Appunti di fitostoria del Salento
Piero Medagli, Antonella Albano
Premessa
Il Salento, sulla base di diverse fonti storiche, era in
passato caratterizzato da estese boscaglie che lo ricoprivano quasi
interamente, formando uno scenario oggi per noi difficilmente immaginabile e
per certi versi sorprendente, specialmente se si considera l’attuale penuria di
boschi. «In tempi assai remoti la nostra Japigia era tutta coperta di boschi di
quercie… Lo troviamo nelle tradizioni degli scrittori patrii; lo dimostrano i
nomi volgari di moltissime contrade, di fattorie, di fondi rustici, di villaggi
e di paesi, derivanti da essenze boschive, nomi che tuttavia si conservano,
sebbene non vi esista più un querciuolo». Con queste poche ma incisive righe
Cosimo De Giorgi attesta la progressiva riduzione, fino alla quasi completa
scomparsa, dell’imponente manto boschivo che in origine ricopriva il Salento
(C. De Giorgi, Cenni di geografia fisica della provincia di Lecce, Lecce,
Editrice Salentina, 1884, p. 92).
Sulla base delle odierne conoscenze fitoclimatiche sappiamo
che le boscaglie salentine presenti ai tempi delle prime civiltà umane, erano
costituite prevalentemente da querce e riconducibili essenzialmente a cinque
principali tipologie: sul Tavoliere di Lecce predominavano i boschi di leccio
(Quercus ilex) puri o misti con la quercia virgiliana (Quercus vigiliana);
nelle zone collinari delle Serre Salentine i boschi di quercia spinosa (Quercus
calliprinos) puri o misti con leccio e quercia virgiliana; sulla piana di Supersano,
vera e propria oasi microclimatica nel cuore del Salento, predominava il bosco
mesofilo con farnetto (Quercus frainetto), quercia amplifoglia (Quercus
amplifolia) e quercia virgiliana (Quercus virgiliana) con probabile presenza
della farnia (Quercus robur) oggi estinta nel Salento; limitatamente al
territorio di Tricase erano presenti boschi di vallonea (Quercus ithaburensis
subsp. macrolepis, spesso misti con quercia virgiliana e quercia amplifoglia;
mentre nel Brindisino era presente una vasta area con presenza della sughera
(Quercus suber), talvolta, mista al leccio (E. Biondi, S. Casavecchia, L.
Beccarisi, S. Marchiori, P. Medagli, V. Zuccarello, Le serie di vegetazione
della Regione Puglia, Roma, Ed. Palombi e Associati, 2010, pp. 391-409).
Tali boschi costituivano la vegetazione “reale” di quei
tempi, cioè quella effettivamente presente, mentre oggi le superfici sottratte
a quegli antichi boschi ne conservano la potenzialità, nel senso che una
ipotetica ricostituzione della vegetazione spontanea su tali superfici ormai
antropizzate, avverrebbe ripetendo una serie graduale di tappe progressive
(vegetazione sub-steppica, gariga, macchia, bosco) che ricondurrebbero, nello
stadio finale, a ripetere il modello di quella preesistente secondo il concetto
di “vegetazione naturale potenziale” espresso da Tuxen (R.Tuxen, Die heutige
potentielle naturliche Vegetation als Gegenstand der Vegetationskartierung,
Stolzenau, Ed. Bundesanstalt, 1956, 13, pp. 5-42).
Le variazioni climatiche avvenute in epoca storica,
presumibilmente, data la breve durata ed in considerazione della notevole
resilienza della vegetazione arborea, non hanno modificato sensibilmente queste
situazioni. Infatti, nel quadro della storia climatica del Salento, è stato
evidenziato, in età medioevale, un periodo freddo verificatosi (dal 400-450 al
750-800; un “periodo caldo medioevale” definito da sensibile aumento della
temperatura ed esteso dal 750-800 al 1150- 1200, mentre è nota una “piccola era
glaciale” che va dalla metà del XVI alla metà del XIX secolo.
Inquadramento
fitostorico
Numerosi e complessi eventi hanno condizionato nel tempo lo
sviluppo o la regressione della vegetazione spontanea. La fitostoria
rappresenta quel particolare ambito di ricerca interdisciplinare che abbina le
conoscenze botanico-vegetazionali di un dato territorio a indagini storiche, in
particolare archivistiche e cartografiche, in maniera da definire l’incidenza
delle attività dell’uomo sul manto vegetale nelle varie epoche. Un pregevole
saggio che sintetizza in maniera organica i più salienti aspetti delle vicende
fitostoriche della Puglia è stato realizzato da Amico (A. Amico, Saggio di
Fitostoria della Puglia, Atti dell’Accademia Pugliese delle Scienze, Bari,
1950, vol. VIII, pp. 283-365) che ribadisce che, in epoca preistorica, una
vasta vegetazione boschiva ricopriva gran parte del Salento. Le varie attività
umane hanno modificato gradualmente la copertura vegetale e tali trasformazioni
sono state condizionate principalmente dallo sviluppo demografico.
