lunedì 21 dicembre 2015

Per Xylella e il disseccamento degli olivi del Salento meglio la citizen science 2.0

La citizen science 2.0
di Pietro Greco*

Comunicare tutto a tutti. Abbattere definitivamente il paradigma della segretezza. Eliminare tutti gli ostacoli che si oppongono alla libera circolazione della conoscenza scientifica. Tutti i risultati della ricerca devono essere accessibili a chiunque.
Sono questi, sosteneva lo storico Paolo Rossi, alcuni valori fondanti della rivoluzione scientifica del Seicento. Se in passato, però, molti ostacoli, anche pratici, rendevano alquanto difficile la concreta realizzazione di queste aspirazioni, ora, grazie al Web, è possibile.
E non è un caso che sia stata proprio la Royal Society di Londra – una delle più antiche accademie scientifiche del mondo, quella che pubblicando le Philosophical Transactions ha inventato nel XVII secolo il moderno sistema di comunicazione della scienza – a mettere autorevolmente sul tavolo il problema nel 2012, quando ha pubblicato il rapporto Science as an Open Enterprise, dove si sostiene che la scienza aperta, l’accesso libero e gratuito alla conoscenza scientifica, sia un bene in sé. Perché rendendo del tutto libero il suo scambio, la conoscenza aumenta.


Il movimento della scienza aperta
In realtà, ci sono molti modi per interpretare il concetto antico, ma rinnovato, di scienza aperta. Benedikt Fecher e Sascha Friesike, in un testo, Open Science: One Term, Five Schools of Tought pubblicato nel 2014 (in Open Science, Springer) sostengono che vi sono almeno cinque diverse scuole di pensiero nel movimento della scienza aperta. Una è la scuola “democratica”, il cui obiettivo è rendere la conoscenza scientifica liberamente disponibile per chiunque; una seconda scuola è quella “pragmatica”, che mira a rendere più efficiente la ricerca attraverso la collaborazione tra scienziati; una terza è quella “infrastrutturale”, che si concentra sugli strumenti (elettronici) per rendere effettivamente aperta la scienza; una quarta è la “valutativa”, che cerca di mettere a punto sistemi di valutazione alternativi del lavoro scientifico. Ma quella che ci interessa di più in questa sede è la scuola “pubblica”, che cerca di abbattere definitivamente le mura della torre d’avorio che separa la “repubblica della scienza” dal resto della società, proponendo il coinvolgimento attivo dei cittadini nell’impresa scientifica. L’obiettivo è la Citizen science da raggiungere attraverso lo science blogging e, più in generale, il social networking. In poche parole, impegnando gli scienziati in un dialogo fitto e diretto con i cittadini mediante gli strumenti del Web 2.0.
In breve: per i fautori della scuola “pubblica” la scienza deve uscire dai confini della comunità degli esperti per rendersi accessibile a un audience più vasta. L’assunzione base è che le tecnologie del social Web e del Web 2.0 consentono e anzi quasi impongono agli scienziati: 1) di “aprire” i risultati della ricerca ai non-esperti, rendendoli comprensibili; 2) di “aprire” i processi di ricerca chiamando il grande pubblico a parteciparvi.


Le diverse correnti nella scuola “pubblica”
Benedikt Fecher e Sascha Friesike hanno individuato due diverse correnti nell’ambito della scuola pubblica. La prima è più sensibile alla produzione della conoscenza scientifica, da estendere al grande pubblico; la seconda è più sensibile al prodotto, ovvero alla comprensibilità dei risultati della ricerca. Entrambe le correnti sostengono la necessità di nuove relazioni tra gli scienziati e il grande pubblico e interpretano l’open science, come trasferimento di conoscenza a un pubblico più ampio. Di conseguenza, considerano i social network come strumenti – come alcuni tra i migliori strumenti – dell’openess, dell’apertura.

Social networking e comprensibilità
La prima delle due correnti di pensiero della scuola “pubblica” sostiene il dovere degli scienziati di produrre ricerca comprensibile. Nel 2012 Oliver Tacke, in apertura del suo blog, ha perentoriamente richiesto: scienziato, Esci dalla torre d’avorio.
Julian Cribb e Tjempaka Sari avevano individuato, in precedenza (nel 2010), un nodo da sciogliere, chiedono a sé stessi e ai colleghi un cambiamento di stile della scrittura: “La scienza è complicata per natura, ciò fa sì che la cosa più importante per che scrive di scienza dovrebbe essere la semplicità, la trasparenza e la chiarezza”. Gli scienziati che comunicano devono rendersi conto che quanto più l’audience diventa ampia e l’argomento specifico, tanto più il linguaggio accademico deve adattarsi e trasformarsi in linguaggio comune.
Molti hanno individuato strumenti specifici per la comunicazione della scienza al grande pubblico. Cornelius Puschmann e Katrin Weller, per esempio, sostengono che lo strumento più adatto siano i microblogging con Twitter, non solo per indirizzare il grande pubblico verso la letteratura rilevante, ma anche come fonte alternativa di impact factor. Ann Grand, sul numero di settembre 2012 della rivista Science Communication, sostiene che usando gli strumenti del Web 2.0 e interagendo con i cittadini, un ricercatore può diventare una figura pubblica e un mediatore onesto dell’informazione in suo possesso.
Dal canto loro Benedikt Fecher e Sascha Friesike pensano e dicono che, mentre numerosi ricercatori già pongono l’attenzione sui nuovi strumenti e sui nuovi format della comunicazione della scienza, c’è ancora bisogno di indagare sul cambiamento di ruolo del ricercatore nella società digitale. Occorre, in altre parole, definire come relazionarsi con le nuove forme di pressione del pubblico e come giustificare sia la necessità di una comunicazione istantanea sia la capacità di modellare la propria ricerca per il pubblico. Una domanda fondata, quindi, è: può un ricercatore accettare la sfida di fare ricerca su temi altamente complessi e nel medesimo tempo prepararla in bit d’informazione comprensibili al grande pubblico e trasmissibili attraverso i social network? Oppure occorre la presenza di nuovi mediatori professionali (nuovi giornalisti e più in generale nuovi comunicatori scientifici)?
Le domande sono aperte. Siamo in piena fase i transizione e nessuno ha una ricetta definitiva.

