domenica 24 gennaio 2016

Cenni storici su frutta, verdura e legumi e riferimenti letterari


Non è semplice stimare di quanta frutta, verdura e legumi si cibassero gli uomini nella preistoria, in quanto tali prodotti non si conservano molto bene nel suolo, a differenza dei resti di animali mangiati dagli uomini preistorici, che sono invece numerosi; tuttavia, da ciò non si deve inferire che la loro alimentazione fosse prevalentemente carnivora. Infatti, nella preistoria venivano consumate grandi quantità di frutta, foglie, semi, perché gli scheletri risalenti a questo periodo presentano denti molto usurati( 1 Flandrin J. J., Montanari M. (a cura di), Storia dell’alimentazione, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 12-13).
La contrapposizione fra un’alimentazione basata sulla carne e una in cui essa è quasi del tutto assente è già molto forte nell’antichità. Nel mondo greco e latino gli stili alimentari erano simboli identitari e modelli di civiltà. L’agricoltura e l’arboricoltura non costituivano solo la base dell’economia greca e latina, ma erano anche uno dei fondamenti della cultura di tali popoli(Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, Laterza, Roma-Bari 1997, pp. 12-13).
Il cuore della dieta di greci e latini, imperniato sulla triade mediterranea di grano, vite e ulivo, era costituito da farinate di legumi, pane, vino, olio, verdure e formaggio. La carne aveva un ruolo marginale, soprattutto nell’alimentazione greca. Gli ateniesi identificavano la propria patria come il territorio dove crescevano il grano, l’orzo, la vite, i fichi e l’ulivo (3 Plutarco, Vita di Coriolano e Alcibiade, XV, 4: http://spazioinwind.libero.it/latinovivo/Testintegrali/Coriolano_Alcibiade.htm. efebi nel santuario di Agraulo: promettono, infatti, di considerare confini dell'Attica grano, orzo, viti, fichi e ulivi; così gli si insegna a ritenere come ateniese ogni terreno coltivato e fruttifero).
I legumi maggiormente coltivati erano fave, ceci, lenticchie e veccia. Per quanto riguarda la verdura, i greci coltivavano il porro, la cipolla, l’aglio; i romani coltivavano molto il cavolo (4 Flandrin J. J., Montanari M. (a cura di), Storia dell’alimentazione, p. 76).
La coltura di prodotti ortofrutticoli era il tratto distintivo di due società che si consideravano civili perché i propri membri si nutrivano di cibi lavorati dall’uomo, sia nella fase di produzione sia in quella di preparazione. L’uomo civile fabbrica il proprio cibo e si distingue dal barbaro che invece lo trova in natura e lo consuma come tale. Infatti, i romani identificano i celti e i germani come popoli che non praticavano l’agricoltura, ma la caccia, la cui alimentazione era prevalentemente carnivora e le cui bevande erano il latte o la birra.
Anche celti e germani consumavano cereali e, come già anticipato, anche greci e romani consumavano carne, tuttavia per i primi la carne, soprattutto suina, aveva un valore primario nel proprio modello alimentare-culturale; invece, per i secondi era la triade mediterranea a costituire il maggiore indicatore della propria identità. Non a caso l’Età dell’oro del mondo classico è descritta come un periodo in cui la terra fruttificava copiosamente. Il paradiso del mondo germanico, invece, offre agli eroi caduti in battaglia la carne inesauribile del maiale Saehrimnir.
Presso i romani, inoltre, la dieta dei ceti dominanti non era molto diversa da quella degli altri strati sociali, anzi chi voleva presentarsi come portatore degli antichi valori romani consumava pasti piuttosto frugali. Nella Storia Augustea gli imperatori rispettosi dei valori tradizionali sono presentati come mangiatori di legumi, verdure e frutta, come Giuliano,( Soverini P. (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, UTET, Torino 1983, vol. I, p. 397) e contrapposti agli imperatori di origine barbara, i quali, erano smodati nelle quantità assunte e grandi consumatori di carne, come Massimino il Trace, del quale si dice che non avesse mai assaggiato ortaggi.( Soverini P. (a cura di), Scrittori della Storia Augusta, UTET, Torino 1983,, vol. II, p. 747).