Gli studiosi di fitostoria distinguono concordemente tre
differenti periodi: un primo che va dalle origini alla seconda guerra punica;
un secondo che va dalla seconda guerra punica alla fine del Medio Evo; un terzo
che dal Medio Evo giunge ai giorni nostri.
In sintesi Amico rileva che nel primo periodo si è avuto un
lento e graduale aumento demografico, con un impatto sulla vegetazione
spontanea piuttosto contenuto; nel secondo periodo si assiste ad un forte calo
demografico con conseguente regressione dell’agricoltura e la riconquista di
vasti territori precedentemente messi a coltura da parte della vegetazione
spontanea; nel terzo periodo la vegetazione spontanea viene nuovamente
soffocata dallo sviluppo via via crescente delle colture estensive e, più
recentemente, da un incontenibile “consumo di suolo” derivante dalla forte
espansione dei centri urbani, dall’ urbanizzazione massiccia delle coste, da un
abnorme sviluppo della rete viaria, innescando una inarrestabile, e fino ad
oggi irreversibile, distruzione della copertura boschiva e della vegetazione
naturale in genere, che oggi rappresenta una vera e propria emergenza
ambientale.
Primo Periodo: dalle
origini alla prima guerra punica
Scarse e frammentarie sono le fonti storiche che recano
notizie di questo periodo. Secondo Amico (op. cit.) le originarie popolazioni
autoctone del Salento erano nomadi, traevano sostentamento dalla raccolta dei
prodotti spontanei della terra e dalla caccia. Ci sono tracce della presenza
umana già nel Paleolitico medio, risalente a circa 80.000 anni. Gradualmente la
caccia fu sostituita dalla pastorizia, cominciò a svilupparsi l’agricoltura e
nacquero i primi nuclei abitati stabili al posto di villaggi precari. Di
conseguenza la vegetazione spontanea iniziò un lento regresso. Quando alle
soglie dell’età del ferro, intorno all’IX secolo a.C., giunsero i Messapi,
attraverso flussi migratori forse di origine illirica, gli autoctoni già
conoscevano l’agricoltura, che migliorò e progredì con i nuovi arrivati, che
unirono le loro esperienze con quelle dei locali. Scomparve del tutto la vita
nomade e sorsero centri stabili. Intorno al VII-VI secolo a.C. le capanne con
pietre irregolari e copertura a rami intrecciati vengono sostituite da
costruzioni con più ambienti, di forma quadrangolare, con muretti a secco e
mattoni e copertura a tegole. Furono fiorenti l’agricoltura, la pastorizia ed
il commercio.
Successivamente si verificarono numerosi sbarchi di vari
popoli che dalla Grecia vennero mossi da necessità economiche o spinti da
persecuzioni. Furono fondate diverse colonie lungo le coste dell’ Italia
meridionale ed anche nel Salento. La vegetazione spontanea regredì nelle zone
litorali e successivamente in quelle fertili interne. Quei popoli non
distrussero completamente i boschi e le macchie nei luoghi che colonizzarono,
anche perché attorno ai centri abitati lasciarono porzioni di bosco per
necessità di culto.
In questo periodo la popolazione della Puglia meridionale
subì un notevole incremento proprio a seguito della nascita delle colonie greche.
Secondo Strabone (Strabone, Geografia, Lipsia, Università degli Studi, 1895,
Libro VI, pp. 281): “Nella Messapia (l’agricoltura) si sviluppò rapidamente
favorita dal suolo molto fertile appena dissodato, benché sembri aspro al primo
aspetto. Tutta la regione è ricca di alberi e di pascoli, non ostante che sia
molto priva di acqua”
L’agricoltura estensiva continuò a progredire e raggiunse il
massimo sviluppo alla fine del periodo, anche in considerazione che
rappresentava la principale fonte di sussistenza delle popolazioni, ma tale
azione risultò comunque equilibrata e solo parzialmente distruttiva per la
preesistente vegetazione boschiva.
Secondo Periodo:
dalla seconda guerra punica al Medio Evo
Con la fine della seconda guerra punica e l’occupazione romana,
nel III secolo a. C., si verifica il limite ascensionale della crescita
demografica in tutta la Puglia e inizia una parabola discendente. Di
conseguenza si assiste anche ad una regressione delle attività agricole ed una
riespansione della vegetazione spontanea.
Prima di tale guerra prevaleva la piccola azienda e il
lavoro libero, dopo di essa si assiste alla formazione dei latifondi e alla
nascita di grandi aziende schiavistiche.
L’occupazione romana segna, quindi, l’inizio della ripresa
della vegetazione spontanea. Tale fenomeno non è legato ad azioni dirette dei
Romani. Sia essi che i Greci non ebbero particolare cura per i boschi dal punto
di vista del prelievo del legname. Entrambi ritenevano il legname una “res
communis” di cui ci si poteva impadronire con la semplice occupazione. I boschi
progredivano e regredivano in conseguenza di altri fattori. Pertanto la
ridiffusione dei boschi in questo periodo è da attribuire al decadimento
dell’agricoltura per lo sterminio dei popoli apuli. Infatti secondo Palmieri
(G. Palmieri, Pensieri economici relativi al Regno di Napoli, Napoli, Ed.
