giovedì 21 gennaio 2016

Il paradigma agroecologico come sintesi tra agronomia ed ecologia per la transizione dell’agricoltura verso la sostenibilità

Il paradigma agroecologico come sintesi tra agronomia ed ecologia per la transizione dell’agricoltura verso la sostenibilità

di Umberto Anastasi*, Carmelo Santonoceto**, Paolo Guarnaccia*
*Dipartimento di Agricoltura, Alimentazione e Ambiente (Di3A). Università degli Studi di Catania. umberto.anastasi@unict.it
**Dipartimento di Agraria. Università Mediterranea di Reggio Calabria
Sommario
Il mondo agricolo deve affrontare la sfida della transizione verso la sostenibilità. Il pensiero sistemico, attraverso la comprensione della complessità dell’agroecosistema può guidare questo cambiamento. Interdisciplinarità e transdisciplinarità rappresentano strumenti decisivi per affrontare questa sfida. Il paradigma agroecologico può fungere da “ponte” tra agronomia ed ecologia per promuovere la sostenibilità in agricoltura. Gli Autori esaminano le strategie e tattiche agronomiche in chiave agroecologica.
Parole chiave
Agroecologia, complementarità ecologica, diversificazione colturale, resilienza, transdisciplinarità, paradigma sistemico.
Summary
The world of agriculture is facing the challenge of the transition to sustainability. The systems thinking, by understanding the complexity of the agroecosystem can guide this change. Interdisciplinarity and transdisciplinarity are crucial tools to meet this challenge. The agroecological paradigm can serve as a “bridge” between agronomy and ecology to promote sustainability in agriculture. The Authors examine the agronomic strategies and tactics in agroecological key.
Keywords
Agroecology, ecological sinergy, crop diversity, transdisciplinarity, resilience, systems paradigm.

“Essendo tutte le cose causate e causanti, aiutate e adiuvanti, mediate e immediate, e tutte essendo legate da un vincolo naturale e insensibile che unisce le più lontane e le più disparate, ritengo sia impossibile conoscere le parti senza conoscere il tutto, così come è impossibile conoscere il tutto senza conoscere particolarmente le parti.” (B. Pascal).
Introduzione
“L'umanità ha la possibilità di rendere sostenibile lo sviluppo, cioè di far sì che esso soddisfi i bisogni dell'attuale generazione senza compromettere la capacità di quelle future di soddisfare i loro.” Con l’enunciazione di questo principio nel documento elaborato dalla Commissione mondiale per l'ambiente e lo sviluppo “Bruntland” alla fine degli anni ’90 del secolo scorso (Conferenza ONU di Rio de Janeiro, 1987) la nozione di ‘sostenibilità’, mutuata dall’ecologia, acquisisce una prospettiva politica configurandosi come possibile risposta alla crescente sensibilità dell’opinione pubblica in tema di ambiente, inquinamento e salute. La novità più rilevante del concetto di sviluppo sostenibile o ecosviluppo risiede nel suo significato etico espresso in termini di solidarietà generazionale, sicché l’attuale comunità umana ha il dovere morale di preservare se non di incrementare le risorse originarie dalle quali dipende la sopravvivenza e il benessere di quella futura (Randers, 2013). Tale concetto sottende il riconoscimento dell'esistenza di un impatto ambientale negativo delle attività umane, per il quale anche l’agricoltura è, spesso, sebbene non sempre correttamente, chiamata in causa. Per l’attività agricola ne è derivata l’esigenza di re-integrarsi in un sistema complesso che, oltre alla sfera rurale, coinvolga componenti industriali, urbani e sociali ad essa più direttamente connessi.
In accordo con gli indirizzi dell'Organizzazione Mondiale per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE) l’agricoltura può essere definita sostenibile o ecocompatibile allorché, nel lungo termine, sia in grado di fornire prodotti (alimentari e non) e servizi (ricreazionali, informativi, educativi, ecc.) di qualità, preservando l’ambiente, il paesaggio, la biodiversità, la salute umana e animale, e promuovendo, altresì, i valori sociali e culturali delle comunità rurali, in un quadro di competitività che ne assicuri la convenienza economica. L’agricoltura sostenibile, pertanto, si caratterizza per la ‘multifunzionalità’, in altre parole per la finalità non solo produttiva, ma anche protettiva e promozionale, e per la ‘scala territoriale’, che richiede la progettazione di modelli ambiente per ambiente, vale a dire progettati a livello locale. Non vi è dubbio che un’agricoltura così concepita acquisisce una valenza sociale in termini di risposta alla crescente domanda di ‘qualità di vita’, alla quale però va ascritto un ‘costo’ aggiuntivo derivante dai vincoli imposti agli operatori nell'ambito del processo decisionale aziendale, la cui entità, allorché economicamente quantificata, dovrebbe essere in qualche modo remunerata dalla collettività. Di quest’ultima esigenza si è fatta interprete anche l’U.E. che nell’ultimo quarto del secolo scorso, ha intrapreso un percorso politico-normativo in direzione dello sviluppo agricolo sostenibile. Innanzitutto sono stati individuate le emergenze di carattere ambientale alle quali, in misura più o meno rilevante, contribuisce il settore agricolo, che riguardano: l’emissione di gas climalteranti, principalmente N2O e CH4, conseguenti alla gestione intensiva dell’allevamento animale e della fertilizzazione; l’inquinamento da agrochimici (concimi minerali e fitofarmaci); i processi di degrado dei suoli agrari (erosione, diminuzione di materia organica, contaminazione da composti tossici, salinizzazione, desertificazione, ecc.); l’inappropriato uso delle risorse idriche (eccessiva estrazione di acqua dalle falde sotterranee, impiego di acque salmastre, ecc.); l’erosione genetica, causata dall’eccessiva omogeneità biologica dei sistemi colturali intensivi (Pretty, 2008).
