La fertilità della terra e l’agricoltura industriale. Il
Testament di Albert Howard
di Piero Bevilacqua
C’è un dato dell’agricoltura industriale del nostro tempo, uno
su tutti, che mostra il gigantesco e insostenibile paradosso su cui essa si
regge. Si tratta, forse, del dato simbolicamente più clamoroso dello scacco
subito dall’economia dello sviluppo negli ultimi decenni, che mostra
nitidamente come la produzione di merci si realizza oggi grazie alla
dissipazione di ricchezza.
L’attività dell’agricoltura attuale, il suo procedere, il
suo avanzare, tendono infatti a distruggere la base stessa di ciò che è stato, per
millenni, il fondamento di ogni produzione agricola: la fertilità della terra.
Dopo quasi un secolo di «industrializzazione dell’agricoltura», questo miracolo
a rovescio appare ormai non più occultabile, neppure dalle mirabolanti rese
produttive degli anni recenti. L’agricoltura dei paesi ricchi, infatti, non si fonda
più sulla fertilità del suolo, vale a dire sulla sua capacità rigeneratrice, in
grado di restituire ciclicamente e ininterrottamente gli elementi nutritivi
alle piante coltivate. Essa, semplicemente, è resa possibile da un utilizzo
crescente della concimazione chimica, che non fertilizza il terreno, ma nutre
artificialmente la pianta. Non è più la terra a generare il grano, ma i concimi
scavati in qualche lontana miniera di fosfati o l’azoto fissato industrialmente
attraverso il petrolio. Il consumo crescente di energia fossile – sino ad oggi
a buon mercato – tiene in piedi artificialmente, ma con un bilancio energetico
passivo, un settore che per millenni ha fornito energia alle comunità umane.
Per colmo, tale operazione, tale inversione della pratica consuetudinaria su
cui si è retta nei secoli l’agricoltura, ha diverse conseguenze. Trascuriamo,
per brevità, gli effetti inquinanti che i fertilizzanti minerali, soprattutto
fosforo e azoto, producono sulle acque di falda. Ma l’acqua non è una risorsa, non
è una ricchezza sempre più rara e preziosa? Rammentiamo soltanto che i concimi
chimici mineralizzano il terreno, rendendolo sempre più duro, scarsamente
capace di trattenere l’acqua, sempre più privo di sostanza organica e quindi
biologicamente morto. Solo i residui delle coltivazioni assicurano, in alcuni casi,
qualche superstite elemento organico nei campi.
Mentre, d’altro canto, il diserbo chimico, sempre più
diffuso, tende ad annientare ogni forma di vita che non sia la pianta
coltivata.
Tale condizione, questo suolo morto, inerte supporto fisico alla
produzione di beni industriali alimentari, rende lo strato superficiale del
terreno facilmente soggetto ai processi di erosione degli agenti atmosferici e
quindi a rischio di vera e propria perdita. In tutto il mondo l’erosione, la
distruzione di suolo fertile – legata a fenomeni naturali combinati spesso con le
pratiche dell’agricoltura intensiva – costituisce uno dei più gravi problemi
ambientali del nostro tempo (Si veda per la letteratura sul tema, P.
Bevilacqua, Demetra e Clio. Uomini e ambiente nella storia, Donzelli, Roma
2001, p. 65 e ss; J. R. MacNeil, Qualcosa di nuovo sotto il sole. Storia
dell’ambiente nel XX secolo, Einaudi, Torino 2002, p. 51 e ss.).
Ancora oggi negli USA, Paese da sempre avanguardia
dell’agricoltura industriale, dove negli anni ’30 le tempeste di sabbia del
Dust Bowl misero in ginocchio l’economia agricola delle Grandi Pianure, l’erosione
resta un problema grave. «Noi continuiamo a spendere molto denaro – ha di
recente affermato il maggiore storico di quel fenomeno, D. Worster – per il
soil conservation, ma molti dati ci dicono che abbiamo più erosione oggi di
quella che avevamo negli anni ’30, a livello nazionale. L’erosione del suolo
costa 40-50 miliardi di dollari all’anno per la perdita di produttività che
bisogna combattere con sempre più fertilizzanti. Ma questo è un costo, non un
guadagno» (2 Cfr. M. Armiero (a cura di), Quando il capitalismo andò in
polvere, ovvero le Grandi Pianure con vista sul mondo. Intervista a Donald
Worster, in «I Frutti di Demetra», 10, 2006.)