Vincenzo Flauto, 1789, p. 58) “Il lungo soggiorno degli eserciti in questa
regione e le continue devastazioni l’aveano renduta vuota di abitanti”
Tale decadenza portò ad un aumento della pastorizia. Era il
modo più efficace di sfruttare gli immensi latifondi creati dai Romani con
utilizzo di poca manodopera rappresentata principalmente dagli schiavi. La
Messapia-Calabria (attuale Salento) ebbe una storia un po’ differente dal resto
della Puglia. Poco abitata per le ragioni indicate, fu abbandonata a sé stessa,
forse per una questione di marginalità, per circa tre secoli e quindi
risultava, secondo Colella ( G. Colella, Toponomastica pugliese, Trani, Ed.
Vecchi, 1941, pp. 300) “in gran parte ricoperta da boschi e macchieti”.
Pertanto si determinarono le condizioni per la formazione di una vegetazione di
origine secondaria (rispetto alla cosiddetta primaria, cioè quella originaria).
Due tipi di vegetazione, come di è visto, sostanzialmente identici, che
differiscono unicamente sotto l’aspetto prettamente cronologico. Preesistente all’uomo
la prima, di ricostituzione la seconda. Abbandonata a sé stessa la Messapia divenne
un territorio quasi completamente selvoso e deserto, come osserva Plinio
(Plinio, Naturalis historiae, Roma, 77, Libro XXXVII, Riedizione 1476. Ed.
Nicolas Jenson, Firenze) “ab Hydrunte…..desertum”, ma vi erano delle eccezioni,
poiché in diversi casi i Romani furono indotti a creare delle colonie alla
scopo di ripopolare questi territori, favoriti dalla presenza di una ricca rete
stradale e dei porti di Brindisi, Taranto e Otranto non devastati dagli eventi
bellici. La cartina I, tratta dal Piano paesaggistico Territoriale Regionale
(Piano Paesaggistico Territoriale Regionale,Tavola 3.2.4.2 dell’Atlante del
Patrimonio Ambientale Territoriale Paesaggistico, Bari, Regione Puglia, 2013) riporta
la situazione presente nel Salento durante la dominazione romana.
Con la caduta dell’Impero Romano nel 476 d.C. e con le invasioni
barbariche la vegetazione spontanea continua la riconquista di ulteriori
territori. I cosiddetti “Barbari”, cioè coloro che subentrarono ai Romani,
rifuggivano le città ed amavano la campagna e la caccia, che costituiva una
occupazione molto praticata.
Sorsero castelli che si insediarono in luoghi che dominavano
aree aperte e generalmente boscose. Inoltre ogni estensione di terra acquistava
maggior pregio se comprendeva anche superfici di bosco o di macchia. Furono
istituiti “parchi” (da caccia), “difese” e “foreste”, che furono recintati e
sottratti all’uso pubblico. Di questi oggi rimane spesso solo il nome.
Terzo Periodo: dal
Medio Evo ai nostri giorni
Tutta la provincia di Lecce nel Medio Evo era ricoperta da
“foreste” (G.F. Tanzi, La città di Otranto e il territorio municipale, Lecce,
Stab. Tip. Giurdignano, 1906, p. 39), termine che indicava ampie distese di
territori aperti, pubblici, con formazioni macchiose e boschive appartenenti ad
un determinato feudo. Come abbondantemente attestano diversi documenti di
archivio, nel Medio Evo erano presenti anche i “parchi”, cioè territori chiusi,
recintati da muri a secco per evitare l’accesso agli armenti; le “difese” e le
“bandite”, cioè zone messe a disposizione del re o del feudatario mediante
bandi pubblici. In particolare nel Salento meridionale (province di Brindisi e
Lecce) erano presenti cinque grandi “foreste”: la “foresta di Oria”, indicata
per la sua estensione come “gran foresta” al momento dell’abolizione (il
diritto della foresta oritana fu abolito col decreto del 21 gennaio 1809), comprendeva
secondo Travaglini (E. Travaglini, I limiti della foresta oritana in documenti
e carte dal 1432 al 1809, Oria, Ed. Società di Storia Patria per la Puglia,
1977, p. 31) i territori degli odierni comuni di Villa Castelli, Francavilla
Fontana, San Michele Salentino, Latiano, Oria, Torre Santa Susanna, Sava,
Manduria, Erchie, San Pancrazio, San Donaci, Cellino, parte dei comuni di S.
Vito dei Normanni, Carovigno, Ceglie, San Marzano, Torricella, Maruggio, Guagnano,
Salice, Veglie, Leverano, Nardò; la “foresta” di Gallipoli che comprendeva gran
parte della costiera dello Ionio e si congiungeva con quella di Tricase e con
quella di Nardò tramite la “foresta di S. Mauro”. Secondo documenti storici nel
1610 le località Pizzo, Li Foggi e altre contigue erano ancora boscose e
macchiose e abbondantissime di “porci selvaggi”( 12 G.F. Tanzani, Demanio
comunale della città di Gallipoli, Bari, Ed. Adriatica, 1912); la “foresta” di
Brindisi che confinava a sud con quella di Lecce e che dovette essere di
notevole importanza e consistenza se Cesare ne ricavò legname utilizzabile per
le sue flotte (D. Novembre, Aree antiche e recenti della macchia nel Salento,
Galatina, Ed. Congedo,1965, p. 181); la “foresta” di Lecce si estendeva per ben
75 chilometri sul litorale adriatico, dal lago di Alimini presso Otranto ad un
luogo detto “Le Fontanelle” presso Brindisi; variabile in larghezza, occupava
più di 100 chilometri quadrati.
