Gli orti producono
cibo ma anche benessere
di Costantina Righetto
Il tema di cui mi sono occupata durante il dottorato mi ha
permesso di indagare a fondo su quali fossero le possibilità reali di utilizzo
dei benefici del rapporto uomo-pianta per migliorare la vita di tutti noi e in particolare
su come utilizzare questa risorsa per migliorare la vita di persone in
difficoltà.
L’idea di affrontare
questo tema è stata del mio tutor, Prof. Giorgio Prosdocimi Gianquinto:
insegnando a costruire orti in zone del mondo povere di risorse, si è reso
conto che, dal Brasile a Berlino, dal Perù a Bologna, gli orti producevano cibo
ma anche benessere, e che tra le persone impegnate nei progetti nascevano
amicizie, solidarietà e un nuovo senso della vita: l’orto diventava un luogo di
aggregazione, socializzazione, condivisione, arricchimento culturale,
accettazione del proprio stato e permetteva di ampliare i propri orizzonti di
vita. Le persone stavano meglio, ritrovavano entusiasmo, si nutrivano meglio, i
rapporti sociali miglioravano e le mamme facevano un’attività che poteva
coinvolgere anche i bambini.
In questi tre anni ho cercato di avvicinarmi a tutto quello
che avesse a che fare con l’ortoterapia in Italia e mi sono imbattuta in tre
diversi ambiti: agricoltura, sanità e sociale. Ho visitato aziende agricole in
cui sono attive varie forme di agricoltura sociale; ho seguito la formazione di
agricoltori che vorrebbero aprirsi a queste attività; ho visitato comunità
terapeutiche e carceri in cui si utilizza l’orticoltura come strumento
riabilitativo; ho partecipato alla creazione di un orto in un centro di
accoglienza di minori non accompagnati a Catania; ho collaborato alla
formazione di operatori della comunità di accoglienza L’Arca a Bologna; ho
visitato la Scuola Steineriana di Conegliano dove l’orto è uno strumento di
apprendimento. Alla luce di queste esperienze mi sento di affermare che
esistono diverse ortoterapie in cui, cambiando gli utenti, cambiano i luoghi e
le modalità di intervento ma la pianta
resta l’elemento centrale del processo che permette alla persona di percepire
le strettissime relazioni che ci legano agli altri viventi e al mondo che ci
circonda.
E il giardino terapeutico diventa un’opportunità per
riscoprire e valorizzare se stessi attraverso l’attività fisica, il
rilassamento della mente e l’esperienza di nuove emozioni: l’impegno per prendersi cura delle piante diventa impegno per
prendersi cura di noi. Durante il primo anno di dottorato ho lavorato in un
orto terapeutico per persone svantaggiate e malati psichici ad Ariano Polesine
(RO), dove ho partecipato alle attività quotidiane e alla progettazione mensile
delle attività con l’equipe sanitaria. Il secondo e il terzo anno ho portato
avanti la mia ricerca in un ospedale di neuroriabilitazione a Venezia Alberoni
dove, mentre allestivo le prime attività di orticoltura e giardinaggio con un
gruppo di pazienti dell’ospedale e componenti dello staff, nella primavera del
2013 ho assistito ai passaggi che hanno portato alla realizzazione di un
giardino terapeutico all’interno dell’ospedale. Sono entrata in stretto
contatto con le diverse figure professionali e ho cercato di capire come la
loro attività potesse intersecarsi con il giardino. Abbiamo tutti insieme
cercato strategie per il coinvolgimento di pazienti, familiari e staff,
convinti che il giardino potesse dare
beneficio a tutti indistintamente attraverso il paesaggio che ci circonda
(Settis, 2010), il cibo di qualità (Petrini, 2005) e la possibilità di
interagire con le piante.
Io per prima dovevo passare da una semplice sensazione di
stare bene in un giardino, cosa non difficile da immaginare, alla
consapevolezza profonda di cosa ci fosse dietro a questa sensazione e a rendere
possibile il suo utilizzo per rendere più facile, piacevole, soddisfacente ed
impegnata la giornata di persone che hanno dei bisogni speciali(riferiti a
situazioni di difficoltà tali da far prefigurare un intervento mirato,
personalizzato). E da qui sono partita.
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