REPORTAGE
Lo scontro tra giustizia e scienza sulla xylella in Puglia
Daniele Rielli (Quit), giornalista e scrittore
Qualche giorno fa la procura di Lecce ha disposto il
sequestro degli ulivi infettati dal batterio della xylella in Puglia destinati
allo sradicamento nel tentativo di contenere il contagio, e ha indagato dieci
persone, compreso il commissario speciale e alcuni ricercatori.
A ottobre lavorando per una rivista svizzera ero salito con
due ricercatori dell’università di Bari e Joseph Marie Bové – uno dei più
importanti botanisti del mondo, membro dell’accademia delle scienze di Parigi e
maggior esperto mondiale della xylella degli agrumi – su un piccolo promontorio
non molto lontano da Gallipoli. Da lì sopra il colpo d’occhio è qualcosa che
difficilmente si scorda, una distesa di ulivi secchi, cuspidi grigie e
spettrali, che si estende fino all’orizzonte. Dopo aver percorso in auto la
zona dei primi focolai, Bové, una persona che per carattere ed età avanzata non
le manda certo a dire, ha sentenziato: “Oggi questa è la peggior emergenza
fitosanitaria al mondo”.
Più tardi, durante la visita in un campo, qualcuno gli ha
riferito che una larga fetta dell’opinione pubblica non credeva ancora che il
batterio xylella fosse la causa primaria del disseccamento, pensava piuttosto
che ci fosse sotto un qualche tipo di complotto. Bovè allora ha sussurrato
alcuni incredible con il suo inglese con un forte accento francese e infine ha
scosso la testa torvo e ha chiesto: “Davvero pensano questo nel 2015?”.
Davvero.
La situazione
Nei due anni trascorsi dall’individuazione del batterio
nella zona di Gallipoli, le strade, i bar e i social network del Salento sono
stati percorsi da un numero inimmaginabile di teorie complottiste. L’ultima è
la panzana che vorrebbe la xylella come una malattia diffusa dolosamente per
agevolare il passaggio del gasdotto Tap (che però, se davvero c’è bisogno di
rispondere a una cosa del genere, passerà esattamente dall’altra parte del
Salento rispetto alla zona di comparsa della xylella).
Un contesto in cui persone prive di alcun tipo di studio
universitario contestavano i risultati dei centri di ricerca accreditati dalle
istituzioni è diventato qualcosa di perfettamente normale. Di fronte a
un’epidemia fitosanitaria di una gravità senza precedenti una lunga schiera di
santoni improvvisati ha così avuto sull’opinione pubblica un’influenza pari, se
non maggiore, a quello dei ricercatori di Cnr, Iam ed Efsa.
Quest’ultimo centro di ricerca europeo ha persino dovuto,
sostanzialmente a furor di popolo, esprimersi su un video di YouTube che
ritraeva una supposta sperimentazione per curare le piante. Il video, per
inciso, era proposto senza alcun riferimento alla metodologia scientifica
utilizzata e quindi perfettamente inutile.
Ad ogni buon conto quelle piante, spesso citate sui social
network come esempio di guarigione, le ho visitate nuovamente a ottobre: lungi
dall’essere guarite erano ormai completamente secche.
L’ambientalista che aveva organizzato la “sperimentazione”
sostiene ora, non senza invidiabile savoir-faire, che siano state avvelenate
nottetempo da ignoti.
Un altro duro colpo alla nostra reputazione internazionale,
dopo le rimostranze europee alla timidezza con cui è stata affrontata
l’epidemia
Quando appare il male, è sempre rassicurante immaginarsi un
colpevole umano, un capro espiatorio. È una lunga tradizione, ne sapeva
qualcosa René Girard, il filosofo francese recentemente scomparso – e questa è
una delle cose che ho constatato personalmente quando in primavera ho dedicato
alla xylella un lungo reportage su Internazionale.