Fu definita “foresta di Lecce verso Otranto” la parte che si
spingeva verso Otranto e “foresta di Lecce verso Brindisi” la restante parte,
che essendo più vasta dell’altra fu chiamata anche “major”.
Nell’anno 1496 si operò una distinzione, sotto il profilo
legale, delle due sezioni di foresta. Si ritenne utile denominarle in maniera
differente. Pertanto una parte della foresta denominata “foresta di Lecce verso
Otranto” fu denominata “foresta di Roca” in considerazione del fatto che
Ferrante II di Aragona aveva ceduto in feudo Roca con l’annessa foresta a
Raffaele De Falconibus.
Il bosco di Calimera, distinto in “bosco netto” e “bosco
macchioso” faceva parte della foresta di Lecce, poi denominata foresta di Roca
e rappresentava una delle aree boschive più note del Salento (M. Mainardi, Il
bosco di Calimera, Lecce, Ed. Capone, 1989, pp. 3-5). La presenza del bosco è
attestata in un atto pubblico del 1468, che ne sancisce la proprietà feudale e
l’interdizione al pubblico.
Infatti alcuni documenti storici attestano che nella seconda
metà del ‘700 i calimeresi conducevano i loro animali al pascolo nella Foresta
di Roca proprio perché era loro negato l’accesso all’area del bosco di
Calimera. La prima sentenza della Commissione Feudale dell’11 luglio 1810
dichiarò in bosco quale demanio feudale aperto agli usi civici in favore degli
abitanti di Martano e Calimera.
Documenti storici stabiliscono che nel 1812 si procedette
alla divisione del bosco, ma le procedure di quotizzazione, lente ed
estenuanti, si protrassero fino al 1885. Continui erano i contrasti fra coloro
che volevano mettere a coltura i terreni su cui sorgeva il bosco e coloro che
volevano mantenerlo tale (una delibera comunale del 1874 invitava
all’abbattimento del bosco). I componenti di una commissione chiamata a
verificare lo stato del bosco (1863) manifesta parere contrario
all’abbattimento adducendo la non idoneità del suolo alla coltivazione dei
cereali e l’uso che si faceva del bosco per la caccia ai tordi mediante reti e
la raccolta della legna da parte delle classi meno abbienti. Inoltre a Calimera
era fiorente l’attività dei carbonai, cioè di coloro che producevano il carbone
utilizzando la legna del bosco e delle potature di olivo. Con l’abbattimento
del bosco viene meno l’attività dei carbonai e con essa una parte della cultura
e la tradizione locale. La “foresta” di Tricase che comprendeva principalmente l’ormai
mitico “Bosco di Belvedere”, ancora nel primo Ottocento era ricca di animali
selvatici, fra cui i lupi, l’ultimo dei quali fu ucciso nel 1864, anno in cui il
bosco era ridotto a circa la metà dopo la divisione demaniale del 1851-52 e
misurava ancora circa 809 ettari. La massiccia distruzione del Bosco di
Belvedere avviene dal 1870 al 1874 meno una piccola parte che risultava ancora
presente sino al 1884 (M. Mainardi, I Boschi nel Salento. Spazi e storia,
Lecce, Conte Editore, 1989, pp. 23-32).
«…Più in fondo…vedemmo torreggiare sull’uliveto le ultime
querce monumentali del bosco Belvedere, che gridano vendetta al cielo colle
loro altissime braccia spennacchiate» (16 C. De Giorgi, La Provincia di Lecce:
Bozzetti e Impressioni, Lecce, Ed. Salentina, 1877, p. 152).
La boscaglia era ricchissima di selvaggina ed alimentava un
gran numero di cacciatori di giornata, nonché lo svago di signorotti locali. La
foresta era ampiamente utilizzata per il pascolo, in particolare quello dei
maiali. Era diffusa la produzione di carbone. Era diffuso l’uso civico di
cuocere le tegole nelle fornaci.
Un cenno merita la presenza in detto bosco di specie di
grande valore botanico. In una perizia presente nell’Archivio di Stato di Lecce
si legge: «…era coverta di diversa specie di alberi silvestri di diversa specie
ed in primo luogo era la Farnea» (probabilmente riferito alla farnia, Quercus
robur L.) specie attualmente estinta nel Salento. Su atti notarili dell’epoca
viene menzionata la presenza del castagno. Il Marinosci, in una visita del 1810
indica la presenza di Carpinus betulus (M. Marinosci, La Flora Salentina,
Lecce, Ed. Salentina, 1870, vol. 2, p. 201), più recente è il ritrovamento di
un nucleo di farnetto (Quercus frainetto Ten.) specie rara in Puglia e, fino ad
allora non segnalata nel Salento (P. Medagli, P. Bianco, B. Schirone, S.
