lunedì 25 gennaio 2016

Le scoperte di Alan Smith. Perché l’aratura, e più in generale le lavorazioni del terreno, disturbano i cicli nutritivi del suolo

Le scoperte di Alan Smith. Perché l’aratura, e più in generale le lavorazioni del terreno, disturbano i cicli nutritivi del suolo.


Per una corretta gestione dell’orto non si deve disturbare la vita del suolo con tutte quelle lavorazioni che rivoltano il terreno. Ora vediamo perché per l’agricoltura sinergica è importante comprendere la microbiologia, la vita del suolo, ossia il complesso meccanismo che permette alle piante di trasformare l’energia solare in energia chimica necessaria per crescere, metabolizzare e riprodursi (fotosintesi clorofilliana). Per questa particolarità, gli organismi vegetali rappresentano uno dei primi anelli della catena alimentare: la base della vita sulla terra.
Tuttavia le piante per crescere e svilupparsi hanno anche bisogno di altri elementi che non sono in grado di produrre direttamente come azoto, fosforo, zolfo, calcio, magnesio, potassio e una lunga serie di oligoelementi. Tutti questi elementi sono presenti nel suolo, ma non sempre in forma solubile, cioè assimilabile per le piante. Per attingere quindi a tali riserve di elementi, le piante hanno bisogno di mobilitarli e averli disponibili in forma solubile.
L’importanza dei residui
E qui scopriamo che sotto le piante, nel terreno, esiste un complesso ecosistema che si preoccupa di svolgere questo lavoro, ossia rendere gli elementi nutritivi necessari alle piante in forma assimilabile: è la vita microbica (batteri, funghi, enzimi).
In realtà, tra queste piante e microrganismi vi è un intenso interscambio poiché anche le piante, a loro volta, stimolano la proliferazione dei microrganismi del suolo emettendo essudati radicali come carboidrati e zuccheri semplici (energia solare trasformata in energia chimica).
Gli stessi residui secchi dei vegetali, foglie, fusti, radici, rappresentano ulteriore nutrimento per i microrganismi, così come i residui organici di questi ultimi si trasformano in materia prima importante per i vegetali.
È così che s’instaura una stretta relazione tra questi due mondi che apparentemente sembrano divisi ed è così che avviene l’autofertilizzazione della Terra. Purtroppo per molti anni, queste osservazioni, così come le analisi dimostrative dei vantaggi dell’agricoltura senza aratura, praticata e consigliata da Masanobu Fukuoka sin dalla fine degli anni trenta, non sono state prese in seria considerazione dall’ambiente accademico istituzionale.
Finché, una ricerca sulla Phithosphora condotta dal microbiologo australiano Alan Smith del dipartimento agricolo del New South Wales, non portò alla luce alcuni fenomeni di gran rilievo sul funzionamento naturale del suolo. Scoperte che spiegano in modo scientifico quella che era stata l’intuizione di Fukuoka e chiariscono i successi delle coltivazioni senza aratura. La Phithosphora è un fungo devastatore che agli inizi degli anni settanta stava paralizzando la coltivazione e la conseguente industria dell’avocado in Australia. A nulla valsero i tentativi con prodotti chimici, il fungo proliferava egualmente.
Durante le sue approfondite ricerche effettuate sulla microbiologia del suolo per meglio conoscere le modalità d’azione del fungo, Smith scoprì il complesso schema di relazioni esistenti tra piante, microrganismi del suolo ed elementi nutritivi.
Nei terreni naturali (imperturbati), l’interazione pianta-terreno funziona in maniera sana e controlla efficacemente l’attività microbica, ivi compresa quella degli organismi patogeni, come la Phithosphora, inoltre rende assimilabili gli elementi nutritivi presenti. Nei suoli perturbati da arature, lavori colturali e fertilizzanti con nitrati, si registra invece una profonda alterazione dei processi naturali: il terreno perde non solo la capacità di autofertilizzarsi, ma anche quella di difendersi dagli organismi patogeni (come appunto la Phithosphora), fino ad arrivare nei casi più gravi alla desertificazione. Da qui, la necessità di input esterni sottoforma di concimi organici, concimi chimici, fitofarmaci, ecc.
Il ciclo ossigeno-etilene
Uno dei processi più affascinanti della vita microbica del suolo è il ciclo ossigeno-etilene. Spiegare in dettaglio il processo osservato da Smith in poco spazio non è facile (chi è interessato può richiedere gli appunti redatti da Emilia Hazelip), ma lo schema pubblicato a lato può aiutare ad avere una comprensione del fenomeno che potrebbe essere definito il respiro della Terra, in quanto si ripete con un ritmo di circa 20 minuti.
Durante la loro vita, le piante cedono al suolo fino al 25% dei composti carboniosi prodotti nelle foglie, sotto forma sia di essudati che di cellule morte. Per la maggior parte, tali sostanze cedute dalla pianta al suolo sono fonte di energia per i microrganismi che proliferano nella rizosfera (è la porzione di suolo prospiciente le radici). Questi microrganismi si moltiplicano così intensamente che consumano l’ossigeno contenuto nei micrositi (cavità nella stratificazione del suolo, dove si sviluppa l’attività microbica) della rizosfera, rendendoli anaerobici (privi di ossigeno).
No ai concimi chimici
In seguito, nei micrositi anaerobici si produce etilene, un composto gassoso che è un regolatore essenziale dell’attività dei microrganismi del suolo, influenzando il tasso di turn over della materia organica, il riciclo dei nutrienti delle piante e l’incidenza delle patologie vegetali.
Inizialmente i microrganismi proliferano sugli essudati radicali delle piante ed eliminano l’ossigeno dei micrositi della rizosfera. L’etilene viene prodotta all’interno di questi micrositi e diffusa intorno, rendendo inattivi i microrganismi del suolo.
Quando si verifica questa condizione, la richiesta d’ossigeno diminuisce, e quindi satura i micrositi bloccando o riducendo fortemente la produzione di etilene: in questo modo i microrganismi possono riprendere la loro attività. Le condizioni favorevoli alla produzione di etilene sono quindi ricreate e il ciclo si ripete.
Nei suoli naturali non lavorati, come quelli delle praterie e delle foreste, l’etilene può essere continuamente rilevata, dimostrando come il ciclo Ossigeno – Etilene si produca efficacemente. Al contrario, la sua concentrazione nei suoli agricoli sottoposti a intense lavorazioni, è in genere estremamente debole o addirittura nulla. E siccome l’etilene ha un ruolo importante sulla popolazione microbica del suolo, quando l’equilibrio dell’ecosistema viene disturbato dalle pratiche agricole o silvicolturali, la situazione cambia radicalmente. La materia organica del suolo diminuisce pericolosamente, i nutrimenti cominciano a scarseggiare e l’incidenza di malattie aumenta. Tentare di stroncare questi processi con l’uso di fertilizzanti e di pesticidi è inefficace perché indebolisce le piante a lungo termine e aumenta a dismisura i costi di produzione.
Una delle principali cause della mancanza di produzione di etilene nei suoli agricoli lavorati (aratura, fresatura) è che tali tecniche provocano un cambiamento della forma dell’azoto. Nei terreni non disturbati, l’azoto è tutto sotto forma di ammonio con tracce di nitrati.
Quando questi ecosistemi vengono disturbati con le lavorazioni e le pratiche colturali, tutto l’azoto presente prende forma di nitrati perché tali operazioni stimolano l’attività di batteri specializzati nella conversione dell’ammonio in nitrato e ciò inibisce la produzione di etilene e quindi il lavoro di assimilabilità degli elementi nutritivi.
Per evitare tali inconvenienti e aumentare la produttività del terreno è dunque necessario creare condizioni favorevoli alla produzione di etilene, osservando alcune semplici procedure con le seguenti pratiche:

