Le scoperte di Alan Smith. Perché l’aratura, e più in
generale le lavorazioni del terreno, disturbano i cicli nutritivi del suolo.
Per una corretta gestione dell’orto non si deve disturbare
la vita del suolo con tutte quelle lavorazioni che rivoltano il terreno. Ora
vediamo perché per l’agricoltura sinergica è importante comprendere la
microbiologia, la vita del suolo, ossia il complesso meccanismo che permette
alle piante di trasformare l’energia solare in energia chimica necessaria per
crescere, metabolizzare e riprodursi (fotosintesi clorofilliana). Per questa particolarità,
gli organismi vegetali rappresentano uno dei primi anelli della catena
alimentare: la base della vita sulla terra.
Tuttavia le piante per crescere e svilupparsi hanno anche
bisogno di altri elementi che non sono in grado di produrre direttamente come
azoto, fosforo, zolfo, calcio, magnesio, potassio e una lunga serie di
oligoelementi. Tutti questi elementi sono presenti nel suolo, ma non sempre in
forma solubile, cioè assimilabile per le piante. Per attingere quindi a tali
riserve di elementi, le piante hanno bisogno di mobilitarli e averli
disponibili in forma solubile.
L’importanza dei
residui
E qui scopriamo che sotto le piante, nel terreno, esiste un
complesso ecosistema che si preoccupa di svolgere questo lavoro, ossia rendere
gli elementi nutritivi necessari alle piante in forma assimilabile: è la vita microbica
(batteri, funghi, enzimi).
In realtà, tra queste piante e microrganismi vi è un intenso
interscambio poiché anche le piante, a loro volta, stimolano la proliferazione dei
microrganismi del suolo emettendo essudati radicali come carboidrati e zuccheri
semplici (energia solare trasformata in energia chimica).
Gli stessi residui secchi dei vegetali, foglie, fusti,
radici, rappresentano ulteriore nutrimento per i microrganismi, così come i
residui organici di questi ultimi si trasformano in materia prima importante per
i vegetali.
È così che s’instaura una stretta relazione tra questi due
mondi che apparentemente sembrano divisi ed è così che avviene
l’autofertilizzazione della Terra. Purtroppo per molti anni, queste
osservazioni, così come le analisi dimostrative dei vantaggi dell’agricoltura
senza aratura, praticata e consigliata da Masanobu Fukuoka sin dalla fine degli
anni trenta, non sono state prese in seria considerazione dall’ambiente
accademico istituzionale.
Finché, una ricerca sulla Phithosphora condotta dal
microbiologo australiano Alan Smith del dipartimento agricolo del New South Wales,
non portò alla luce alcuni fenomeni di gran rilievo sul funzionamento naturale
del suolo. Scoperte che spiegano in modo scientifico quella che era stata
l’intuizione di Fukuoka e chiariscono i successi delle coltivazioni senza
aratura. La Phithosphora è un fungo devastatore che agli inizi degli anni
settanta stava paralizzando la coltivazione e la conseguente industria
dell’avocado in Australia. A nulla valsero i tentativi con prodotti chimici, il
fungo proliferava egualmente.
Durante le sue approfondite ricerche effettuate sulla
microbiologia del suolo per meglio conoscere le modalità d’azione del fungo,
Smith scoprì il complesso schema di relazioni esistenti tra piante,
microrganismi del suolo ed elementi nutritivi.
Nei terreni naturali (imperturbati), l’interazione
pianta-terreno funziona in maniera sana e controlla efficacemente l’attività
microbica, ivi compresa quella degli organismi patogeni, come la Phithosphora, inoltre
rende assimilabili gli elementi nutritivi presenti. Nei suoli perturbati da arature, lavori colturali e fertilizzanti con
nitrati, si registra invece una profonda alterazione dei processi naturali: il
terreno perde non solo la capacità di autofertilizzarsi, ma anche quella di difendersi
dagli organismi patogeni (come appunto la Phithosphora), fino ad arrivare nei
casi più gravi alla desertificazione. Da qui, la necessità di input esterni
sottoforma di concimi organici, concimi chimici, fitofarmaci, ecc.
Il ciclo
ossigeno-etilene
Uno dei processi più
affascinanti della vita microbica del suolo è il ciclo ossigeno-etilene.
Spiegare in dettaglio il processo osservato da Smith in poco spazio non è facile
(chi è interessato può richiedere gli appunti redatti da Emilia Hazelip), ma lo schema pubblicato a lato può aiutare
ad avere una comprensione del fenomeno che potrebbe essere definito il respiro della
Terra, in quanto si ripete con un
ritmo di circa 20 minuti.