D’Emerico, L. Ruggiero, Il farnetto del Bosco Belvedere, Annali di Botanica,
Roma, Ed. Università La Sapienza, 1990, pp. 77-83).
Analogamente è stata individuata la presenza di numerose
querce caducifoglie ascrivibili alle entità Quercus virgiliana Ten. e Quercus
amplifolia Guss. Pertanto il bosco costituiva una entità forestale del tutto
peculiare, con spiccate caratteristiche di mesofilia e caratterizzato da un
particolare microclima e da un substrato ricco di acqua. Tutto ciò avvalora
l’ipotesi che il bosco Belvedere costituisse un lembo relitto di una vegetazione
tipica di una fase climatica fredda, forse addirittura post-glaciale,
sopravvissuta grazie a caratteristiche microclimatiche del tutto peculiari.
All’epoca dei Comuni vennero emanate delle disposizioni per
regolare la conservazione dei boschi e regolamentarne il taglio o, come si
usava dire “legnare il secco”. Tali disposizioni non avevano il fine diretto di
salvaguardare i boschi, ma quella di salvaguardare i luoghi di caccia del re e
dei nobili ed a preservare la legna per usi bellici. Venne imposto ai Comuni ed
ai privati di denunziare, previo giuramento, i propri boschi e i Comuni furono
obbligati ad istituire i guardaboschi ed a comminare pene severe a coloro che
senza autorizzazione contravvenivano alle disposizioni emanate. Tali
disposizioni coercitive ottennero un effetto contrario poiché i proprietari,
non trovando in queste una utilità personale, impedivano l’espandersi dei
boschi sulle loro terre e talvolta ne riducevano impunemente le dimensioni. A
seguito di ciò, visti gli effetti deleteri delle disposizioni, le autorità preposte
decisero di abrogarle.
Saggi regolamenti a favore dei boschi e dei pascoli furono
emanati da Federico II, la cui passione per la caccia è ampiamente nota.
Conscio della importanza sociale ed economica del pascolo, regolò anche i
rapporti giuridici fra pastori e proprietari di pascolo in modo che non vi
fossero più attriti. Alfonso I d’Aragona sviluppò e codificò i principi
lasciati da Federico II e nel 1440 decise di riordinare i pascoli in Puglia,
che erano aumentati in relazione alle guerre, che avevano desertificato la
regione. Grandi ed estesi pascoli vengono stabiliti anche nella Provincia di
Terra d’Otranto. Tale espansione delle aree a pascolo riguardò Il Tavoliere di
Lecce secondo l’Atlante del Regno di Napoli del Rizzi-Zannoni (1808) certamente
anche il pascolo nei boschi allora esistenti, con conseguente disturbo e
degrado della vegetazione.
Nel XVIII secolo incomincia la lotta al bosco dovuta in
parte alle accresciute esigenze di mezzi di sussistenza per le popolazioni in
continuo aumento, ma anche per le poco ragionevoli leggi che vincolavano i
terreni boschivi. Infatti la legge che irragionevolmente imponeva oneri fiscali
ai possessori di boschi spinse i proprietari a liberarsi di un peso ritenuto
inutile o quanto meno troppo oneroso. Pertanto gli stessi proprietari furono
spinti ad eliminare i boschi anche col ricorso al fuoco.
Giacomo Arditi (G. Arditi, La Corografia fisica e storica
della Provincia di Terra d’Otranto, Lecce, Ed. Salentina, 1879-1885) durante
una sua visita in Terra d’Otranto così scriveva: «Stando qui non posso ristarmi
dal riferire e deplorare a caldi occhi due difetti, anzi due colpe, e colpe
late: la smania inconsulta adesso più che mai cresciuta di abbattere e di
distruggere i boschi e le selve cedue e le paludi che infestano la provincia».
Da questo secolo in poi la lotta al bosco assume proporzioni
sempre più vaste ed un ritmo impressionante. L’agricoltura avanza e si afferma
sulla stessa pastorizia che incomincia a declinare ovunque in Puglia, ad
eccezione del Tavoliere.