Partecipazione ai processi della ricerca
Rendere il processo interno alla ricerca non solo visibile ma anche accessibile all’uomo comune, scrivono Fecher e Friesike, potrebbe sembrare un processo romantico. Eppure, le nuove tecnologie elettroniche di comunicazione consentono non solo di documentare la ricerca in maniera sistematica, ma anche di includere nel processo attori non esperti una volta esclusi. È il caso della citizen science che prevede, appunto, la partecipazione di non scienziati e di dilettanti nella ricerca.
Un esempio è Rosetta@home, un progetto di distributed-computing (computazione distribuita) in cui utenti volontari mettono a disposizione la potenza del loro computer (mentre non è in uso) per l’analisi virtuale del ripiegamento delle proteine. Il software necessario per partecipare al progetto ha consentito a ogni utente di osservare come lavora il suo computer e come ripiega (virtualmente) le proteine cercando una configurazione tridimensionale adatta. Il progetto non ha avuto solo una dimensione didattica. Molti utenti, infatti, hanno proposto una serie di suggerimenti per accelerare il processo di ripiegamento. Reagendo all’inaspettato coinvolgimento attivo dei collaboratori non esperti, il gruppo di ricerca ha applicato una nuova interfaccia al programma per mettere in grado gli utenti di aiutare nel processo di ripiegamento sotto forma di un gioco, chiamato Foldit. Raccontando sulla rivista scientifica Nature questo risultato, in un articolo intitolato significativamente Citizen Science: People Power, Eric Hand, che immagina di scrivere nell’agosto 2020, dice: “Coinvolgere i cervelli umani nel problem solving, Foldit ha portato il concetto di BOINC’s distributed-computing a un livello completamente nuovo”.
In questo caso la citizen science ha individuato una promettente strategia per ‘coinvolgere’ forza lavoro volontaria. Ci si potrebbe interrogare sulla qualità dell’intervento di dilettanti sulla parte analitica della ricerca. Christina Catlin-Groves ha seguito la medesima linea del progetto Rosetta@home, sostenendo e dimostrando che le maggiori potenzialità della citizen science sono nel monitoraggio ecologico e della biodiversità.
Qualcuno potrebbe sostenere che, nei due esempi proposti, i cittadini devono essere considerati più come forza lavoro volontaria che come autentici scienziati con capacità analitiche e critiche.
E, infatti, Fecher e Friesike sostengono che molti progetti di citizen science seguono una logica top-down: sono i ricercatori professionali a gestire il gioco e a conservare il ruolo di leader nel processo di ricerca, utilizzando i cittadini comuni non come partner alla pari, ma come forza lavoro gratuita. Qualcuno sostiene persino che molti progetti di citizen science non sono pensati affatto per coinvolgere cittadini con qualifiche e capacità tali da poter influenzare la ricerca in maniera significativa. Ma già nel 2009 due studiose, Maria Powell e Mathilde Colin, mettevano in evidenza la mancanza di un impatto significativo nella ricerca da parte di non esperti, sostenendo che molte ricerche partecipative non coinvolgono i non esperti che in un singolo evento e/o per poche settimane e certo non consentono ai cittadini di entrare in sintonia con gli scienziati o con i policy makers in maniera autonoma.
Per questo hanno pensato di proporre un loro progetto di citizen science, il Nanoscale Science & Engineering Center (NSEC). Il progetto in realtà era partito come gli altri: come un evento già finito. Una volta completato, però, ha coinvolto un gruppo di citizen scientists, di cittadini non-esperti, in un dialogo fitto e frequente con gli esperti del settore – sul Web, ovviamente – consentendo loro di intervenire, con un processo bottom-up, nell’analisi dei risultati.
Certo, non abbiamo ancora un metodo o una ricetta per il migliore coinvolgimento attivo dei cittadini nel processo di ricerca scientifica senza rinunciare al rigore. Ma è anche vero che vale la pena condurre nuovi esperimenti di citizen science, aumentando il grado di partecipazione dei cittadini. Non c’è migliore apertura che la compartecipazione.
Ora, come dicono alla Royal Society, col Web si può.


*Giornalista e scrittore. Membro del Consiglio Scientifico dell'Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale. È socio fondatore della Fondazione Idis-Città della Scienza e condirettore di Scienzainrete
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