima da caccia alle streghe nei confronti dei ricercatori è intervenuta qualche mese fa anche Nature, una delle più autorevoli riviste scientifiche del mondo, con un articolo molto duro. In seguito sono giunti in Puglia altri mezzi d’informazione europei a raccontare la stessa storia e ai ricercatori pugliesi sono arrivati attestati di stima da molti colleghi stranieri. Un altro duro colpo alla nostra reputazione internazionale, dopo le quasi sempre giuste rimostranze della comunità europea sulla timidezza politica con cui è stata affrontata l’epidemia e l’ingresso sul continente di un patogeno da quarantena.

Un esempio di fraintendimento – che è diventato purtroppo classico e per questo vale la pena di citare fra i tanti – è stato quello sui dati dei primi rilevamenti di xylella: i test segnalavano la presenza del batterio in un numero percentualmente molto basso di campioni.

Questo dato è stato interpretato spesso come un segno della sopravvalutazione dell’emergenza. Ma se si va a vedere, come sarebbe ovvio e necessario, la metodologia di quei test si scopre che si tratta di rilevamenti effettuati su una griglia che copre un territorio notevolmente più ampio di quello dei primi focolai.

In altri termini quelle rilevazioni servivano a capire quanto era diffuso il batterio sul territorio, non quante delle piante affette da disseccamento presentassero il batterio – in quest’altro caso la percentuale sale repentinamente attorno al 90 per cento. Inoltre è possibile che il batterio sia localizzato solo in una zona della pianta e sfugga così a una parte delle rilevazioni.

Questo è solo un esempio di quello che si può fare con i numeri, se non li si maneggia con la cura che richiedono.

L’indagine

Purtroppo però questa statistica non è solo stata utilizzata a scopi riduzionisti da trasmissioni televisive come Le Iene, già coinvolte nella vicenda Stamina; si trova anche nel dispositivo di sequestro degli ulivi destinati all’abbattimento emesso dalla procura di Lecce la scorsa settimana.

Questo non è neppure l’unico motivo che sembra avvalorare la sensazione di trovarsi di fronte a un’ordinanza influenzata ideologicamente – vedi le dichiarazioni rilasciate alla Gazzetta del mezzogiorno dal giudice Vito Savino. Pur rivendicando un percorso autonomo, i pm leccesi stessi ammettono di essere partiti dagli esposti degli ambientalisti.

Avranno anche seguito un altro percorso ma i risultati finali non si discostano davvero molto dalla retorica pubblica di tante associazioni che contestano i risultati dei ricercatori incaricati. Non sarebbe automaticamente un problema, ma è interessante vedere in che modo questo accade.

I magistrati per esempio sostengono che è impossibile eliminare totalmente la popolazione del vettore patogeno, però non ricordano che i ricercatori non hanno mai sostenuto il contrario; l’eliminazione è impossibile, appunto. L’obiettivo dei ricercatori è sempre stata una forte riduzione della popolazione infetta per contenere la diffusione del batterio.

L’atteggiamento o tutto o niente della procura non sembra il più adatto ad affrontare un’epidemia, ma se non altro introduce alla natura profonda dello scontro fra scienza e giustizia, che è prima di tutto uno scontro fra competenze diverse.

I pubblici ministeri citano il famoso – e corposo – parere scientifico dell’Efsa quando afferma che le strategie di eradicazione (ovvero di radicale eliminazione del batterio) non hanno riscontri positivi nei casi di xylella. Ma omettono di dire che lo stesso rapporto consiglia comunque fortemente questa strategia in alcuni casi, quelli cioè che riguardano le zone dove il batterio non è ancora insediato in maniera diffusa.

In questi casi l’efficacia di questa strategia viene considerata comunque alta: un apparente contraddizione che si spiega con il fatto che al momento non esistono strategie assolutamente efficaci.