Questa lotta al bosco trova la sua ragione fondamentale
nelle mutate condizioni fondiarie. Fino ad allora la maggior parte del territorio
pugliese era di pertinenza di enti pubblici: possedimenti feudali, demaniali ed
ecclesiastici, mentre la proprietà privata era poco sviluppata. Quando con la
rivoluzione francese furono aboliti i privilegi e i diritti feudali, incominciò
la trasformazione agraria e lo spezzettamento dei latifondi con conseguente distruzione
dei boschi. Infatti le leggi eversive della feudalità, dette anche “di eversione
della feudalità”, sono state dei provvedimenti legislativi, attuati tra il 1806
e il 1808, con i quali Giuseppe Bonaparte, re di Napoli e fratello di Napoleone,
abolì la feudalità nel Regno di Napoli. Estensore delle leggi fu il Ministro della
Giustizia dell’epoca, il marchese Michelangelo Cianciulli. Il De Salis (C.U. De
Salis Marschlins, Viaggio nel Regno di Napoli, Trani, Ed. Vecchi, 1789) nel suo
celebre viaggio in Puglia ricorda, fra l’altro: “le macchie che si estendevano
per dodici miglia tra Brindisi e Lecce, la Foresta di Supersano, il territorio
di Nardò limitato da un bosco”. Il Pacichelli (G.B. Pacichelli, Il Regno di
Napoli in Prospettiva, Napoli, Ed. Forni, 1703) parla di Oria “colma di
canneti” e “le selve colme di cinghiali, cervi, capri, volpi, lepri, martore,
istrici ed altro di Cisternino”. Giustiniani (L. Giustiniani, Dizionario
Geografico-ragionato del Regno di Napoli, Napoli, Ed. Vincenzo Manfredi e
Giovanni De Bonis, 1805) riporta i nomi dei boschi dei singoli comuni della
Puglia nel suo Dizionario geografico Ragionato. L’Autore cita solo i nomi dei
boschi e non si sofferma a descriverli, ripromettendosi di farlo in un’altra
opera di cui non c’è traccia e forse non è mai stata portata a compimento.
Un importante contributo allo studio fitostorico dell’Italia
meridionale è rappresentato dall’Atlante geografico del Regno di Napoli del
Rizzi-Zannoni (G.A. Rizzi Zannoni, Atlante geografico del Regno di Napoli,
Napoli, Istituto Geografico Militare, 1808) con rilievi risalenti probabilmente
al 1798, che riporta nelle cartografie allegate gran parte dei boschi presenti
all’epoca in scala 1:188.900. Infatti in queste cartografie la rappresentazione
del bosco si presenta largamente diffusa e con connotazione naturale, volta
alla rappresentazione di elementi della vegetazione spontanea. L’attenzione
dedicata alla rappresentazione di tale forma di vegetazione appare soprattutto
legata a fattori economici per l’ utilizzo come aree di caccia, per la
produzione di legname, per la raccolta dei prodotti del sottobosco per
l’integrazione della dieta e per l’allevamento di animali, come l’utilizzo delle
ghiande per l’allevamento suino.
Il foglio n° 22 venne inciso da Giuseppe Guerra nel 1806 e
comprende il tratto della Terra d’Otranto che ha come punti di riferimento
Mesagne a Nord e Otranto a sud. In esso si riscontra la presenza di numerose
aree boschive e di macchia: le “Macchie di Carignano” lungo la costa neretina
fra Torre Inserraglio e S. Isidoro; “Le folte Macchie di Arneo” che lungo la
costa degradavano verso la Palude del Conte e nell’entroterra confinavano col
“Bosco di Mutunato” e con le “Macchie Malancelli” (area oggi occupata da una
pista di collaudo ad anello);
Il Bosco di Guagnano, del quale non resta più traccia; Il
Bosco di Belmonte a Veglie, anch’esso completamente eliminato; “Macchie e Bosco
di Laurito” fra Tuturano e Cellino; Il “Bosco di Calimera”.
Il foglio n° 23 risale anch’esso al 1806 ed è ancora opera
di Giuseppe Guerra, che raffigura la parte meridionale della Terra d’Otranto
comprendente i territori a sud della congiungente Otranto-Gallipoli. In questa
cartina è riportato il Bosco Belvedere .
Il prelievo di esemplari arborei nei boschi per utilizzo di
legna per costruzioni ha portato alla scomparsa della componente arborea del
bosco, sostituita dalla macchia, che originariamente ne costituiva la componente
arbustiva. Pertanto la scomparsa del bosco fu rimpiazzata su vastissime
estensioni da superfici a macchia, che ne costituivano un aspetto di
regressione della vegetazione.
Ma anche la vegetazione a macchia, un tempo diffusissima,
cominciò a regredire irreversibilmente.
La distruzione delle aree macchiose si accentuò nel XVIII
secolo in seguito alla affermazione della cerealicoltura estensiva praticata
particolarmente nelle masserie, parallelamente all’incremento demografico e
conseguente aumento della richiesta di cereali.
Nella cartografia dell’I.G.M. (allora Istituto Topografico
Militare) 1:100.000 del 1870 la vegetazione a macchia del Salento, era ridotta
a circa 410 Kmq (meno di 1/5 rispetto alla rilevazione precedente, che non
viene precisato a quando risale).
Fra queste spiccava la “mezzaluna della Macchia di Arneo,
allargata fra vaste paludi fino al Bosco di Mutunato. la maggiore contrazione
delle superfici macchiose viene constatata nelle macchie presso Brindisi e tra
Gallipoli e Torre Vado; anche la Macchia di S. Cataldo appare dimezzata, mentre
scompare completamente la Macchia di Roca. All’interno rimangono frammenti di
aree a macchia tra Brindisi e Taranto e molto ridotta risultava la macchia
presso Mesagne corrispondente al Bosco di Masina. Piccoli lembi rimanevano nel
territorio di Nociglia, Calimera, Ruffano, Specchia, tra Maglie e Collepasso.