L’integrazione dei principi della sostenibilità nella politica agricola dell’U.E. (PAC) è stata perseguita gradualmente a partire dagli anni ’80 del secolo scorso, attraverso l’approvazione di regolamenti concernenti il miglioramento delle strutture agrarie, la qualità della produzione e la tutela del territorio con misure agro-ambientali, con norme che regolano il metodo di produzione ‘biologico’. Allo stesso tempo, le istituzioni europee hanno ribadito a più riprese, nel corso di vari consigli e vertici, la centralità dello sviluppo sostenibile al fine di proteggere l'ambiente e conservare il paesaggio, promuovendone l’implementazione anche attraverso il supporto di un sistema di incentivi finanziari. Nella recente risoluzione adottata dall’Assemblea generale dell’O.N.U. del 25 settembre 2015 “Transforming our world: the 2030 Agenda for Sustainable Development (A/RES/70/1, 21 October 2015), questi principi sono stati riaffermati nell’obiettivo 2. “End hunger, achieve food security and improved nutrition and promote sustainable agriculture” che riporta un esplicito riferimento alla promozione dell’agricoltura sostenibile come strumento per combattere la fame, raggiungere la sicurezza alimentare e il miglioramento delle condizioni di nutrizione. Impegni stringenti in tal senso sono stati sottoscritti anche nel Manifesto ‘Terra Viva’ di Navdanya International e nella ‘Carta di Milano’ presentati nel corso di Expo Milano 2015 ‘Nutrire il pianeta, Energia per la vita’. E richiamati ancora da Papa Francesco nell’Enciclica Laudato si', nella quale egli indica, tra l’altro, nel capitolo V come “indispensabile un consenso mondiale che porti, ad esempio, a programmare un’agricoltura sostenibile e diversificata”, e auspica nell’ultimo capitolo una “conversione ecologica”.
Secondo Altieri et al. (2015), “il termine agroecologia ha assunto molti significati. In senso lato, spesso riunisce idee su un’impostazione dell’agricoltura più sensibile all’ambiente e al tessuto sociale, un’impostazione che si concentra non solo sulla produzione, ma anche sulla sostenibilità ecologica del sistema agricolo. Questa potrebbe essere considerata l’accezione standard del termine agroecologia, ed è chiaro che essa implica un certo numero di categorie sociali e produttive che va ben oltre il campo coltivato. In senso stretto l’agroecologia si riferisce però allo studio di fenomeni puramente ecologici all’interno del campo coltivato, come le relazioni tra predatore e preda o la competizione tra coltura e malerba. […] L’agroecologia si concentra sulle relazioni ecologiche che si stabiliscono nel campo coltivato, e il suo scopo è quello di chiarirne forma, dinamica e funzione di queste relazioni […], mediante la comprensione di tali processi e relazioni è possibile manipolare gli agroecosistemi per ottenere un processo produttivo migliore, con meno impatti sociali e ambientali negativi, maggiore sostenibilità ed input esterni limitati. […] Lo schema analitico di base deve molto alla teoria dei sistemi e ai tentativi teorici e pratici di integrare i numerosi fattori che influenzano l’agricoltura.”. Ci sembra dunque di potere affermare che, mutatis mutandis, quest’approccio sia insito nel scienza agronomica, se è vero che “L’agronomia è la scienza che studia il sistema colturale nei suoi vari aspetti e interconnessioni: influenze reciproche fra ambiente e agricoltura, interventi dell’uomo sui fattori che determinano la produzione vegetale agraria, risposte quantitative e qualitative delle colture a detti interventi, effetti sulle modalità del processo produttivo e sulla fertilità del suolo” (Giardini, 2012). Per Cavazza (cit. da Giardini, 2012), inoltre, “L’agronomia è scienza. Essa non identifica né studia come tali i fattori della produzione vegetale agraria (compito di altre discipline propedeutiche), ha invece per oggetto le relazioni funzionali tra l’intervento dell’uomo sui detti fattori e la produzione delle piante agrarie (esclusi i fattori economici, politici, sociali e psicologici) ... Lo studio agronomico presuppone un’adeguata conoscenza del sistema terreno-pianta-atmosfera-ambiente biologico, su cui l’agronomo deve operare […] le conoscenze sulle relazioni tra i vari membri di questo sistema sono più specificamente approfondite dall’ecologia vegetale […].
In linea con gli insegnamenti del nostro maestro prof. Salvatore Foti (già professore ordinario di Agronomia presso l’Università di Catania), alla luce delle sempre più urgenti problematiche ambientali che hanno contribuito all’evoluzione del pensiero agronomico, crediamo che attualmente l’agronomia si possa definire come la scienza che studia le relazioni tra la produzione delle colture agrarie (produzione vegetale agraria) e i fattori naturali che la condizionano, allo scopo di definire e coordinare gli interventi di natura fisica, chimica e biologica (tattiche e strategie) per una gestione razionale e conservativa (sostenibile, ecocompatibile) dell’agroecosistema, che consenta di programmare la produzione vegetale (a destinazione alimentare e non) nella quantità, nella qualità e nel tempo.