Questo è il motivo per cui l’eradicazione era stata prevista, per mezzo anche di sradicamenti di alberi, in alcune parti del piano Silletti, dando origine a forti proteste popolari. E queste pagine del rapporto Efsa sono citate esplicitamente dalla procura ma solo nelle parti a sostegno della tesi accusatoria.

È altrettanto strano vedere come i risultati delle ricerche di alcuni indagati del Cnr e dello Iam siano citati decine di volte dall’Efsa – apparentemente considerato dalla procura un ente più credibile e in ogni caso esterno all’indagine – e siano presenti addirittura anche nei cenni scientifici dell’indagine. S’indagano quindi dei ricercatori ma lo si fa utilizzando parte delle loro ricerche per costruire il quadro scientifico di riferimento dell’indagine stessa. Quanto meno ironico, ma è quello che succede quando si compie il cortocircuito fra scienza e giustizia.

Chi giudica la scienza?

Il principale interrogativo che genera quest’ennesima svolta nella vicenda è il seguente: è lecito che sia la magistratura a giudicare i risultati dei ricercatori o, piuttosto, a farlo deve essere la comunità scientifica in un quadro di garanzie di riferimento? I rischi sono chiari ed evidenti se si guarda ai due esempi appena portati o se si pensa a casi del passato come appunto Stamina, o il processo sul terremoto dell’Aquila.

E per comunità scientifica che dovrebbe giudicare la bontà scientifica dei lavori s’intende davvero la comunità scientifica, e non qualche singolo ricercatore, magari con curriculum molto diverso da quelli delle persone indagate.

Nell’ordinanza di sequestro ci sono anche alcuni assunti dei magistrati che sembrano pregiudizialmente ostili alle coltivazioni agricole intensive in quanto tali. Le opinioni e gli indirizzi riguardanti i tipi di agricoltura dovrebbero essere questioni da dibattere in sedi politiche, economiche e sociali, e non riguardare l’amministrazione della giustizia.

Sembra quasi di trovarsi di fronte a un paziente che accusa il medico di averlo contagiato

Ancora: si affastellano accuse per presunte imprecisioni e ritardi ed errori – per esempio una serra sperimentale con un buco in quella che comunque era già stata dichiarata da mesi zona infetta –, accuse che forse troveranno un riscontro ma in ogni caso sembrano stridere con l’enormità dei capi d’accusa.

Al momento mancano soprattutto le prove e i moventi che potrebbero aver spinto rappresentanti di enti fra loro diversissimi, e fra i quali non scorre necessariamente buon sangue, ad agevolare un disastro naturale di dimensioni inaudite mentre lavoravano, non dimentichiamolo, per le istituzioni italiane.

E cosa dire della coerenza logica, visto che da un lato si mette sul tavolo l’accusa di diffusione di malattia, dall’altra si ventila l’idea che la xylella sia sempre esistita – ma dove sono le evidenze scientifiche in questo senso? – e che non sia poi così dannosa.

Sembra insomma quasi di trovarsi di fronte a un paziente che, messo davanti a una diagnosi troppo pesante per i suoi gusti, accusa il medico di averlo contagiato, salvo subito dopo negare che la malattia in questione esista davvero.

Non è una bella situazione quella in cui si trova oggi il Salento: riuscire a mettere in atto sul territorio le procedure di gestione del batterio da quarantena che la comunità scientifica internazionale, l’Italia e l’Europa chiedono, ora diventa sempre più difficile.

Occorre infatti ricordare che xylella è una piaga che non ha solo una dimensione locale, ma rappresenta un’enorme minaccia all’agricoltura pugliese, italiana ed europea. Dopo aver letto dell’ennesimo blocco del piano Silletti il collega svizzero che era con me quel pomeriggio di fronte all’oceano di ulivi secchi mi ha scritto una mail: “Ci sarebbe da ridere se non ci fosse da piangere”.

Era la prima riga, e io non ho saputo bene cos’altro aggiungere.






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