Resta infine un ultimo aspetto da considerare, per rendere completo
il quadro del colossale meccanismo distruttivo che è ormai diventata
l’agricoltura del nostro tempo: senza terra fertile, senza la presenza nel
suolo di humus – quello strato complesso di vita organica non rappresentabile
da alcuna formula chimica – le piante si ammalano. Vengono attaccate da funghi,
parassiti, virus. Come potrebbe essere diversamente? Il suolo è, in natura, un
organismo vivente. Se esso è sterile le piante tenute in vita con i sali
chimici non possono che ammalarsi. Per praticare agricolture su terreni privi
di fertilità è dunque assolutamente necessario curare le piante con fitofarmaci.
La medicalizzazione della coltivazione – e quindi l’assoggettamento al circolo
vizioso di una perenne guerra chimica – è l’unica condizione possibile per la
sopravvivenza dell’agricoltura industriale. Così il settore economico dove si
produce il nostro cibo, non solo vede accresciuta la propria dipendenza
economica e culturale dall’industria chimica, dalla produzione di sempre nuovi
farmaci, ma è diventato uno degli ambiti più rischiosi per la salute umana.
Esso inquina l’aria, l’acqua, la terra, riduce la biodiversità. Ma oggi chi
stila il bilancio tra ciò che l’agricoltura produce, i beni, spesso inquinati,
che porta al mercato, e quanto distrugge?
Quest’ultimo nesso tra humus e salute delle piante non è una
scoperta recente. Uno degli studiosi che per primo l’ha intuito e
sperimentalmente provato – più o meno contemporaneamente agli agronomi biodinamici
– è Albert Howard, agronomo britannico della prima metà del XX secolo. Occorre
perciò dar merito a Slow Food Editore per la traduzione in italiano di una sua
opera importante, An Agricultural Testament (1940), con il titolo I diritti
della terra. Alle radici dell’agricoltura naturale, con una Premessa del principe
Carlo e un’Introduzione di Vandana Shiva, ispiratrice dell’iniziativa (pp. 255,
euro 12,40). Howard, lo confessa egli stesso, era stato inviato dal suo governo
in India, nel 1905, per diffondervi l’agricoltura industriale. Dovette
ricredersi subito: «Mi recai in India in sostanza per insegnare agli indiani
come migliorare l’agricoltura, ma scoprii che non vi erano malattie nei campi,
né mancanza di fertilità nel suolo, cosicché decisi di fare dei contadini e delle
malattie i miei insegnanti». Si è trattato
– come rivendica orgogliosamente Shiva nell’Introduzione – di «un trasferimento
di tecnologia sostenibile dall’ India al Nord» (p. 18). Ma occorrerebbe anche
aggiungere: un trasferimento di saperi secolari dal mondo contadino alla
scienza agronomica. Ogni tanto occorrerebbe chiedersi che cosa sarebbe oggi
l’agronomia se non avesse avuto, come base di partenza, la millenaria sapienza dei
contadini.
Howard, ammaestrato dai contadini indiani, e dagli
insegnamenti di anni di lavoro sul campo, sperimentò direttamente il grande
potere equilibratore dell’humus nel terreno. «Nel 1935 – egli racconta – ho
cominciato a curare, mediante l’humus il mio giardino, il cui terreno era
completamente esausto quando lo acquistai nell’estate del 1934. I meli erano
letteralmente soffocati da ruggine, pidocchi e bruchi che distruggono la frutta
come la Carpocapsa pomonella. La qualità dei frutti era mediocre. Non si è
fatto nulla per controllare questi insetti nocivi salvo accrescere gradualmente
il contenuto di humus del terreno. In tre anni i parassiti sono scomparsi; gli
alberi si sono trasformati; adesso fogliame e legno nuovo non lasciano più a desiderare;
la qualità dei frutti è eccellente» (pp. 195-96). Non era, dunque, sulle
patologie che bisognava intervenire, sintomo finale di più profondi e precedenti
squilibri. Come dice in altra parte del Testament: «Nel corso di questi studi
si è osservato che la vera base della salute e della resistenza alle malattie è
il mantenimento della fertilità del suolo. Si è verificato che i diversi parassiti
erano solo una questione secondaria: la loro attività era il risultato dello
sfaldamento di un sistema biologico complesso – la terra e il suo rapporto con
piante e animali – provocato da metodi agricoli scorretti, dall’impoverimento
del suolo o da una combinazione di entrambi» (p. 63).
