lunedì 4 gennaio 2016

La fertilità della terra e l’agricoltura industriale. Il Testament di Albert Howard


La fertilità della terra e l’agricoltura industriale. Il Testament di Albert Howard
di Piero Bevilacqua
C’è un dato dell’agricoltura industriale del nostro tempo, uno su tutti, che mostra il gigantesco e insostenibile paradosso su cui essa si regge. Si tratta, forse, del dato simbolicamente più clamoroso dello scacco subito dall’economia dello sviluppo negli ultimi decenni, che mostra nitidamente come la produzione di merci si realizza oggi grazie alla dissipazione di ricchezza.
L’attività dell’agricoltura attuale, il suo procedere, il suo avanzare, tendono infatti a distruggere la base stessa di ciò che è stato, per millenni, il fondamento di ogni produzione agricola: la fertilità della terra. Dopo quasi un secolo di «industrializzazione dell’agricoltura», questo miracolo a rovescio appare ormai non più occultabile, neppure dalle mirabolanti rese produttive degli anni recenti. L’agricoltura dei paesi ricchi, infatti, non si fonda più sulla fertilità del suolo, vale a dire sulla sua capacità rigeneratrice, in grado di restituire ciclicamente e ininterrottamente gli elementi nutritivi alle piante coltivate. Essa, semplicemente, è resa possibile da un utilizzo crescente della concimazione chimica, che non fertilizza il terreno, ma nutre artificialmente la pianta. Non è più la terra a generare il grano, ma i concimi scavati in qualche lontana miniera di fosfati o l’azoto fissato industrialmente attraverso il petrolio. Il consumo crescente di energia fossile – sino ad oggi a buon mercato – tiene in piedi artificialmente, ma con un bilancio energetico passivo, un settore che per millenni ha fornito energia alle comunità umane. Per colmo, tale operazione, tale inversione della pratica consuetudinaria su cui si è retta nei secoli l’agricoltura, ha diverse conseguenze. Trascuriamo, per brevità, gli effetti inquinanti che i fertilizzanti minerali, soprattutto fosforo e azoto, producono sulle acque di falda. Ma l’acqua non è una risorsa, non è una ricchezza sempre più rara e preziosa? Rammentiamo soltanto che i concimi chimici mineralizzano il terreno, rendendolo sempre più duro, scarsamente capace di trattenere l’acqua, sempre più privo di sostanza organica e quindi biologicamente morto. Solo i residui delle coltivazioni assicurano, in alcuni casi, qualche superstite elemento organico nei campi.
Mentre, d’altro canto, il diserbo chimico, sempre più diffuso, tende ad annientare ogni forma di vita che non sia la pianta coltivata.
Tale condizione, questo suolo morto, inerte supporto fisico alla produzione di beni industriali alimentari, rende lo strato superficiale del terreno facilmente soggetto ai processi di erosione degli agenti atmosferici e quindi a rischio di vera e propria perdita. In tutto il mondo l’erosione, la distruzione di suolo fertile – legata a fenomeni naturali combinati spesso con le pratiche dell’agricoltura intensiva – costituisce uno dei più gravi problemi ambientali del nostro tempo (Si veda per la letteratura sul tema, P. Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma 2001, p. 65 e ss; J. R. MacNeil, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002, p. 51 e ss.).
Ancora oggi negli USA, Paese da sempre avanguardia dell’agricoltura industriale, dove negli anni ’30 le tempeste di sabbia del Dust Bowl misero in ginocchio l’economia agricola delle Grandi Pianure, l’erosione resta un problema grave. «Noi continuiamo a spendere molto denaro – ha di recente affermato il maggiore storico di quel fenomeno, D. Worster – per il soil conservation, ma molti dati ci dicono che abbiamo più erosione oggi di quella che avevamo negli anni ’30, a livello nazionale. L’erosione del suolo costa 40-50 miliardi di dollari all’anno per la perdita di produttività che bisogna combattere con sempre più fertilizzanti. Ma questo è un costo, non un guadagno» (2 Cfr. M. Armiero (a cura di), Quando il capitalismo andò in polvere, ovvero le Grandi Pianure con vista sul mondo. Intervista a Donald Worster, in «I Frutti di Demetra», 10, 2006.)