- Evitare di arare o rimuovere il terreno;
- Evitare l’uso di nitrati;
- Lasciare al suolo i residui organici non utilizzati (foglie, piante secche, radici), al cui interno, in seguito al processo di decomposizione, si accumula il precursore che permette, con la mobilitazione del ferro, la produzione di etilene.

È davvero strano che nelle grandi aziende agricole intensive australiane, americane e canadesi, vengano applicati con successo sistemi di coltivazione senza lavorazione della terra (enormi trattori viaggiano su «rotaie» pretracciate, in modo che il terreno tra le ruote, molto larghe, rimanga indisturbato e la crosta viene rotta con erpice solo là dove cadrà il seme), mentre nei piccoli orti e nei piccoli campi, il terreno si lavora in maniera esasperata, rivoltando la fetta e rimuovendo in profondità gli strati del terreno. Se la lavorazione minima del terreno diventasse una pratica diffusa i vantaggi per le coltivazioni, la terra, i coltivatori, la salute e la bontà dei prodotti agricoli sarebbero impagabili.


Per contattare i curatori della rubrica: Fortunato Fabbricini (Associazione Kanbio, Chiaves - To, tel. 0123.42153, kanbio@libero.it); Antonio De Falco (defalcoa@virgilio.it – Associazione Basilico – marizap@supereva.it). 

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