Il problema delle patologie, tanto delle piante che degli
animali, è stato storicamente una delle ragioni alla base dei movimenti agronomici
che, a partire dagli anni Venti, ma con maggiore intensità negli anni Trenta,
hanno incominciato a rilevare i primi «effetti indesiderati» dell’agricoltura
intensiva. Malattie, aborti e parti prematuri nelle stalle venivano sempre più
apertamente collegati alle pratiche industriali di allevamento, ai pascoli fertilizzati
abbondantemente con azoto e in generale agli squilibri ambientali(3 Cfr. E.
Pfeiffer, La fertilità della terra (1938), Editrice Antroposofica, Milano 1997,
pp. 112-113; P. Bevilacqua, La mucca è savia. Ragioni storiche della crisi
alimentare europea. Donzelli, Roma 2002, p. 96 e ss).
E così per le infestazioni di parassiti, che si
manifestavano nelle campagne sempre più virulenti. L’agricoltura biodinamica,
che ha preso avvio dalle Lezioni sull’agricoltura tenute da Rudolf Steiner in
Germania, nel 1924, ha decisamente mostrato – soprattutto con le
sperimentazioni agronomiche dei decenni successivi – come i problemi delle
patologie fossero collegate agli squilibri del terreno e dell’habitat naturale.
Non a torto è stato ricordato, negli anni ’60 del XX secolo:
«Nella letteratura biodinamica, da più di 30 anni, non ci si è stancati di
ripetere che le grandi invasioni di parassiti hanno, quasi senza eccezione,
come cause reali delle rotture più o meno grandi dell’equilibrio ecologico»(E.
Pfeiffer, E. Riese, Manuale di orticoltura biodinamica, Libreria Editrice
Fiorentina, Firenze, s.a., p. 92.).
Non sappiamo se Howard abbia avuto allora notizia delle pratiche
biodinamiche, diffusesi oltre che in Germania, anche in Svizzera, Austria e più
tardi in Olanda. È probabile che sia arrivato in piena indipendenza a elaborare
le sue idee e i suoi metodi. Egli incominciò, ad ogni modo, a pubblicare agli
inizi degli anni ’30 sotto gli auspici della britannica Soil Association, dando
vita al cosiddetto «movimento organico», che ha avuto larga influenza negli
ambienti agricoli anglo-americani. In Gran Bretagna egli influenzò e collaborò
con Lady E. Balfour, che nel 1943 pubblicò The living Soil, un testo importante
per la diffusione di quel movimento. Negli USA, soprattutto per iniziativa di
I. J. Rodale, a partire dagli anni ’40 è sorto un movimento analogo attorno alla
rivista Organic Gardening and Organic Farming ( L. Milenkovic, Origine e
sviluppo dell’agricoltura biologica in Europa, Clesav Edizioni, Milano 1990, p.
43 e ss). E non si creda che tali correnti di pensiero siano rimaste senza
alcun seguito, raffinate meditazioni di élites isolate. Esse non solo hanno
dato vita ad agricolture alternative in vari angoli del mondo, ma hanno
investito istituzioni private e governative e talora ispirato gli indirizzi del
potere politico. Si poteva ad esempio leggere nella relazione sulla
Restaurazione della qualità del nostro ambiente, del 1965: «Tutti i problemi
dei parassiti sorgono a causa di condizioni ambientali favorevoli al loro
sviluppo. Trasformare l’ambiente in modo che esso sia meno favorevole al parassita,
vuol dire tenere questo sotto controllo o per lo meno limitarne la
moltiplicazione» (Cfr. H. H. Koepf, B. D. Pettersson, W. Schaumann, Agricoltura
biodinamica (1976), Editrice Antroposofica, Milano 1984, p. 94).
Seguivano poi le raccomandazioni per le buone pratiche agricole.
Ebbene, chi scriveva queste parole era nientemeno che il presidente degli USA.
Certo, all’epoca Lyndon Johnson si faceva probabilmente ventriloquo di qualche bravo
agronomo, ma questo non sminuisce il significato politico della sua
dichiarazione.
E ciò si rammenta qui non solo per sottolineare il relativo successo
raggiunto dai saperi dell’agronomia organica anche negli ambienti ufficiali, ma
anche per mostrare come da un certo momento in poi, nella seconda metà del XX
secolo, essi vengono cancellati dalla furia dell’«economia dello sviluppo», marginalizzati
da un’agricoltura sempre più intensiva, irrispettosa di ogni regola agronomica
(cura del terreno, rotazione, distanza delle piante, varietà coltivate, ecc.).