Interamente scomparso appare il Bosco di Belvedere.
Nella cartografia 1:100.000 compilata nel 1927 (con dati del
1874 e con aggiornamenti del 1913). si può constatare come vastissime aree sono
ancora ricoperte da superfici a macchia. Tali macchie risultano fortemente
frammentate.
Ulteriore drastica riduzione per boschi e macchie si evince
consultando la cartografia dell’IGM 1:25.000 del 1948-49.
Molte estensioni di macchia erano ricche di oleastri (R.
Congedo, Ove fiorisce l’olivo, Lecce, Ed. Milella, 1969, p. 53), la macchia di
Arneo costituiva la principale riserva naturale di oleastri (olivo
spontaneizzato) e olivastri (olivo selvatico), ma anche altre località come ad
esempio la macchia di Termolito (Vernole) il cui nome è un fitotoponimo derivante
da “termìte”, termine dialettale per indicare l’oleastro. Pertanto i vivaisti
raccoglievano le piantine selvatiche per utilizzarle per la propagazione
dell’olivo, previo innesto. In diversi casi le macchie venivano “bonificate”
risparmiando gli olivastri e gli oleastri preesistenti che venivano innestati
direttamente in loco a formare oliveti caratterizzati da una distribuzione
spaziale casuale e non a filare. Un caso particolare di oliveto secolare
originato da innesto di preesistenti olivastri è quello ben noto in località
“Sarparea” a Nardò.
In uno storico viaggio in Puglia finalizzato a raccolte
floristiche, Rigo (Rigo, Relazione botanica del viaggio eseguito da Porta e Rigo
nelle province meridionali d’Italia dalla fine di marzo a tutto 10 agosto,
Brevi cenni, Nuovo Giornale Botanico Italiano, Ed. Società Botanica Italiana, 1875)
parla di una escursione a S. Cataldo partendo da Lecce. In tale occasione viene
descritto un percorso fra Lecce e il mare nel quale non si rileva più traccia
della “foresta” di Lecce.
Il decreto legge 16 maggio 1926, n° 1056, istituì la Milizia
Nazionale Forestale.
Soppresso il Real Corpo delle Foreste il fascismo creò una
nuova organizzazione che aveva specifiche competenze nel campo della tutela
della selvicoltura. Tra i compiti che essa era chiamata a svolgere rientravano:
la difesa del patrimonio boschivo nazionale, la sistemazione
idraulico-forestale dei corsi d’acqua; il miglioramento dei pascoli d’altura, i
rimboschimenti, la vigilanza sulla caccia e la pesca, la propaganda (es. “festa
degli alberi”).
Tra i compiti della Milizia rientrava anche il coordinamento
dei servizi statistici e catastali finalizzati alla redazione di una carta
forestale d’Italia che fu compilata a cura del Comando centrale del Corpo con la
collaborazione dell’Istituto Geografico Militare. Consta di 275 fogli in scala
1:100.000, pubblicate nel biennio 1937-38, che riportano con accuratezza le perimetrazioni
delle aree boschive ed i confini comunali, distinguendo col colore le varie
tipologie forestali suddivise in otto gruppi e con vari simbolismi
corrispondenti alle diverse specie arboree (M. Mainardi, I boschi salentini nei
fogli della carta forestale del Regno d’Italia. Note di Storia e Cultura
Salentina, Lecce, Ed. Argo, 1996, pp. 13-27. Il Salento Meridionale secondo
l’Atlante del Regno di Napoli del Rizzi-Zannoni (1808)). Il territorio del
Salento ricade in sei fogli “Brindisi” (n° 203), “Lecce” (n° 204), “Maruggio”
(n°213), “Gallipoli” (n° 214), “Otranto” (n° 215) e “Tricase” (n° 223). In
queste sei carte vengono perimetrati 81 siti boschivi, comprese le pinete
frutto dei rimboschimenti già realizzati. I boschi riportati sono esigui lembi
residui delle “foreste” del passato. Solo il Bosco di Rauccio, residuo della “foresta”
di Lecce e le macchie di Arneo mostrano ancora una certa consistenza, pur
essendo indicati come “Bosco degradato”, segno della distruzione ormai in atto.
Tale carta ha un importante valore storico e mostra un Salento ormai
completamente spoglio della sua originaria copertura vegetale.
Occorre comunque chiarire le ragioni più profonde che hanno
portato a questa distruzione a senso unico. è noto, infatti, che in altre parti
della Puglia (Gargano e Monti Dauni) ampie distese boschive sono giunte fino a
noi poiché utilizzate come bosco ceduo, cioè come fonte di legname, principalmente
da ardere, a seguito di tagli periodici, i cosiddetti “turni di ceduazione”. è
noto che nel Salento è presente un clima spiccatamente mediterraneo. Tale clima
è caratterizzato, in sintesi, da estati calde e secche (crisi idrica estiva) ed
inverni miti e moderatamente piovosi. La vegetazione spontanea del Salento si
sviluppa in una condizione definita “contraddizione fitoclimatica”. Quando le temperature
sono elevate, quindi ottimali, per la crescita dei vegetali, manca l’acqua.