Nel mondo classico, dunque, gli stili alimentari costituirono una fondamentale linea di demarcazione fra mondo civile e mondo selvaggio, fra ciò che sta nella società e ciò che proviene dall’esterno. Verso la fine del Basso Medioevo, invece, i modelli dietetici rappresentarono un fattore distintivo all’interno della stessa società, con il quale i ceti dominanti ribadivano la loro superiorità di status. La prescrizione di Ippocrate di mangiare secondo la propria qualità è interpretata in questo periodo nel senso di nutrirsi secondo la propria estrazione sociale. Perciò, chi non si adeguava alla dieta della propria condizione era considerato alla stregua di un sovvertitore della gerarchia sociale e, secondo trattati medici del tempo, rischiava anche di danneggiare la propria salute. In una novella del Quattrocento di Sabatino degli Arienti un contadino si ciba di nascosto delle pesche del suo padrone, le quali, come tutta la frutta fresca, sono considerate un cibo signorile. Una volta scoperto, il contadino viene punito con l’immersione in acqua bollente, mentre il suo padrone lo rimprovera, dicendogli: «Un’altra volta lascia stare le fructe de li miei pari e mangia de le tue, che sono le rape, gli agli, porri, cipolle e le scalogne col pan di sorgo» (Degli Arienti S., Le Porretane, Gambarin G. (a cura di), Laterza, Bari 1914, XXXVIII, pp. 229).
Questo rimprovero, esemplificativo della visione del mondo di quell’epoca, rivela un parallelismo fra ordine sociale e ordine naturale, entrambi strettamente gerarchici: i prodotti ortofrutticoli più vicini alla terra o immersi nel suolo, come bulbi, radici ed erbe basse e comuni erano considerati adatti per coloro che si trovavano alla base della gerarchia sociale. Più frutta e verdura crescevano lontano dalla terra e si avvicinavano al cielo, più erano considerate cibi nobili. La frutta che cresce sugli alberi era uno dei prodotti più signorili, anche perché era difficile da conservare e reperire, quindi era molto costosa (Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, p. 112-115).
Un’altra tappa fondamentale della storia di frutta, verdura e legumi è legata alle scoperte geografiche dei secoli XV e XVI, grazie alle quali vennero importati nuovi prodotti ortofrutticoli in Europa, come pomodori, patate, peperoncino, fagioli, peperoni, ananas, avocado, papaya e altra frutta esotica, che all’inizio non ebbero molto successo e che furono consumati solo dai ricchi. Le patate impiegarono circa due secoli a introdursi stabilmente nella dieta degli europei e il motivo del loro inserimento furono le carestie. La patata aveva, infatti, una resa molto alta (a parità di superficie coltivata nutriva il doppio o il triplo di persone rispetto ai cereali), resisteva maggiormente alle avversità climatiche e alle devastazioni delle guerre, dato che cresce sottoterra (Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, pp. 128-130, 164, 170). La frutta tropicale rimase invece un cibo d’élite.

Infine, l’ultima tappa fondamentale nella storia di frutta, verdura e legumi consiste nella rivoluzione del metodo di conservazione di essi nei primi decenni del XIX secolo: grazie a all’invenzione dell’’inscatolamento ermetico e delle nuove tecniche di refrigerazione e congelamento, era possibile importare tali prodotti da regioni lontane senza che si deteriorassero. Anche la rivoluzione dei trasporti, con ferrovie e navi a vapore, facilitò tale processo (Montanari M., La fame e l’abbondanza. Storia dell’alimentazione in Europa, p. 193). Queste innovazioni non solo resero maggiormente disponibili, quindi meno costosi, alimenti che prima imbandivano solo le tavole dei ricchi, ma affrancarono gli individui dalla sottomissione ai ritmi della natura nella forma della stagionalità di frutta e verdura.

Nessun commento:

Posta un commento