Non è semplice stimare di quanta frutta, verdura e legumi si
cibassero gli uomini nella preistoria, in quanto tali prodotti non si
conservano molto bene nel suolo, a differenza dei resti di animali mangiati
dagli uomini preistorici, che sono invece numerosi; tuttavia, da ciò non si
deve inferire che la loro alimentazione fosse prevalentemente carnivora.
Infatti, nella preistoria venivano consumate grandi quantità di frutta, foglie,
semi, perché gli scheletri risalenti a questo periodo presentano denti molto
usurati( 1 Flandrin J. J., Montanari M. (a cura di), Storia dell’alimentazione,
Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 12-13).
La contrapposizione fra un’alimentazione basata sulla carne
e una in cui essa è quasi del tutto assente è già molto forte nell’antichità.
Nel mondo greco e latino gli stili alimentari erano simboli identitari e
modelli di civiltà. L’agricoltura e l’arboricoltura non costituivano solo la
base dell’economia greca e latina, ma erano anche uno dei fondamenti della
cultura di tali popoli(Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia
dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 12-13).
Il cuore della dieta di greci e latini, imperniato sulla
triade mediterranea di grano, vite e ulivo, era costituito da farinate di
legumi, pane, vino, olio, verdure e formaggio. La carne aveva un ruolo
marginale, soprattutto nell’alimentazione greca. Gli ateniesi identificavano la
propria patria come il territorio dove crescevano il grano, l’orzo, la vite, i
fichi e l’ulivo (3 Plutarco, Vita di Coriolano e Alcibiade, XV, 4: http://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Coriolano_Alcibiade.htm.
efebi nel santuario di Agraulo: promettono, infatti, di considerare confini
dell'Attica grano, orzo, viti, fichi e ulivi; così gli si insegna a ritenere
come ateniese ogni terreno coltivato e fruttifero).
I legumi maggiormente coltivati erano fave, ceci, lenticchie
e veccia. Per quanto riguarda la verdura, i greci coltivavano il porro, la
cipolla, l’aglio; i romani coltivavano molto il cavolo (4 Flandrin J. J.,
Montanari M. (a cura di), Storia dell’alimentazione, p. 76).
La coltura di prodotti ortofrutticoli era il tratto
distintivo di due società che si consideravano civili perché i propri membri si
nutrivano di cibi lavorati dall’uomo, sia nella fase di produzione sia in
quella di preparazione. L’uomo civile fabbrica il proprio cibo e si distingue
dal barbaro che invece lo trova in natura e lo consuma come tale. Infatti, i
romani identificano i celti e i germani come popoli che non praticavano
l’agricoltura, ma la caccia, la cui alimentazione era prevalentemente carnivora
e le cui bevande erano il latte o la birra.
Anche celti e germani consumavano cereali e, come già
anticipato, anche greci e romani consumavano carne, tuttavia per i primi la
carne, soprattutto suina, aveva un valore primario nel proprio modello
alimentare-culturale; invece, per i secondi era la triade mediterranea a
costituire il maggiore indicatore della propria identità. Non a caso l’Età
dell’oro del mondo classico è descritta come un periodo in cui la terra
fruttificava copiosamente. Il paradiso del mondo germanico, invece, offre agli
eroi caduti in battaglia la carne inesauribile del maiale Saehrimnir.
Presso i romani, inoltre, la dieta dei ceti dominanti non
era molto diversa da quella degli altri strati sociali, anzi chi voleva
presentarsi come portatore degli antichi valori romani consumava pasti piuttosto
frugali. Nella Storia Augustea gli imperatori rispettosi dei valori
tradizionali sono presentati come mangiatori di legumi, verdure e frutta, come
Giuliano,( Soverini P. (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, UTET,
Torino 1983, vol. I, p. 397) e contrapposti agli imperatori di origine barbara,
i quali, erano smodati nelle quantità assunte e grandi consumatori di carne,
come Massimino il Trace, del quale si dice che non avesse mai assaggiato
ortaggi.( Soverini P. (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, UTET, Torino
1983,, vol. II, p. 747).