A stigmatizzare il clima da caccia alle streghe nei
confronti dei ricercatori è intervenuta qualche mese fa anche Nature, una delle
più autorevoli riviste scientifiche del mondo, con un articolo molto duro. In
seguito sono giunti in Puglia altri mezzi d’informazione europei a raccontare
la stessa storia e ai ricercatori pugliesi sono arrivati attestati di stima da
molti colleghi stranieri. Un altro duro colpo alla nostra reputazione
internazionale, dopo le quasi sempre giuste rimostranze della comunità europea
sulla timidezza politica con cui è stata affrontata l’epidemia e l’ingresso sul
continente di un patogeno da quarantena.
Un esempio di fraintendimento – che è diventato purtroppo
classico e per questo vale la pena di citare fra i tanti – è stato quello sui
dati dei primi rilevamenti di xylella: i test segnalavano la presenza del
batterio in un numero percentualmente molto basso di campioni.
Questo dato è stato interpretato spesso come un segno della
sopravvalutazione dell’emergenza. Ma se si va a vedere, come sarebbe ovvio e
necessario, la metodologia di quei test si scopre che si tratta di rilevamenti
effettuati su una griglia che copre un territorio notevolmente più ampio di
quello dei primi focolai.
In altri termini quelle rilevazioni servivano a capire
quanto era diffuso il batterio sul territorio, non quante delle piante affette
da disseccamento presentassero il batterio – in quest’altro caso la percentuale
sale repentinamente attorno al 90 per cento. Inoltre è possibile che il
batterio sia localizzato solo in una zona della pianta e sfugga così a una
parte delle rilevazioni.
Questo è solo un esempio di quello che si può fare con i
numeri, se non li si maneggia con la cura che richiedono.
L’indagine
Purtroppo però questa statistica non è solo stata utilizzata
a scopi riduzionisti da trasmissioni televisive come Le Iene, già coinvolte
nella vicenda Stamina; si trova anche nel dispositivo di sequestro degli ulivi
destinati all’abbattimento emesso dalla procura di Lecce la scorsa settimana.
Questo non è neppure l’unico motivo che sembra avvalorare la
sensazione di trovarsi di fronte a un’ordinanza influenzata ideologicamente –
vedi le dichiarazioni rilasciate alla Gazzetta del mezzogiorno dal giudice Vito
Savino. Pur rivendicando un percorso autonomo, i pm leccesi stessi ammettono di
essere partiti dagli esposti degli ambientalisti.
Avranno anche seguito un altro percorso ma i risultati finali
non si discostano davvero molto dalla retorica pubblica di tante associazioni
che contestano i risultati dei ricercatori incaricati. Non sarebbe
automaticamente un problema, ma è interessante vedere in che modo questo
accade.
I magistrati per esempio sostengono che è impossibile
eliminare totalmente la popolazione del vettore patogeno, però non ricordano
che i ricercatori non hanno mai sostenuto il contrario; l’eliminazione è
impossibile, appunto. L’obiettivo dei ricercatori è sempre stata una forte riduzione
della popolazione infetta per contenere la diffusione del batterio.
L’atteggiamento o tutto o niente della procura non sembra il
più adatto ad affrontare un’epidemia, ma se non altro introduce alla natura
profonda dello scontro fra scienza e giustizia, che è prima di tutto uno
scontro fra competenze diverse.
I pubblici ministeri citano il famoso – e corposo – parere
scientifico dell’Efsa quando afferma che le strategie di eradicazione (ovvero
di radicale eliminazione del batterio) non hanno riscontri positivi nei casi di
xylella. Ma omettono di dire che lo stesso rapporto consiglia comunque
fortemente questa strategia in alcuni casi, quelli cioè che riguardano le zone
dove il batterio non è ancora insediato in maniera diffusa.
In questi casi l’efficacia di questa strategia viene
considerata comunque alta: un apparente contraddizione che si spiega con il
fatto che al momento non esistono strategie assolutamente efficaci.