Resta infine un ultimo aspetto da considerare, per rendere completo il quadro del colossale meccanismo distruttivo che è ormai diventata l’agricoltura del nostro tempo: senza terra fertile, senza la presenza nel suolo di humus – quello strato complesso di vita organica non rappresentabile da alcuna formula chimica – le piante si ammalano. Vengono attaccate da funghi, parassiti, virus. Come potrebbe essere diversamente? Il suolo è, in natura, un organismo vivente. Se esso è sterile le piante tenute in vita con i sali chimici non possono che ammalarsi. Per praticare agricolture su terreni privi di fertilità è dunque assolutamente necessario curare le piante con fitofarmaci. La medicalizzazione della coltivazione – e quindi l’assoggettamento al circolo vizioso di una perenne guerra chimica – è l’unica condizione possibile per la sopravvivenza dell’agricoltura industriale. Così il settore economico dove si produce il nostro cibo, non solo vede accresciuta la propria dipendenza economica e culturale dall’industria chimica, dalla produzione di sempre nuovi farmaci, ma è diventato uno degli ambiti più rischiosi per la salute umana. Esso inquina l’aria, l’acqua, la terra, riduce la biodiversità. Ma oggi chi stila il bilancio tra ciò che l’agricoltura produce, i beni, spesso inquinati, che porta al mercato, e quanto distrugge?
Quest’ultimo nesso tra humus e salute delle piante non è una scoperta recente. Uno degli studiosi che per primo l’ha intuito e sperimentalmente provato – più o meno contemporaneamente agli agronomi biodinamici – è Albert Howard, agronomo britannico della prima metà del XX secolo. Occorre perciò dar merito a Slow Food Editore per la traduzione in italiano di una sua opera importante, An Agricultural Testament (1940), con il titolo I diritti della terra. Alle radici dell’agricoltura naturale, con una Premessa del principe Carlo e un’Introduzione di Vandana Shiva, ispiratrice dell’iniziativa (pp. 255, euro 12,40). Howard, lo confessa egli stesso, era stato inviato dal suo governo in India, nel 1905, per diffondervi l’agricoltura industriale. Dovette ricredersi subito: «Mi recai in India in sostanza per insegnare agli indiani come migliorare l’agricoltura, ma scoprii che non vi erano malattie nei campi, né mancanza di fertilità nel suolo, cosicché decisi di fare dei contadini e delle malattie i miei insegnanti». Si è trattato – come rivendica orgogliosamente Shiva nell’Introduzione – di «un trasferimento di tecnologia sostenibile dall’ India al Nord» (p. 18). Ma occorrerebbe anche aggiungere: un trasferimento di saperi secolari dal mondo contadino alla scienza agronomica. Ogni tanto occorrerebbe chiedersi che cosa sarebbe oggi l’agronomia se non avesse avuto, come base di partenza, la millenaria sapienza dei contadini.
Howard, ammaestrato dai contadini indiani, e dagli insegnamenti di anni di lavoro sul campo, sperimentò direttamente il grande potere equilibratore dell’humus nel terreno. «Nel 1935 – egli racconta – ho cominciato a curare, mediante l’humus il mio giardino, il cui terreno era completamente esausto quando lo acquistai nell’estate del 1934. I meli erano letteralmente soffocati da ruggine, pidocchi e bruchi che distruggono la frutta come la Carpocapsa pomonella. La qualità dei frutti era mediocre. Non si è fatto nulla per controllare questi insetti nocivi salvo accrescere gradualmente il contenuto di humus del terreno. In tre anni i parassiti sono scomparsi; gli alberi si sono trasformati; adesso fogliame e legno nuovo non lasciano più a desiderare; la qualità dei frutti è eccellente» (pp. 195-96). Non era, dunque, sulle patologie che bisognava intervenire, sintomo finale di più profondi e precedenti squilibri. Come dice in altra parte del Testament: «Nel corso di questi studi si è osservato che la vera base della salute e della resistenza alle malattie è il mantenimento della fertilità del suolo. Si è verificato che i diversi parassiti erano solo una questione secondaria: la loro attività era il risultato dello sfaldamento di un sistema biologico complesso – la terra e il suo rapporto con piante e animali – provocato da metodi agricoli scorretti, dall’impoverimento del suolo o da una combinazione di entrambi» (p. 63).