L’agroecologia, che ha le proprie radici nelle scienze agrarie, nel movimento ambientalista, nell’ecologia, nell’analisi sistemica e negli studi di sviluppo rurale, più che come disciplina autonoma si va dunque delineando come ponte o approccio metodologico interdisciplinare e transdisciplinare volto a integrare idee e metodi delle diverse discipline afferenti alle scienze agrarie e biologiche e a quelle economiche e sociali - tra le quali sono prevalse frammentazione e limitato scambio - per affrontare i problemi dell’agricoltura e la sfida della sua transizione verso la sostenibilità. In sintesi, un’agricoltura rigenerativa che valorizza e governa i processi naturali per produrre alimenti abbondanti e incontaminati e materie prime per una green-economy (Meadows et al., 2004; Caporali, 2007; Caporali, 2010; Altieri et al., 2015).
Possiamo dunque asserire che anche per l’agricoltura, la ‘rivoluzione della sostenibilità’ auspicata per XXI secolo deve essere improntata sulla razionalità, non sulla razionalizzazione che è una falsa razionalità, basata su principi astratti e unidimensionale, prevalsa nel secolo scorso durante il quale ha imperato il pensiero tecnocratico, iperspecialistico o meccanicistico, che ha misconosciuto i principi della conoscenza pertinente. “[…] La parcellizzazione e la compartimentazione dei saperi rendono incapaci di percepire ciò che è tessuto insieme. […] Si tratta di sostituire un pensiero che separa e che riduce con un pensiero che distingue e che collega. Non si tratta di abbandonare la conoscenza delle parti per la Conoscenza della totalità, né l’analisi per la sintesi: si deve coniugarle […] (Morin, 2001).

 Strategie e tattiche per la gestione sostenibile dell’agroecosistema
Da quanto delineato è evidente che la gestione sostenibile degli agroecosistemi (o semplicemente agrosistemi), sia nell’espressione più semplice a scala di campo coltivato (cropping system), sia in quelle gerarchicamente più complesse a scala aziendale (farming system) e territoriale (agricultural system), è perseguibile soltanto mediante un approccio sistemico o olistico, peraltro come sopra affermato, ben conosciuto dagli agronomi, riconducibile ai seguenti criteri generali:
- incremento della diversità biologica e della complessità strutturale;
- aumento dell’efficienza d’uso delle risorse ambientali (radiative, termiche, idriche, nutrizionali, ecc.) e valorizzazione dei residui colturali e dei sottoprodotti e scarti di origine agricola ed extraagricola;
- eliminazione/contenimento degli input energetici esterni (combustibili fossili per le macchine agricole, concimi minerali, agrochimici, ecc) (Dalgaard et al., 2003; Pretty, 2008; Caporali, 2010).
Di conseguenza, il processo produttivo aziendale dovrebbe essere valutato impostando un bilancio energetico che comprenda, non solo il livello quanti-qualitativo della produzione (output), ma anche l’efficienza della trasformazione dell’energia sussidiaria immessa nel sistema (input) e la stabilità del medesimo (mantenimento quanti-qualitativo delle risorse ambientali e della produttività) (Hayati et al., 2010). In senso lato, pertanto, le strategie agronomiche ripensate in chiave agroecologica per il raggiungimento della sostenibilità presuppongono, accanto alla rivalutazione di alcune colture tradizionali (leguminose da granella e foraggere, in particolare) e di agrotecniche più o meno desuete in regime di agricoltura intensiva (avvicendamento e consociazione, sistemazione del terreno), l’individuazione di colture alternative (di copertura, da biomassa per energia, ecc.) così come l’ottimizzazione degli interventi agronomici (densità ed epoca di semina, fertilizzazione, lavorazioni del suolo, irrigazione, difesa dalle avversità).
Condizione preliminare per una corretta applicazione di queste strategie è un’attenta conoscenza dell’azienda agricola, considerata come ‘unità agrosistemica di riferimento’, nel più ampio contesto territoriale circostante, poiché solo attraverso l'osservazione e lo studio delle interazioni tra le diverse componenti (floristica, faunistica, pedoclimatica) è possibile predisporre itinerari tecnici che permettono di produrre secondo il paradigma della sostenibilità (Caporali, 2007; Caporali, 2010; Altieri et al., 2015).
Con riferimento alle relazioni tra le componenti biotiche e merobiotica (suolo) dell’agrosistema, bisogna innanzitutto affermare il ruolo essenziale dell’attività zootecnica ‘non confinata’ integrata nell’azienda agricola, la quale oltre a fornire prodotti salubri e di più elevato valore aggiunto, contribuisce al mantenimento della fertilità del terreno, direttamente attraverso il rilascio di residui, e indirettamente in quanto orienta le scelte degli agricoltori verso ordinamenti aziendali che comprendono colture ‘umigene’ e stabilizzanti come quelle foraggere (aree a pascolo, prati, erbai) che sostengono la catena del detrito che opera in seno ai cicli bio-geo-chimici.