Questo è il motivo per cui l’eradicazione era stata
prevista, per mezzo anche di sradicamenti di alberi, in alcune parti del piano
Silletti, dando origine a forti proteste popolari. E queste pagine del rapporto
Efsa sono citate esplicitamente dalla procura ma solo nelle parti a sostegno
della tesi accusatoria.
È altrettanto strano vedere come i risultati delle ricerche
di alcuni indagati del Cnr e dello Iam siano citati decine di volte dall’Efsa –
apparentemente considerato dalla procura un ente più credibile e in ogni caso
esterno all’indagine – e siano presenti addirittura anche nei cenni scientifici
dell’indagine. S’indagano quindi dei ricercatori ma lo si fa utilizzando parte
delle loro ricerche per costruire il quadro scientifico di riferimento
dell’indagine stessa. Quanto meno ironico, ma è quello che succede quando si
compie il cortocircuito fra scienza e giustizia.
Chi giudica la scienza?
Il principale interrogativo che genera quest’ennesima svolta
nella vicenda è il seguente: è lecito che sia la magistratura a giudicare i
risultati dei ricercatori o, piuttosto, a farlo deve essere la comunità
scientifica in un quadro di garanzie di riferimento? I rischi sono chiari ed
evidenti se si guarda ai due esempi appena portati o se si pensa a casi del
passato come appunto Stamina, o il processo sul terremoto dell’Aquila.
E per comunità scientifica che dovrebbe giudicare la bontà
scientifica dei lavori s’intende davvero la comunità scientifica, e non qualche
singolo ricercatore, magari con curriculum molto diverso da quelli delle
persone indagate.
Nell’ordinanza di sequestro ci sono anche alcuni assunti dei
magistrati che sembrano pregiudizialmente ostili alle coltivazioni agricole
intensive in quanto tali. Le opinioni e gli indirizzi riguardanti i tipi di
agricoltura dovrebbero essere questioni da dibattere in sedi politiche,
economiche e sociali, e non riguardare l’amministrazione della giustizia.
Sembra quasi di trovarsi di fronte a un paziente che accusa
il medico di averlo contagiato
Ancora: si affastellano accuse per presunte imprecisioni e
ritardi ed errori – per esempio una serra sperimentale con un buco in quella
che comunque era già stata dichiarata da mesi zona infetta –, accuse che forse
troveranno un riscontro ma in ogni caso sembrano stridere con l’enormità dei
capi d’accusa.
Al momento mancano soprattutto le prove e i moventi che
potrebbero aver spinto rappresentanti di enti fra loro diversissimi, e fra i
quali non scorre necessariamente buon sangue, ad agevolare un disastro naturale
di dimensioni inaudite mentre lavoravano, non dimentichiamolo, per le istituzioni
italiane.
E cosa dire della coerenza logica, visto che da un lato si
mette sul tavolo l’accusa di diffusione di malattia, dall’altra si ventila
l’idea che la xylella sia sempre esistita – ma dove sono le evidenze
scientifiche in questo senso? – e che non sia poi così dannosa.
Sembra insomma quasi di trovarsi di fronte a un paziente
che, messo davanti a una diagnosi troppo pesante per i suoi gusti, accusa il
medico di averlo contagiato, salvo subito dopo negare che la malattia in
questione esista davvero.
Non è una bella situazione quella in cui si trova oggi il
Salento: riuscire a mettere in atto sul territorio le procedure di gestione del
batterio da quarantena che la comunità scientifica internazionale, l’Italia e
l’Europa chiedono, ora diventa sempre più difficile.
Occorre infatti ricordare che xylella è una piaga che non ha
solo una dimensione locale, ma rappresenta un’enorme minaccia all’agricoltura
pugliese, italiana ed europea. Dopo aver letto dell’ennesimo blocco del piano
Silletti il collega svizzero che era con me quel pomeriggio di fronte
all’oceano di ulivi secchi mi ha scritto una mail: “Ci sarebbe da ridere se non
ci fosse da piangere”.
Era la prima riga, e io non ho saputo bene cos’altro
aggiungere.
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