Durante la loro vita, le piante cedono al suolo fino al 25%
dei composti carboniosi prodotti nelle foglie, sotto forma sia di essudati che
di cellule morte. Per la maggior parte, tali sostanze cedute dalla pianta al suolo
sono fonte di energia per i microrganismi che proliferano nella rizosfera (è la
porzione di suolo prospiciente le radici). Questi microrganismi si moltiplicano
così intensamente che consumano l’ossigeno contenuto nei micrositi (cavità nella
stratificazione del suolo, dove si sviluppa l’attività microbica) della rizosfera,
rendendoli anaerobici (privi di ossigeno).
No ai concimi chimici
In seguito, nei micrositi anaerobici si produce etilene, un
composto gassoso che è un regolatore essenziale dell’attività dei microrganismi
del suolo, influenzando il tasso di turn over della materia organica, il riciclo
dei nutrienti delle piante e l’incidenza delle patologie vegetali.
Inizialmente i microrganismi proliferano sugli essudati
radicali delle piante ed eliminano l’ossigeno dei micrositi della rizosfera.
L’etilene viene prodotta all’interno di questi micrositi e diffusa intorno,
rendendo inattivi i microrganismi del suolo.
Quando si verifica questa condizione, la richiesta
d’ossigeno diminuisce, e quindi satura i micrositi bloccando o riducendo
fortemente la produzione di etilene: in questo modo i microrganismi possono riprendere
la loro attività. Le condizioni favorevoli alla produzione di etilene sono
quindi ricreate e il ciclo si ripete.
Nei suoli naturali non lavorati, come quelli delle praterie
e delle foreste, l’etilene può essere continuamente rilevata, dimostrando come
il ciclo Ossigeno – Etilene si produca efficacemente. Al contrario, la sua
concentrazione nei suoli agricoli sottoposti a intense lavorazioni, è in genere
estremamente debole o addirittura nulla. E siccome l’etilene ha un ruolo
importante sulla popolazione microbica del suolo, quando l’equilibrio
dell’ecosistema viene disturbato dalle pratiche agricole o silvicolturali, la
situazione cambia radicalmente. La materia organica del suolo diminuisce
pericolosamente, i nutrimenti cominciano a scarseggiare e l’incidenza di
malattie aumenta. Tentare di stroncare questi processi con l’uso di
fertilizzanti e di pesticidi è inefficace perché indebolisce le piante a lungo
termine e aumenta a dismisura i costi di produzione.
Una delle principali cause della mancanza di produzione di
etilene nei suoli agricoli lavorati (aratura, fresatura) è che tali tecniche
provocano un cambiamento della forma dell’azoto. Nei terreni non disturbati,
l’azoto è tutto sotto forma di ammonio con tracce di nitrati.
Quando questi ecosistemi vengono disturbati con le lavorazioni
e le pratiche colturali, tutto l’azoto presente prende forma di nitrati perché
tali operazioni stimolano l’attività di batteri specializzati nella conversione
dell’ammonio in nitrato e ciò inibisce la produzione di etilene e quindi il
lavoro di assimilabilità degli elementi nutritivi.
Per evitare tali inconvenienti e aumentare la produttività
del terreno è dunque necessario creare condizioni favorevoli alla produzione di
etilene, osservando alcune semplici procedure con le seguenti pratiche:
- Evitare di arare o rimuovere il terreno;
- Evitare l’uso di nitrati;
- Lasciare al suolo i residui organici non utilizzati
(foglie, piante secche, radici), al cui interno, in seguito al processo di
decomposizione, si accumula il precursore che permette, con la mobilitazione del
ferro, la produzione di etilene.
È davvero strano che nelle grandi aziende agricole intensive
australiane, americane e canadesi, vengano applicati con successo sistemi di
coltivazione senza lavorazione della terra (enormi trattori viaggiano su
«rotaie» pretracciate, in modo che il terreno tra le ruote, molto larghe,
rimanga indisturbato e la crosta viene rotta con erpice solo là dove cadrà il
seme), mentre nei piccoli orti e nei piccoli campi, il terreno si lavora in
maniera esasperata, rivoltando la fetta e rimuovendo in profondità gli strati
del terreno. Se la lavorazione minima del terreno diventasse una pratica diffusa
i vantaggi per le coltivazioni, la terra, i coltivatori, la salute e la bontà dei
prodotti agricoli sarebbero impagabili.
Per contattare i curatori della rubrica: Fortunato
Fabbricini (Associazione Kanbio, Chiaves - To, tel. 0123.42153, kanbio@libero.it); Antonio De Falco (defalcoa@virgilio.it – Associazione
Basilico – marizap@supereva.it).
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