Tra i principi della sostenibilità sono da annoverare la diversificazione e la complessità colturale, perseguibili essenzialmente attraverso due vie: scelta di specie e genotipi dotati di elevata adattabilità all’ambiente, cioè in grado di soddisfare le proprie esigenze ecologiche valorizzando altresì la vocazione del territorio mediante l’espressione di particolari caratteristiche di qualità e tipicità del prodotto; revisione delle relazioni spazio-temporali tra le piante coltivate, attraverso la programmazione di ordinamenti colturali che prevedano il numero più elevato possibile di specie, sia erbacee (da granella, foraggere, da rinnovo, di copertura, da biomassa, ecc.) che arboree (da frutto e da legno). La complicazione strutturale dei sistemi aziendali, sul modello degli ecosistemi naturali, è ritenuta, infatti, un elemento di stabilità e di minore dipendenza da input ausiliari. E’ accertato che i sistemi policolturali, siano essi organizzati sequenzialmente (intensificazione colturale nel tempo) in termini di avvicendamento (libero) e rotazione (ciclica) di due o più colture sullo stesso campo, che come consociazione (intensificazione colturale nello spazio e nel tempo) tra due o più specie erbacee e/o arboree contemporaneamente sullo stesso campo, valorizzano le risorse ambientali (radiazione, precipitazioni, N2, fertilità residua del suolo, ecc.) più efficacemente di quelli monocolturali. Una maggiore intensificazione spazio-temporale, infatti, massimizza la produzione di biomassa valorizzando la radiazione solare, fonte energetica rinnovabile. Sotto questo profilo, un ruolo importante può essere sostenuto dalle colture intercalari (catch crops), siano esse finalizzate a produrre raccolto che a ricoprire il terreno, per essere eventualmente sovesciate (cover crops e green manure), assolvendo numerose funzioni: contenimento dell’erosione, incremento di sostanza organica, degradazione dei fitofarmaci, incremento della biodiversità (Mauromicale et al., 2013; Mauro et al., 2015).
A questo proposito scriveva A. Jannaccone nella sua Lectio magistralis ‘Fondamenti agronomici dell’agricoltura moderna’ tenuta in occasione dell’inaugurazione dell’Anno Accademico 1960-61 all’Università degli Studi di Catania. “[…] Sulla base delle conoscenze odierne, la scelta della pianta, cioè della specie vegetale da fare oggetto di coltivazione in un determinato ambiente fisico, deve essere fatta non soltanto, come purtroppo sovente accade, con intendimenti economici contingenti, ma anche in funzione della conservazione della fertilità del terreno e del potenziamento della medesima. Dimostrato che la produzione agraria in una moderna agricoltura rimane affidata innanzitutto al raggiungimento ed alla conservazione della fertilità agronomica, alla quale in misura non lieve concorrono le colture, direttamente con l’azione delle radici ed indirettamente con i propri residui, risulta evidente che la scelta e l’avvicendamento delle colture, oggi più che mai, debbono essere fatti in funzione della edificazione e della conservazione della fertilità del suolo. E poiché la pianta è capace di produrre al massimo solo in ambiente integralmente e relativamente alla pianta medesima fertile, non è certo da temere che una scelta operata con siffatti criteri possa essere una scelta antieconomica. Ove si pensi che la fertilità del suolo, appunto perché difficilmente realizzabile è patrimonio la cui conservazione deve prescindere da interessi immediati, è ovvio che una scelta delle colture operata con questo intendimento è sempre una scelta economica di sicura convenienza, i cui effetti si proiettano ben al di là di un ciclo produttivo o di una generazione umana. […]” (Giarrizzo, 2001).
Nel caso di consociazione, in linea generale, occorre gestire il sistema massimizzando la complementarità ecologica (domanda differenziata rispetto alle risorse disponibili) e minimizzando la competizione tra le componenti, sia attraverso la scelta di specie e genotipi in grado di bilanciare la loro abilità competitiva (espressione di determinati caratteri morfo-bio-fisiologici), sia combinandoli opportunamente nella dimensione spazio-temporale. E’ noto, infatti, che le interazioni positive tra le componenti di un sistema consociato possono instaurarsi a livello della rizosfera (diversa struttura e funzionalità degli apparati radicali, escrezione di sostanze nutritive), così come della fillosfera (differente habitus e ritmo di crescita) e che i relativi benefici possono manifestarsi come effetto residuo anche sulle colture avvicendate, qualora ad esempio sia presente una specie azoto-fissatrice (Anderson, 2010; Altieri et al., 2015). Tuttavia, un limite alla diffusione dei sistemi consociati è spesso rappresentato dall’inidoneità degli attuali genotipi “migliorati”, vale a dire concepiti per i sistemi specializzati dell’agricoltura intensiva; per questo è auspicabile una riformulazione ad hoc degli ideotipi delle specie coltivate, così come il recupero e la valorizzazione di genotipi autoctoni e varietà tradizionali. A questo proposito, in contrapposizione con il miglioramento genetico convenzionale e le biotecnologiche basati su un approccio gene-centrico che mira a modificare il genoma degli organismi per singoli caratteri (ad esempio, caratteri produttivi, qualitativi e/o protettivi delle piante) associati a uno o a pochi geni, e che conducono a una ‘omogeneità genetica’ offrendo soluzioni temporanee e instabili inidonei a fronteggiare eventuali cambiamenti repentini (nuove malattie e mutamenti ambientali), di rilevante interesse è il ‘miglioramento genetico partecipativo-evolutivo’ che, in accordo con il teorema fondamentale della selezione naturale, valorizza la ‘diversità genetica’, e rappresenta una soluzione duratura perché dinamica e, pertanto, capace di far fronte all’incertezza climatica e sanitaria. Questo metodo consiste nel seminare on farm, cioè in campo aperto, miscugli di genotipi differenti della medesima specie coltivata (popolazioni evolutive). Da un anno all’altro, in virtù di incroci spontanei (efficaci anche nelle piante prevalentemente autogame di rilevante interesse alimentare come alcuni cereali e leguminose da granella), la composizione genetica della popolazione si modifica evolvendosi e adattandosi dinamicamente all'ambiente di coltivazione. Ricercatori e/o gli agricoltori possono praticare insieme una selezione artificiale calibrata su obiettivi diversi ambiente per ambiente, pertanto più sostenibili (Ceccarelli, 2009; Morran et al., 2009; Ceccarelli et al., 2010).