Solo nell’ultimo quindicennio, quest’agricoltura resa possibile da una totale subordinazione
all’irrorazione chimica, ha incominciato in parte a perdere terreno, smalto e
consenso.
L’originalità dell’esperienza di Howard – rispetto agli
altri movimenti precedenti o contemporanei – risiede nel fatto che egli ha
potuto osservare e lungamente studiare una tradizione agronomica, una
tradizione millenaria, che aveva fatto del mantenimento degli equilibri
ambientali, anzi dell’imitazione stessa della natura, la sua stella polare.
«Questi sono i fatti essenziali della ruota della vita – scrive nel suo
Testament –: crescita da un lato e decomposizione dall’altro. Nell’agricoltura
della natura si trova e si mantiene un equilibrio fra questi due processi
complementari.
Gli unici sistemi agricoli dovuti all’uomo – che si trovano
in Oriente – ad aver superato il vaglio del tempo hanno copiato fedelmente
questa regola della natura. Essa deve essere sempre in equilibrio. Se acceleriamo
la crescita dobbiamo anche accelerare la decomposizione. Se invece si sperperano
le riserve del suolo, la produzione di messi cessa di essere buona agricoltura
e diventa una cosa molto diversa» (p. 48). In natura, infatti, la foresta non
fa che autoconcimarsi attraverso il processo di decomoposizione naturale di
foglie, piante, animali, microrganismi, consentendo la crescita e la vita di
innumerevoli e talora colossali alberi senza alcun intervento umano. Gli indiani,
ma anche i cinesi – delle cui fattorie Howard parla con ammirazione –, hanno
alimentato e conservato la fertilità delle loro terre grazie all’uso costante del
letame dei loro allevamenti e di tutte le sostanze organiche disponibili.
Non si creda, tuttavia, che il mantenimento della fertilità della
terra coincidesse, nella valutazione dell’agronomo inglese, con il mantenimento
di un’agricoltura di mera sussistenza.
Questo può essere il pregiudizio dell’agricoltura
industriale attuale, che produce beni in abbondanza, ma di scarsa qualità biologica
e organolettica. In realtà egli era ben lontano dal concepire un’agricoltura
per poveri. Non dimentichiamo che la sua proiezione mentale e culturale era
sempre verso le campagne del suo Paese, la Gran Bretagna. «È ora possibile –
scriveva Howard dopo aver svolto la sua analisi – definire con chiarezza il
significato della fertilità della terra: è la condizione di un suolo ricco di
humus in cui i processi di crescita sono rapidi, armoniosi ed efficienti. Il
termine implica dunque abbondanza, alta qualità e resistenza alle malattie. Un
terreno che nutre alla perfezione un raccolto di grano – il cibo dell’uomo – è
definito fertile. Un pascolo in cui si producono carne e latte di prim’ordine rientra
nella stessa categoria. Un’area destinata all’orticoltura su cui crescono
verdure di altissima qualità ha raggiunto l’apice in fatto di fertilità» (p.
48).
Animato da questa consapevolezza l’agronomo inglese ha lungamente
lavorato a creare un compost – fertilizzante risultato dalla decomposizione di
vari materiali di scarto – che si potesse riportare sui campi per mantenere
chiuso il cerchio di produzione e rigenerazione della terra. Egli svolse a tale
fine le sue attività presso l’Institut of Plant Industry di Indore, nell’India centrale,
tra il 1924 e il 1931, e alla fine diede il nome al metodo di compostaggio
realizzato, chiamandolo Processo Indore in segno di gratitudine per il supporto
che in quel luogo aveva ricevuto con generosità per 7 anni. Con tale metodo Oward
realizzava – in questo similmente al movimento biodinamico – un successo
importante. Egli era riuscito a creare un processo di produzione di humus che
non solo era destinato a rigenerare la terra, ma proveniva dagli scarti stessi
della produzione: era cioè il frutto di un riciclaggio della materia che non creava
rifiuti, e non consumava energia. Il circolo di «decomposizione e crescita»
riceveva così un supporto costante all’interno stesso dell’azienda agricola.
Diventava il risultato di un’operazione tecnica in mano all’agricoltore. Un
metodo e una pratica lasciati in eredità all’agricoltura biologica dei nostri anni.
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