Il problema delle patologie, tanto delle piante che degli animali, è stato storicamente una delle ragioni alla base dei movimenti agronomici che, a partire dagli anni Venti, ma con maggiore intensità negli anni Trenta, hanno incominciato a rilevare i primi «effetti indesiderati» dell’agricoltura intensiva. Malattie, aborti e parti prematuri nelle stalle venivano sempre più apertamente collegati alle pratiche industriali di allevamento, ai pascoli fertilizzati abbondantemente con azoto e in generale agli squilibri ambientali(3 Cfr. E. Pfeiffer, La fertilità della terra (1938), Editrice Antroposofica, Milano 1997, pp. 112-113; P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi alimentare europea. Donzelli, Roma 2002, p. 96 e ss).
E così per le infestazioni di parassiti, che si manifestavano nelle campagne sempre più virulenti. L’agricoltura biodinamica, che ha preso avvio dalle Lezioni sull’agricoltura tenute da Rudolf Steiner in Germania, nel 1924, ha decisamente mostrato – soprattutto con le sperimentazioni agronomiche dei decenni successivi – come i problemi delle patologie fossero collegate agli squilibri del terreno e dell’habitat naturale.
Non a torto è stato ricordato, negli anni ’60 del XX secolo: «Nella letteratura biodinamica, da più di 30 anni, non ci si è stancati di ripetere che le grandi invasioni di parassiti hanno, quasi senza eccezione, come cause reali delle rotture più o meno grandi dell’equilibrio ecologico»(E. Pfeiffer, E. Riese, Manuale di orticoltura biodinamica, Libreria Editrice Fiorentina, Firenze, s.a., p. 92.).
Non sappiamo se Howard abbia avuto allora notizia delle pratiche biodinamiche, diffusesi oltre che in Germania, anche in Svizzera, Austria e più tardi in Olanda. È probabile che sia arrivato in piena indipendenza a elaborare le sue idee e i suoi metodi. Egli incominciò, ad ogni modo, a pubblicare agli inizi degli anni ’30 sotto gli auspici della britannica Soil Association, dando vita al cosiddetto «movimento organico», che ha avuto larga influenza negli ambienti agricoli anglo-americani. In Gran Bretagna egli influenzò e collaborò con Lady E. Balfour, che nel 1943 pubblicò The living Soil, un testo importante per la diffusione di quel movimento. Negli USA, soprattutto per iniziativa di I. J. Rodale, a partire dagli anni ’40 è sorto un movimento analogo attorno alla rivista Organic Gardening and Organic Farming ( L. Milenkovic, Origine e sviluppo dell’agricoltura biologica in Europa, Clesav Edizioni, Milano 1990, p. 43 e ss). E non si creda che tali correnti di pensiero siano rimaste senza alcun seguito, raffinate meditazioni di élites isolate. Esse non solo hanno dato vita ad agricolture alternative in vari angoli del mondo, ma hanno investito istituzioni private e governative e talora ispirato gli indirizzi del potere politico. Si poteva ad esempio leggere nella relazione sulla Restaurazione della qualità del nostro ambiente, del 1965: «Tutti i problemi dei parassiti sorgono a causa di condizioni ambientali favorevoli al loro sviluppo. Trasformare l’ambiente in modo che esso sia meno favorevole al parassita, vuol dire tenere questo sotto controllo o per lo meno limitarne la moltiplicazione» (Cfr. H. H. Koepf, B. D. Pettersson, W. Schaumann, Agricoltura biodinamica (1976), Editrice Antroposofica, Milano 1984, p. 94).
Seguivano poi le raccomandazioni per le buone pratiche agricole. Ebbene, chi scriveva queste parole era nientemeno che il presidente degli USA. Certo, all’epoca Lyndon Johnson si faceva probabilmente ventriloquo di qualche bravo agronomo, ma questo non sminuisce il significato politico della sua dichiarazione.
E ciò si rammenta qui non solo per sottolineare il relativo successo raggiunto dai saperi dell’agronomia organica anche negli ambienti ufficiali, ma anche per mostrare come da un certo momento in poi, nella seconda metà del XX secolo, essi vengono cancellati dalla furia dell’«economia dello sviluppo», marginalizzati da un’agricoltura sempre più intensiva, irrispettosa di ogni regola agronomica (cura del terreno, rotazione, distanza delle piante, varietà coltivate, ecc.). Solo nell’ultimo quindicennio, quest’agricoltura resa possibile da una totale subordinazione all’irrorazione chimica, ha incominciato in parte a perdere terreno, smalto e consenso.
