Il 33 per cento delle terre coltivabili è stato distrutto in
40 anni: un nuovo allarme dalla COP21.
Una cosa su cui si riflette poco è che il suolo coltivato,
quello che ci permette di avere quotidianamente pasta, riso, pane, verdure, è
profondo solo pochi decimetri. Non più di un metro.
E affinché si formino 2,5 centimetri di suolo nuovo, la
natura impiega non meno di 500 anni. Quello che definiamo strato attivo è
dunque un tesoro prezioso e raro, ben più del petrolio.
Ma quasi un terzo
delle terre coltivabili del nostro pianeta è scomparso negli ultimi 40 anni, a
causa di pratiche agricole intensive: ci vorranno secoli perché tornino
produttive. E la situazione non può che peggiorare se non si prendono
provvedimenti ora, affermano gli esperti che hanno presentato il loro rapporto
alla COP21, la conferenza sul clima di Parigi.
IL FANTASMA DELLA DUST BOWL. L’allarme, perché si tratta di
un vero e proprio allarme, è arrivato da Duncan Cameron, biologo
dell’università di Sheffield (UK): «Oggi
il tasso di erosione dei campi arati è da dieci a cento volte superiore al
tasso di formazione del suolo». Il ricercatore sottolinea che il sistema di
agricoltura intensiva è insostenibile, in particolare per l'uso massiccio dei
fertilizzanti, che a lungo andare degradano il suolo anziché arricchirlo. Senza
contare che la produzione di fertilizzanti assorbe almeno il 2 per cento delle
fonti energetiche disponibili annualmente.
«Per capire verso
dove stiamo andando bisogna pensare alla dust bowl che si verificò nel 1930 nel
Nord America: quella sarà una situazione normale sul nostro pianeta se
proseguaiamo su questa strada». ha sottolineato Cameron. La dust bowl è una
serie di tempeste di sabbia che interessarono la parte centrale degli Stati
Uniti e una vasta area del Canada, causate dalla progressiva desertificazione
del suolo fertile direttamente correlate a tecniche di agricoltura intensiva,
con uso massiccio di fertilizzanti chimici e senza rotazione delle colture. Fu un vero e proprio disastro ecologico.
ROTAZIONE E RIPOSO. Secondo il ricercatore la soluzione c'è
e consiste nel tornare all’uso di metodi agricoli pre-industriali, che
permisero di preservare i terreni agricoli per generazioni. In particolare servirebbe tornare all’uso
dei letami, che permettono di ripristinare la materia prima di cui è composto
lo strato attivo, oltre che la struttura del suolo e la sua capacità di
trattenere l’acqua e i nutrienti. «C’è un gran bisogno di mettere a riposo
molti suoli - afferma Cameron - per dare loro il tempo di ricostituire
caratteristiche e nutrienti.
E c'è un altro fattore importante da considerare: i metodi
di produzione hanno imposto una netta distinzione tra suolo agricolo e quello
usati per l’allevamento. Bisogna invece
tornare alla rotazione, sia delle colture sia delle destinazioni.»
IL RUOLO DELLE BIOTECNOLOGIE. Con tutto ciò Cameron non
auspica il ritorno all'agricoltura dell'800 e la rinuncia alle tecnologie,
anzi. In particolare, ritiene che le
biotecnologie dovrebbero essere utilizzate per ricreare e supportare la
simbiosi tra suolo e microbi, il cui "lavoro" riduce la necessità di
fertilizzanti.
Come siamo arrivati a questo punto? Di chi è la colpa? Certo
non degli agricoltori, ultimo anello di una lunga catena di scelte a valle
della produzione, obbligati dal "mercato" ad adeguarsi a metodi di
lavoro che distruggono la terra. Quello che è in primo luogo necessario adesso,
è una nuova politica per l'agricoltura che li aiuti a prendere un’altra strada.
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