Oltre al caso classico delle foraggere, anche per alcune colture da granella, orticole ed arboree è stata dimostrata la superiorità o la comparabilità dei sistemi consociati in raffronto alle rispettive colture pure.
Nel quadro della ridefinizione dei rapporti tra piante coltivate, la fittezza (numero di piante sull’unità di superficie di suolo coltivato), sia in regime di coltura pura che consociata, regolando la competizione per le risorse disponibili (luce, acqua, nutrienti, ecc.), può rappresentare un fattore critico per la sostenibilità dell’agrosistema; pertanto, richiede di essere opportunamente regolata, incrementandola o riducendola, oltre che in rapporto all’espressione produttiva delle colture (granella, biomassa, ecc.), anche rispetto al livello dei fattori agroecologici (fertilità del suolo, concimazione, irrigazione, presenza e tipologia di flora spontanea) determinanti la produzione. La gestione di quest’aspetto dell’agrotecnica è particolarmente complessa nel caso delle consociazioni nelle quali entra in gioco anche la competizione interspecifica, la cui manifestazione dipende sia dalla proporzione (numero di individui, definito secondo schemi sostitutivi o additivi) che dalla disposizione spaziale reciproca (consociazione mista, a file, a strisce, a bande) o spazio-temporale (consociazione temporanea o permanente) delle diverse componenti presenti nell’unità colturale. Ulteriori vantaggi dei sistemi policolturali sono individuabili nelle funzioni protettiva (difesa del suolo e riduzione della lisciviazione dei nutrienti), stabilizzante del microclima colturale (riduzione della ventosità, dell’escursione termica, ecc.) e ricreativa (modellamento ed ecologia del paesaggio).
Strettamente connessa con la possibilità di realizzare ordinamenti colturali più articolati è anche l’appropriata scelta dell’epoca di semina delle specie erbacee previste nel piano colturale, attraverso la quale è possibile modulare, entro i limiti imposti dalle loro esigenze ecologiche, i ritmi fenologici per fronteggiare alcune limitazioni ambientali. Con riferimento all’ambiente mediterraneo si pensi ad esempio alla possibilità di anticipare le semine di alcune colture erbacee a ciclo primaverile-estivo (barbabietola, girasole), mettendole nelle condizioni di sfuggire all’aridità, o addirittura di cambiarne la collocazione temporale coltivandoli in ciclo autunno-primaverile per valorizzare al meglio le risorse idriche naturali con notevole risparmio energetico.
La sostenibilità è inversamente correlata alla quantità di energia esterna immessa nell’agrosistema con i combustibili fossili impiegati, sia direttamente per la meccanizzazione delle operazioni colturali, soprattutto lavorazioni del suolo, sia indirettamente sotto forma di mezzi tecnici, come l’acqua irrigua, i fertilizzanti e i fitofarmaci. In tema di meccanizzazione, occorrerebbe puntare prioritariamente sulla progettazione di macchine adatte al sistema agrario, piuttosto che continuare a modificare quest’ultimo in funzione delle macchine con profonde ripercussioni sull’assetto del territorio e sul paesaggio, com’è finora avvenuto. E’ necessario, inoltre, commisurare il parco macchine aziendale alle effettive esigenze in termini di potenza meccanica ed efficienza d’uso, attraverso l’integrazione di diverse operazioni colturali ispirandosi al modello del ‘cantiere di lavoro’.
La fertilizzazione, ad eccezione che per le specie leguminose, rappresenta la voce che incide maggiormente sul fabbisogno energetico colturale. Fatta salva la necessità di reintegrare in qualche modo la quota di nutrienti asportati dal suolo con il raccolto, il relativo apporto può essere regolato sostanzialmente in tre modi:
- impiego di fertilizzanti organici, ivi compresi i residui vegetali ed i rifiuti civili e industriali anche compostati;
- valorizzazione delle leguminose, sia come colture da reddito in avvicendamento o in consociazione, che come colture da sovescio, nonché di ogni altra associazione piante-microorganismi (micorrize, azospirilli);
- massimizzazione dell’efficienza agronomica dei nutrienti.
Il mantenimento della fertilità del suolo si basa principalmente sulla reintegrazione della sostanza organica, sia sotto forma di letame sia di residui colturali ed extra-aziendali e sovesci. In particolare, il destino dei cosiddetti rifiuti agricoli, ma anche di quelli civili e industriali, rappresenta un aspetto fondamentale della sostenibilità, in quanto il riciclo di questi nei campi, purché razionalmente gestito, può trasformarsi in una risorsa. Occorre, tuttavia, precisare che l’utilizzo dei liquami zootecnici, cosi come dei reflui industriali, disponibili in quantità sempre più elevata, può avere un impatto negativo sulle proprietà fisiche (struttura, permeabilità, ecc.), chimiche (scambi ionici, accumulo di metalli pesanti, lisciviazione di N, ecc.) e biologiche (diffusione di agenti patogeni, antibiotici, ecc.) del suolo qualora, soprattutto in rapporto al loro contenuto di N, si ecceda nelle dosi e si somministrino a colture particolarmente sensibili e nei periodi in cui l’assorbimento dei nutrienti da parte delle piante coltivate è contenuto.
