La citizen science 2.0
di Pietro Greco*
Comunicare tutto a tutti. Abbattere
definitivamente il paradigma della segretezza. Eliminare tutti gli
ostacoli che si oppongono alla libera circolazione della conoscenza
scientifica. Tutti i risultati della ricerca devono essere
accessibili a chiunque.
Sono questi, sosteneva lo storico
Paolo Rossi, alcuni valori fondanti della rivoluzione scientifica del
Seicento. Se in passato, però, molti ostacoli, anche pratici,
rendevano alquanto difficile la concreta realizzazione di queste
aspirazioni, ora, grazie al Web, è possibile.
E non è un caso che sia stata proprio
la Royal Society di Londra – una delle più antiche accademie
scientifiche del mondo, quella che pubblicando le Philosophical
Transactions ha inventato nel XVII secolo il moderno sistema di
comunicazione della scienza – a mettere autorevolmente sul tavolo
il problema nel 2012, quando ha pubblicato il rapporto Science as an
Open Enterprise, dove si sostiene che la scienza aperta, l’accesso
libero e gratuito alla conoscenza scientifica, sia un bene in sé.
Perché rendendo del tutto libero il suo scambio, la conoscenza
aumenta.
Il movimento della scienza aperta
In realtà, ci sono molti modi per
interpretare il concetto antico, ma rinnovato, di scienza aperta.
Benedikt Fecher e Sascha Friesike, in un testo, Open Science: One
Term, Five Schools of Tought pubblicato nel 2014 (in Open Science,
Springer) sostengono che vi sono almeno cinque diverse scuole di
pensiero nel movimento della scienza aperta. Una è la scuola
“democratica”, il cui obiettivo è rendere la conoscenza
scientifica liberamente disponibile per chiunque; una seconda scuola
è quella “pragmatica”, che mira a rendere più efficiente la
ricerca attraverso la collaborazione tra scienziati; una terza è
quella “infrastrutturale”, che si concentra sugli strumenti
(elettronici) per rendere effettivamente aperta la scienza; una
quarta è la “valutativa”, che cerca di mettere a punto sistemi
di valutazione alternativi del lavoro scientifico. Ma quella che ci
interessa di più in questa sede è la scuola “pubblica”, che
cerca di abbattere definitivamente le mura della torre d’avorio che
separa la “repubblica della scienza” dal resto della società,
proponendo il coinvolgimento attivo dei cittadini nell’impresa
scientifica. L’obiettivo è la Citizen science da raggiungere
attraverso lo science blogging e, più in generale, il social
networking. In poche parole, impegnando gli scienziati in un dialogo
fitto e diretto con i cittadini mediante gli strumenti del Web 2.0.
In breve: per i fautori della scuola
“pubblica” la scienza deve uscire dai confini della comunità
degli esperti per rendersi accessibile a un audience più vasta.
L’assunzione base è che le tecnologie del social Web e del Web 2.0
consentono e anzi quasi impongono agli scienziati: 1) di “aprire”
i risultati della ricerca ai non-esperti, rendendoli comprensibili;
2) di “aprire” i processi di ricerca chiamando il grande pubblico
a parteciparvi.
Le diverse correnti nella scuola
“pubblica”
Benedikt Fecher e Sascha Friesike
hanno individuato due diverse correnti nell’ambito della scuola
pubblica. La prima è più sensibile alla produzione della conoscenza
scientifica, da estendere al grande pubblico; la seconda è più
sensibile al prodotto, ovvero alla comprensibilità dei risultati
della ricerca. Entrambe le correnti sostengono la necessità di nuove
relazioni tra gli scienziati e il grande pubblico e interpretano
l’open science, come trasferimento di conoscenza a un pubblico più
ampio. Di conseguenza, considerano i social network come strumenti –
come alcuni tra i migliori strumenti – dell’openess,
dell’apertura.
Social networking e comprensibilità
La prima delle due correnti di pensiero
della scuola “pubblica” sostiene il dovere degli scienziati di
produrre ricerca comprensibile. Nel 2012 Oliver Tacke, in apertura
del suo blog, ha perentoriamente richiesto: scienziato, Esci dalla
torre d’avorio.
Julian Cribb e Tjempaka Sari avevano
individuato, in precedenza (nel 2010), un nodo da sciogliere,
chiedono a sé stessi e ai colleghi un cambiamento di stile della
scrittura: “La scienza è complicata per natura, ciò fa sì che la
cosa più importante per che scrive di scienza dovrebbe essere la
semplicità, la trasparenza e la chiarezza”. Gli scienziati che
comunicano devono rendersi conto che quanto più l’audience diventa
ampia e l’argomento specifico, tanto più il linguaggio accademico
deve adattarsi e trasformarsi in linguaggio comune.
Molti hanno individuato strumenti
specifici per la comunicazione della scienza al grande pubblico.
Cornelius Puschmann e Katrin Weller, per esempio, sostengono che lo
strumento più adatto siano i microblogging con Twitter, non solo per
indirizzare il grande pubblico verso la letteratura rilevante, ma
anche come fonte alternativa di impact factor. Ann Grand, sul numero
di settembre 2012 della rivista Science Communication, sostiene che
usando gli strumenti del Web 2.0 e interagendo con i cittadini, un
ricercatore può diventare una figura pubblica e un mediatore onesto
dell’informazione in suo possesso.