Nel mondo classico, dunque, gli stili alimentari
costituirono una fondamentale linea di demarcazione fra mondo civile e mondo
selvaggio, fra ciò che sta nella società e ciò che proviene dall’esterno. Verso
la fine del Basso Medioevo, invece, i modelli dietetici rappresentarono un
fattore distintivo all’interno della stessa società, con il quale i ceti
dominanti ribadivano la loro superiorità di status. La prescrizione di
Ippocrate di mangiare secondo la propria qualità è interpretata in questo
periodo nel senso di nutrirsi secondo la propria estrazione sociale. Perciò,
chi non si adeguava alla dieta della propria condizione era considerato alla stregua
di un sovvertitore della gerarchia sociale e, secondo trattati medici del
tempo, rischiava anche di danneggiare la propria salute. In una novella del
Quattrocento di Sabatino degli Arienti un contadino si ciba di nascosto delle
pesche del suo padrone, le quali, come tutta la frutta fresca, sono considerate
un cibo signorile. Una volta scoperto, il contadino viene punito con
l’immersione in acqua bollente, mentre il suo padrone lo rimprovera,
dicendogli: «Un’altra volta lascia stare le fructe de li miei pari e mangia de
le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cipolle e le scalogne col pan di
sorgo» (Degli Arienti S., Le Porretane, Gambarin G. (a cura di), Laterza, Bari
1914, XXXVIII, pp. 229).
Questo rimprovero, esemplificativo della visione del mondo
di quell’epoca, rivela un parallelismo fra ordine sociale e ordine naturale,
entrambi strettamente gerarchici: i prodotti ortofrutticoli più vicini alla
terra o immersi nel suolo, come bulbi, radici ed erbe basse e comuni erano
considerati adatti per coloro che si trovavano alla base della gerarchia
sociale. Più frutta e verdura crescevano lontano dalla terra e si avvicinavano
al cielo, più erano considerate cibi nobili. La frutta che cresce sugli alberi
era uno dei prodotti più signorili, anche perché era difficile da conservare e
reperire, quindi era molto costosa (Montanari M., La fame e l’abbondanza.
Storia dell’alimentazione in Europa, p. 112-115).
Un’altra tappa fondamentale della storia di frutta, verdura
e legumi è legata alle scoperte geografiche dei secoli XV e XVI, grazie alle
quali vennero importati nuovi prodotti ortofrutticoli in Europa, come pomodori,
patate, peperoncino, fagioli, peperoni, ananas, avocado, papaya e altra frutta
esotica, che all’inizio non ebbero molto successo e che furono consumati solo
dai ricchi. Le patate impiegarono circa due secoli a introdursi stabilmente
nella dieta degli europei e il motivo del loro inserimento furono le carestie.
La patata aveva, infatti, una resa molto alta (a parità di superficie coltivata
nutriva il doppio o il triplo di persone rispetto ai cereali), resisteva
maggiormente alle avversità climatiche e alle devastazioni delle guerre, dato
che cresce sottoterra (Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia
dell’alimentazione in Europa, pp. 128-130, 164, 170). La frutta tropicale
rimase invece un cibo d’élite.
Infine, l’ultima tappa fondamentale nella storia di frutta,
verdura e legumi consiste nella rivoluzione del metodo di conservazione di essi
nei primi decenni del XIX secolo: grazie a all’invenzione dell’’inscatolamento
ermetico e delle nuove tecniche di refrigerazione e congelamento, era possibile
importare tali prodotti da regioni lontane senza che si deteriorassero. Anche
la rivoluzione dei trasporti, con ferrovie e navi a vapore, facilitò tale
processo (Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in
Europa, p. 193). Queste innovazioni non solo resero maggiormente disponibili,
quindi meno costosi, alimenti che prima imbandivano solo le tavole dei ricchi,
ma affrancarono gli individui dalla sottomissione ai ritmi della natura nella
forma della stagionalità di frutta e verdura.
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