La corretta gestione dei residui colturali (paglie, stocchi, ecc.) presuppone la loro trinciatura, l’apporto di azoto minerale per ridurne il C/N evitando l’immobilizzazione dell’N, e una lavorazione superficiale del terreno. Tuttavia, questa pratica non è scevra da problemi, insiti nel rischio di immobilizzazione dell’N, ma anche del P e dei microelementi, cui si deve aggiungere la denitrificazione dell’N minerale apportato, come pure l’eventuale formazione di metaboliti fitotossici. Un’opzione che merita attenzione soprattutto nei climi semiaridi, è l’applicazione di liquami, ove se ne disponga in elevata quantità, sulla paglia prima di incorporarla al terreno.
Nell’ottica della sostenibilità si impone anche la rivalutazione del sovescio, in considerazione della disponibilità di numerose specie leguminose adatte alle differenti condizioni pedo-climatiche che oltremodo, in virtù del più basso C/N dei loro residui, non richiedono supplementi di N. Come prima accennato, è possibile inserire queste specie, in particolare le leguminose annuali autoriseminanti (trifogli, mediche, ecc.), in combinazioni colturali nell’ambito dei quali sia prevista la concatenazione di colture da reddito con colture intercalari di copertura le quali, oltre ad esercitare un’azione positiva sulle proprietà fisiche del suolo, contribuiscono a mantenerne la fertilità chimica e biologica attraverso la N-fissazione, il rilascio di sostanza organica e lo stimolo dell’attività microbica tellurica (Caporali e Campiglia, 2001; Caporali, 2007; Caporali, 2010; Giardini, 2012; Altieri et al., 2015).
L’efficienza della concimazione minerale è legata essenzialmente alla dose impiegata che, soprattutto con riferimento all’azoto, deve essere sempre stabilita secondo un’attenta analisi dei fattori pedo-climatici e colturali, come pure delle produzioni attese, predisponendo un bilancio preventivo di quel determinato elemento nell’agroecosistema che ne valuti le voci negative e positive, oppure più semplicemente, con l’ausilio di curve empiriche dose-risposta, tarate su ciascun ambiente e coltura. Altri aspetti critici della concimazione riguardano la forma chimica degli elementi, l’epoca e la modalità di distribuzione che, per l’azoto in particolare, possono determinarne il grado di trattenuta nel terreno, in rapporto alla dinamica dell’elemento determinata dalle condizioni ambientali, nonché la disponibilità per le colture in relazione ai ritmi di assorbimento. In questo senso è auspicabile, ove possibile, il ricorso alla forma ammoniacale di N e ai formulati a lento rilascio, al frazionamento della dose, alla concimazione localizzata e, soprattutto in ambiente controllato, alla fertirrigazione.
Le lavorazioni, modificando le condizioni di abitabilità del suolo, si configurano come interventi agronomici che, nel lungo periodo, ne condizionano marcatamente la fertilità; occorre, pertanto, coordinarli nel contesto più generale della gestione conservativa dell’agrosistema (Caporali, 2007; Giardini, 2012; Altieri et al., 2015). Com’è risaputo, gli effetti delle lavorazioni, alcuni dei quali ormai da tempo controversi sotto il profilo dell’efficacia, si manifestano soprattutto sul contenuto di sostanza organica, la dotazione nutrizionale, lo stato strutturale, l’attività biologica e la riserva idrica del suolo. Con riferimento all’ambiente mediterraneo, la sequenza classica dei lavori al terreno adottata nei sistemi specializzati che, in rapporto alle condizioni colturali, prevede una lavorazione principale (generalmente aratura) seguita da interventi complementari (discissure, estirpature, erpicature secondo diversi gradi d’intensità), si basa sulla disponibilità pressoché illimitata di energia meccanica oltre che di una vasta gamma di attrezzi. L’accessibilità a tali mezzi conduce, molto spesso, a derogare all’osservanza delle regole ortodosse relative alla frequenza, profondità, epoca e modalità di esecuzione degli interventi meccanici al terreno, con riflessi negativi sul piano economico ed agro-ecologico. I principali limiti di questo modus operandi, soprattutto nell’ambito di avvicendamenti troppo stretti incentrati su colture annuali, riguardano l’eccessiva aerazione e la demolizione della struttura che, nel lungo periodo, pregiudicano la dotazione di sostanza organica e lo stato fisico del suolo, dunque la sua resilienza. Solo per citare alcuni dei tanti esempi sul tema: particolarmente sfavorevole si rivela l’aratura autunnale profonda dei suoli argillosi destinati ad accogliere colture erbacee a ciclo primaverile-estivo che, rimuovendo la copertura spontanea, favorisce la mineralizzazione della sostanza organica e la perdita di nutrienti per lisciviazione ed erosione. Di contro, l’aratura profonda per le colture a ciclo autunno-vernino può assumere un ruolo decisivo nel risanare dal ristagno idrico i terreni argillosi, favorendo l’infiltrazione dell’acqua e la costituzione di una riserva utile, soprattutto in regime di aridocoltura.