L’originalità dell’esperienza di Howard – rispetto agli altri movimenti precedenti o contemporanei – risiede nel fatto che egli ha potuto osservare e lungamente studiare una tradizione agronomica, una tradizione millenaria, che aveva fatto del mantenimento degli equilibri ambientali, anzi dell’imitazione stessa della natura, la sua stella polare. «Questi sono i fatti essenziali della ruota della vita – scrive nel suo Testament –: crescita da un lato e decomposizione dall’altro. Nell’agricoltura della natura si trova e si mantiene un equilibrio fra questi due processi complementari.
Gli unici sistemi agricoli dovuti all’uomo – che si trovano in Oriente – ad aver superato il vaglio del tempo hanno copiato fedelmente questa regola della natura. Essa deve essere sempre in equilibrio. Se acceleriamo la crescita dobbiamo anche accelerare la decomposizione. Se invece si sperperano le riserve del suolo, la produzione di messi cessa di essere buona agricoltura e diventa una cosa molto diversa» (p. 48). In natura, infatti, la foresta non fa che autoconcimarsi attraverso il processo di decomoposizione naturale di foglie, piante, animali, microrganismi, consentendo la crescita e la vita di innumerevoli e talora colossali alberi senza alcun intervento umano. Gli indiani, ma anche i cinesi – delle cui fattorie Howard parla con ammirazione –, hanno alimentato e conservato la fertilità delle loro terre grazie all’uso costante del letame dei loro allevamenti e di tutte le sostanze organiche disponibili.
Non si creda, tuttavia, che il mantenimento della fertilità della terra coincidesse, nella valutazione dell’agronomo inglese, con il mantenimento di un’agricoltura di mera sussistenza.
Questo può essere il pregiudizio dell’agricoltura industriale attuale, che produce beni in abbondanza, ma di scarsa qualità biologica e organolettica. In realtà egli era ben lontano dal concepire un’agricoltura per poveri. Non dimentichiamo che la sua proiezione mentale e culturale era sempre verso le campagne del suo Paese, la Gran Bretagna. «È ora possibile – scriveva Howard dopo aver svolto la sua analisi – definire con chiarezza il significato della fertilità della terra: è la condizione di un suolo ricco di humus in cui i processi di crescita sono rapidi, armoniosi ed efficienti. Il termine implica dunque abbondanza, alta qualità e resistenza alle malattie. Un terreno che nutre alla perfezione un raccolto di grano – il cibo dell’uomo – è definito fertile. Un pascolo in cui si producono carne e latte di prim’ordine rientra nella stessa categoria. Un’area destinata all’orticoltura su cui crescono verdure di altissima qualità ha raggiunto l’apice in fatto di fertilità» (p. 48).

Animato da questa consapevolezza l’agronomo inglese ha lungamente lavorato a creare un compost – fertilizzante risultato dalla decomposizione di vari materiali di scarto – che si potesse riportare sui campi per mantenere chiuso il cerchio di produzione e rigenerazione della terra. Egli svolse a tale fine le sue attività presso l’Institut of Plant Industry di Indore, nell’India centrale, tra il 1924 e il 1931, e alla fine diede il nome al metodo di compostaggio realizzato, chiamandolo Processo Indore in segno di gratitudine per il supporto che in quel luogo aveva ricevuto con generosità per 7 anni. Con tale metodo Oward realizzava – in questo similmente al movimento biodinamico – un successo importante. Egli era riuscito a creare un processo di produzione di humus che non solo era destinato a rigenerare la terra, ma proveniva dagli scarti stessi della produzione: era cioè il frutto di un riciclaggio della materia che non creava rifiuti, e non consumava energia. Il circolo di «decomposizione e crescita» riceveva così un supporto costante all’interno stesso dell’azienda agricola. Diventava il risultato di un’operazione tecnica in mano all’agricoltore. Un metodo e una pratica lasciati in eredità all’agricoltura biologica dei nostri anni.

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