Dal canto loro Benedikt Fecher e
Sascha Friesike pensano e dicono che, mentre numerosi ricercatori già
pongono l’attenzione sui nuovi strumenti e sui nuovi format della
comunicazione della scienza, c’è ancora bisogno di indagare sul
cambiamento di ruolo del ricercatore nella società digitale.
Occorre, in altre parole, definire come relazionarsi con le nuove
forme di pressione del pubblico e come giustificare sia la necessità
di una comunicazione istantanea sia la capacità di modellare la
propria ricerca per il pubblico. Una domanda fondata, quindi, è: può
un ricercatore accettare la sfida di fare ricerca su temi altamente
complessi e nel medesimo tempo prepararla in bit d’informazione
comprensibili al grande pubblico e trasmissibili attraverso i social
network? Oppure occorre la presenza di nuovi mediatori professionali
(nuovi giornalisti e più in generale nuovi comunicatori
scientifici)?
Le domande sono aperte. Siamo in piena
fase i transizione e nessuno ha una ricetta definitiva.
Partecipazione ai processi della
ricerca
Rendere il processo interno alla
ricerca non solo visibile ma anche accessibile all’uomo comune,
scrivono Fecher e Friesike, potrebbe sembrare un processo romantico.
Eppure, le nuove tecnologie elettroniche di comunicazione consentono
non solo di documentare la ricerca in maniera sistematica, ma anche
di includere nel processo attori non esperti una volta esclusi. È il
caso della citizen science che prevede, appunto, la partecipazione di
non scienziati e di dilettanti nella ricerca.
Un esempio è Rosetta@home, un
progetto di distributed-computing (computazione distribuita) in cui
utenti volontari mettono a disposizione la potenza del loro computer
(mentre non è in uso) per l’analisi virtuale del ripiegamento
delle proteine. Il software necessario per partecipare al progetto ha
consentito a ogni utente di osservare come lavora il suo computer e
come ripiega (virtualmente) le proteine cercando una configurazione
tridimensionale adatta. Il progetto non ha avuto solo una dimensione
didattica. Molti utenti, infatti, hanno proposto una serie di
suggerimenti per accelerare il processo di ripiegamento. Reagendo
all’inaspettato coinvolgimento attivo dei collaboratori non
esperti, il gruppo di ricerca ha applicato una nuova interfaccia al
programma per mettere in grado gli utenti di aiutare nel processo di
ripiegamento sotto forma di un gioco, chiamato Foldit. Raccontando
sulla rivista scientifica Nature questo risultato, in un articolo
intitolato significativamente Citizen Science: People Power, Eric
Hand, che immagina di scrivere nell’agosto 2020, dice: “Coinvolgere
i cervelli umani nel problem solving, Foldit ha portato il concetto
di BOINC’s distributed-computing a un livello completamente nuovo”.
In questo caso la citizen science ha
individuato una promettente strategia per ‘coinvolgere’ forza
lavoro volontaria. Ci si potrebbe interrogare sulla qualità
dell’intervento di dilettanti sulla parte analitica della ricerca.
Christina Catlin-Groves ha seguito la medesima linea del progetto
Rosetta@home, sostenendo e dimostrando che le maggiori potenzialità
della citizen science sono nel monitoraggio ecologico e della
biodiversità.
Qualcuno potrebbe sostenere che, nei
due esempi proposti, i cittadini devono essere considerati più come
forza lavoro volontaria che come autentici scienziati con capacità
analitiche e critiche.
E, infatti, Fecher e Friesike
sostengono che molti progetti di citizen science seguono una logica
top-down: sono i ricercatori professionali a gestire il gioco e a
conservare il ruolo di leader nel processo di ricerca, utilizzando i
cittadini comuni non come partner alla pari, ma come forza lavoro
gratuita. Qualcuno sostiene persino che molti progetti di citizen
science non sono pensati affatto per coinvolgere cittadini con
qualifiche e capacità tali da poter influenzare la ricerca in
maniera significativa. Ma già nel 2009 due studiose, Maria Powell e
Mathilde Colin, mettevano in evidenza la mancanza di un impatto
significativo nella ricerca da parte di non esperti, sostenendo che
molte ricerche partecipative non coinvolgono i non esperti che in un
singolo evento e/o per poche settimane e certo non consentono ai
cittadini di entrare in sintonia con gli scienziati o con i policy
makers in maniera autonoma.
Per questo hanno pensato di proporre
un loro progetto di citizen science, il Nanoscale Science &
Engineering Center (NSEC). Il progetto in realtà era partito come
gli altri: come un evento già finito. Una volta completato, però,
ha coinvolto un gruppo di citizen scientists, di cittadini
non-esperti, in un dialogo fitto e frequente con gli esperti del
settore – sul Web, ovviamente – consentendo loro di intervenire,
con un processo bottom-up, nell’analisi dei risultati.
Certo, non abbiamo ancora un metodo o
una ricetta per il migliore coinvolgimento attivo dei cittadini nel
processo di ricerca scientifica senza rinunciare al rigore. Ma è
anche vero che vale la pena condurre nuovi esperimenti di citizen
science, aumentando il grado di partecipazione dei cittadini. Non c’è
migliore apertura che la compartecipazione.
Ora, come dicono alla Royal Society,
col Web si può.
*Giornalista e scrittore. Membro del
Consiglio Scientifico dell'Istituto superiore per la protezione e la
ricerca ambientale. È socio fondatore della Fondazione Idis-Città
della Scienza e condirettore di Scienzainrete
Fonte:
Fonte:
Nessun commento:
Posta un commento