I più attuali indirizzi in tema di lavorazioni fanno comunque riferimento alla possibilità di adozione, in ambienti pedoclimatici e condizioni colturali ben definiti, di metodi alternativi alla preparazione tradizionale del terreno che mirano sostanzialmente alla semplificazione o sostituzione dell’aratura e dei lavori complementari coniugando al vantaggio economico l’efficienza sul piano tecnico e la valenza ecologica degli interventi. Tra questi, degna di rilievo per i risultati promettenti ottenuti soprattutto nei suoli argillosi degli ambienti mediterranei, in presenza di abbondanti residui colturali, è la lavorazione a due strati, basata sulla combinazione (contemporanea o differita) della ripuntatura profonda (0,5 m e oltre) e dell’aratura superficiale (non oltre 0,25-0,30 m), nel presupposto di conseguire i vantaggi della prima (fenditura in profondità e conseguente incremento della permeabilità senza determinare alterazione della stratigrafia del suolo, eccessiva zollosità e formazione di ‘suola di lavorazione’) e quelli della seconda (rivoltamento dello strato superficiale e conseguente interramento dei residui colturali e di eventuali fertilizzanti organici, di propaguli e semi di piante infestanti, nonché l’esposizione del suolo agli agenti atmosferici), favorendo l’instaurarsi del giusto equilibrio tra fase solida, liquida e aeriforme lungo il profilo di suolo, necessario a sostenere l’attività della catena detritivora tellurica. Di contro, alla semplice discissura, si può ricorrere allorché i residui colturali sono in presenti in quantità ridotta. In entrambi i casi di lavorazione principale, la preparazione del terreno per la semina richiede comunque di essere completata con l’erpicatura. Altre opzioni di lavorazione semplificata, rivelatisi particolarmente appropriate per le colture intercalari, puntano a ridurre al minimo l’intervallo di tempo in cui il suolo rimane privo di vegetazione, eseguendo interventi meccanici prossimi o contemporanei alla semina. I diagrammi più diffusi prevedono, in presenza di pochi residui colturali (eventualmente trinciati), l’uso del coltivatore seguito, in rapporto alla costituzione del suolo, dalla fresatrice o dall’erpice, cui segue la semina. In quest’ottica è stata concepita anche la cosiddetta lavorazione a strisce, che consiste in un intervento meccanico (generalmente fresatura) localizzato su una porzione di terreno di ampiezza variabile (8-30 cm) destinata ad accogliere la coltura. Questa strategia si è dimostrata efficace soprattutto nei casi in cui si voglia insediare una coltura (ad es. da granella) su un terreno con copertura vegetale preesistente (ad es. living mulch di leguminose annuali autoriseminanti).
La non lavorazione o semina diretta su sodo, invece, a fronte di alcune implicazioni positive sulle proprietà fisiche, chimiche e biologiche dei suoli assimilabili a quelle del regime sodivo, che pure necessitano di approfondimenti, rappresenta un’opzione la cui opportunità è da valutare caso per caso. Non ancora ben chiariti sono, infatti, i rischi di fitotossicità legati all’accumulo di residui colturali indecomposti e quelli dovuti all’eventuale impiego di erbicidi che possono essere richiesti per il controllo della flora spontanea. In generale, vale il principio che considera questa tecnica più adatta ai terreni tendenzialmente sciolti (sabbiosi) e alle colture ad apparato radicale più superficiale. Tuttavia, la sperimentazione ha evidenziato eccezioni a questo presupposto, come nel caso della sulla (Hedisarum coronarium L.), che in ambiente semiarido, in avvicendamento con i cereali, ha dimostrato di adattarsi pienamente alla non lavorazione, per la sua particolare capacità d’insediamento.
La complessità dei fattori esaminati rende evidente come l’ottimizzazione delle lavorazioni si debba ricercare nel quadro più ampio della cosiddetta ‘gestione conservativa del suolo, richiamando ancora una volta l’attenzione sull’esigenza di pianificare ordinamenti colturali che realizzino un equilibrio tra durata dei regimi sodivo e arativo (Caporali, 2007; Zarea, 2010; Giardini, 2012; Altieri et al., 2015).
In questo contesto, occorre anche segnalare il contributo alla sostenibilità delle opere di sistemazione del suolo, spesso neglette, ma senz’altro da riconsiderare anche mantenendo, per quanto possibile, i modelli tradizionali. Questi, di là dell’efficace funzione agronomica di contenimento degli eccessi idrici e del contributo alla stabilità idro-geologica del territorio rurale e di quello urbano ad esso attiguo, rappresentano un elemento caratterizzante il paesaggio agrario italiano. Senz’altro da segnalare a questo proposito è anche il ruolo delle siepi (componente legnosa arborea o arbustiva+fascia erbacea) come elementi di eterogeneità strutturale dell’agrosistema in grado di esercitare numerose funzioni protettive (come barriere meccaniche determinanti modificazioni microclimatiche, filtri e serbatoi biologici che contribuiscono, rispettivamente, a preservare acqua ed elementi nutritivi e la biodiversità microbica e floro-faunistica) e produttive (attraverso gli incrementi di resa delle colture dovute al miglioramento delle condizioni ambientali, igieniche e di controllo biologico delle avversità biotiche, oppure con le produzioni ausiliarie di legno, foraggio, nettare, ecc.). La razionalizzazione dell’impiego delle risorse idriche come strategia per un uso sostenibile dell’acqua dovrebbe puntare sulla valorizzazione degli apporti naturali (piogge), sull’efficienza irrigua e sulle fonti alternative. Il miglioramento dell’efficienza dell’irrigazione può essere perseguito sia attraverso interventi di carattere strutturale finalizzati al contenimento delle frequenti perdite di carico delle condotte adduttrici, sia attraverso una gestione orientata alla riduzione dei volumi e all’ottimizzazione degli interventi irrigui. Il primo passo riguarda dunque l’ammodernamento degli impianti di adduzione e di distribuzione a livello consortile e aziendale. I sistemi irrigui in pressione come l’aspersione e la microirrigazione, se progettati e gestiti in modo oculato, sono notevolmente più efficienti rispetto ai tradizionali metodi gravitazionali (es. infiltrazione da solchi). La razionale gestione irrigua, invece, concerne l’automazione degli impianti e la conoscenza delle esigenze idriche delle colture nelle diverse fasi del ciclo, che consente di correlare gli interventi ai momenti di effettivo fabbisogno evitando gli sprechi e massimizzando l’efficienza agronomica dell’acqua. Altre possibilità di riduzione del costo energetico dell’irrigazione sono da ricercare nell’adozione, laddove sia possibile in rapporto alle condizioni ambientali e alle colture, di interventi con carattere di soccorso (limitato sussidio idrico).