Viceversa, in inverno la presenza di acqua derivante dalle piogge è
accompagnata da basse temperature. Pertanto l’accrescimento delle specie
legnose avviene in primavera ed in inverno, periodi nei quali le condizioni
climatiche sono più idonee alla crescita (presenze concomitanti di temperatura
e disponibilità idrica). Nelle aree montuose è noto che la piovosità estiva è
abbondante e, quindi, alle massime temperature si somma una elevata piovosità
ed una crescita ottimale della massa legnosa. Ne consegue che l’accrescimento delle
specie arboree in ambiente mediterraneo è lento ed i turni di taglio possono arrivare
a 10-12 anni, rendendo antieconomica la conservazione del bosco a fini della
produzione di legna e più conveniente la loro eliminazione e la messa a coltura
dei terreni. Le variazioni climatiche registrate in tempi storici,
probabilmente, non hanno influito nel modificare questo quadro generale.
Alla carenza di formazioni boschive spontanee nel Salento
cercò di sopperire l’attività primaria svolta dalla Milizia Forestale negli
anni ‘30 mediante opere di rimboschimento. Si avviarono dei cantieri nell’ambito
di aree “depaludate”, ovvero bonificate dalle paludi costiere. Furono inoltre
realizzate opere di fissazione e contenimento delle sabbie litoranee mediante
realizzo di incannucciate ed impianto di specie fissatrici come l’Ammophila e,
contestualmente, si realizzarono impianti di resinose, principalmente pino d’Aleppo.
Si utilizzò, quindi, una specie rustica ed a rapido accrescimento, non tipica
dei boschi salentini, mista a specie esotiche come acacie, eucalipti, cipressi ecc.
dando origine a formazioni non naturaliformi che avevano la duplice funzione di
assestamento idrogeologico e di frangivento per riparare le colture
dell’entroterra dai venti salsi marini.
I lavori forestali interessarono diverse superfici bonificate
come le bonifiche di S. Cataldo e Cesine od aree completamente messe a nudo da
attività antropiche come le Serre di S. Cesarea Terme, i rimboschimenti di
Portoselvaggio e della Montagna Spaccata. I più consistenti rimboschimenti,
ancora oggi presenti, a parte alcuni
rimaneggiamenti dovuti ad incendio) riguardano le seguenti località: “Torcito”
(Cannole) Ha 120 (di proprietà dell’Amministrazione Provinciale); “Ciomma”
(Carpignano Salentino, Ha 50 (proprietà privata); “Ciccorusso” (Lecce), Ha 39
(proprietà privata); “Rauccio” (Lecce), Ha 30 (Proprietà ex ERSAP); “Buia”
(Lequile), Ha 33 (Proprietà privata, oggi fortemente ridotta da ripetuti
incendi); “Torre dell’Alto” (Nardò), Ha 169 (proprietà privata); “Torrenuova” (Nardò),
Ha 94 (proprietà privata); “Baia dei Turchi” (Otranto), Ha 46 (proprietà
privata); “Frassanito” (Otranto) Ha 72 (ex ERSAP e demanio); “Specchiulla
(Otranto), Ha 41 (proprietà privata); “Palazzo” (Supersano) Ha 33 (proprietà
privata); “Juriello” (Vernole) Ha 33 (proprietà della Forestale); “Cesine” (Vernole”,
Ha 250 (proprietà privata ed ex ERSAP); “S. Giovanni (Vernole), Ha 31
(proprietà privata) (M. Mainardi, Silva Sallenti, Lecce, Conte Editore, 1990,
p. 27). Va comunque precisato che alcune formazioni con vegetazione di pineta
erano già preesistenti e dovute a rimboschimenti molto più vecchi, come a S.
Cataldo, ai Laghi Alimini e ad Ugento, tanto che alcuni studiosi furono
indotti, erroneamente, a ritenerli spontanei (E. Francini, Il pino d’Aleppo in
Puglia, Annali facoltà di Agraria Università di Bari, Bari, Ed. Università di
Bari, 1953, pp. 309-416). Questa attività di rimboschimento rimane storica,
poiché oggi il Corpo Forestale dello Stato non ha più queste prerogative di
realizzazione di opere di rimboschimento. Parecchie delle superfici sopra
citate sono state erose negli anni da incendi più o meno dolosi ed a
discutibili attività di “valorizzazione”.
Conclusioni
In conclusione occorre ammettere, amaramente, che l’enorme
patrimonio boschivo del passato è andato irrimediabilmente perduto. Tale
perdita appare oggi irreversibile, in considerazione del fatto che
realisticamente non si intravede alcuna possibilità di ricostituzione, anche
parziale, di quelle formazioni vegetali, sia per gli enormi costi che
richiederebbe, sia per l’impossibilità di disporre di superfici idonee per tale
scopo. Non c’è stata alcuna lungimiranza da parte dei nostri predecessori, la
stessa mancanza di lungimiranza che contraddistingue gli avvenimenti attuali in
tema ambientale.
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