La valutazione delle possibilità d’impiego delle acque reflue urbane e industriali, tal quali o depurate, per l'irrigazione può rivelarsi un’interessante opzione ecocompatibile, non tanto per l'entità dei volumi, comunque da non sottovalutare, quanto per la possibilità di poter proficuamente utilizzare come risorsa alternativa (recuperando le sostanze nutrienti in esse disciolte) acque il cui smaltimento è spesso problematico e molto inquinante (Bhattarai et al., 2010).
La sostenibilità in tema di difesa delle colture dalle avversità biotiche, compresa la gestione della flora spontanea, dovrebbe seguire due direttrici fondamentali, quella preventiva e quella curativa, tra loro integrabili.
L’approccio preventivo, che ovviamente assume un peso notevole, si può ricondurre a diverse strategie agronomiche sopra richiamate: complicazione strutturale dell’agrosistema per favorire la presenza di nemici naturali degli organismi nocivi (presenza di siepi e fasce vegetazionali), avvicendamento e consociazione, lavorazioni, fertilizzazione, irrigazione, fittezza, epoca di semina. Lotta preventiva può essere considerata anche l’uso di sostanze (feromoni, repellenti) interferenti con il comportamento dell’artropodofauna nociva alle colture.
Le strategie curative d’intervento prevedono la lotta biologica mediante vettori (funghi, batteri), vale a dire organismi antagonisti dei fitopatogeni, fitofagi e infestanti delle colture, le cui conseguenze del rilascio nell’ambiente non sono state ancora del tutto valutate, nonché la lotta guidata con fitofarmaci. Quest’ultima modalità, che presuppone a priori la conoscenza della dinamica delle popolazioni degli agenti biotici dannosi alle colture, piante spontanee comprese (bersagli), si basa sull'utilizzazione di un principio attivo (chimico o meglio biologico) solo quando la presenza dell’organismo dannoso sulla coltura raggiunge un determinato limite denominato soglia economica d’intervento, intendendosi con questa il momento in cui il costo del trattamento è comunque inferiore al reale danno economico che si avrebbe se l’intervento non fosse eseguito.
L’integrazione di entrambe le strategie (preventiva e curativa), conosciuta con il nome di lotta integrata, rappresenta il cardine della difesa sostenibile delle colture. Altri interventi innovativi di difesa delle piante coltivate da considerare ecocompatibili sono la ‘solarizzazione’ e l’uso di piante ‘biocide’. La prima consiste nel coprire, nel periodo estivo, il terreno con film plastici trasparenti e sfruttare l’azione termica, ovvero il conseguente “effetto serra” per raggiungere temperature letali agli organismi dannosi, ad alcune loro forme di resistenza e ai propagali di specie spontanee in germinazione. Le piante biocide, rappresentate principalmente da specie appartenenti alla famiglia delle Brassicaceae sono considerate tali, poiché i loro tessuti sono ricchi di glucosinolati, gruppo di composti che a contatto con il terreno subiscono l’idrolisi che li trasforma nelle sostanze biologicamente attive denominate isotiocianati. L’azione di controllo su diversi organismi dannosi alle colture (patogeni, insetti, nematodi) correlata al tipo di composto prevalente in una determinata specie biocida, si basa: sull’effetto avvicendamento, attraverso l’escrezione di sostanze attive dalle radici di una coltura da reddito (colza, crambe, ecc.) durante il suo ciclo e dei residui rilasciati a conclusione di questo; sul sovescio di una coltura intercalare costituita con una o più specie brassicacee (rafano, senape, rucola, ecc.).
In conclusione, è evidente che la sostenibilità in agricoltura non può essere concepita dall’oggi al domani, ma presuppone innanzitutto un’ecoalfabetizzazione di tutti gli attori coinvolti e la ricerca di soluzioni di compromesso tra esigenze tutte fondamentali per l’uomo, purtroppo, spesso in antinomia soprattutto in un contesto di economia di mercato globalizzata: elevate produzioni quanti-qualitative, salubrità e gradevolezza dell’ambiente, ridotti consumi energetici, economicità, accettabilità sociale.
Realisticamente, data la complessità dei sistemi agricoli, occorre ipotizzare e verificare diversi modelli di agricoltura sostenibile scegliendo e valorizzando specifiche strategie e tattiche agroecologiche adatte a ciascuna realtà territoriale e socio-economica.
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