lunedì 7 dicembre 2009

L’importanza di chiamarsi Senza frontiere


L’importanza di chiamarsi Senza frontiere

di Gianluca Di Gioia
L’associazionismo italiano brulica di “senza frontiere”, esistono i medici, gli ingegneri, gli informatici, i geologi e così tanti altri ancora da rischiare che qualcuno possa considerare la scelta di questo appellativo frutto della moda del momento.Per noi non è sicuramente così.Il valore del nome che portiamo sta nel significato profondo che gli attribuiamo.Noi siamo Agromoni Senza Frontiere.Per me che sono un “agronomo - veterinario”, la parola agronomo assume il significato di persona che ama la Terra genitrice di vita, che cerca di possedere le conoscenze per utilizzarla e “lavorarla” con rispetto, seguendo i dettami non solo della scienza ma anche delle leggi della natura.L’avverbio Senza prima della parola frontiere potrebbe trarre in inganno. Personalmente non credo che il mondo ne sia priva. Vent’anni dopo la caduta del muro di Berlino le frontiere nel mondo sono tante e difficili da valicare. Penso ai muri eretti in Palestina, o a quello che divide le Corea del Nord dalla Corea del Sud; penso al confine tra Stati Uniti e Messico, ma anche alla frontiera di pregiudizio sempre più complicato che si sta creando tra l‚Occidente e il mondo Musulmano. penso ai fili spinati che dividono i quartieri alti di Rio De Janeiro dalle favelas; penso al Mare nostrum, il Mediterraneo che è sempre stato luogo di incontro e di scambio e oggi vede pattuglie militari respingere vite disperateaggrappate a legni marciti dalla povertà.Definirsi Senza Frontiere non significa pensare che sia facile far circolare le persone, le culture, le idee o che sia facile incontrare genti diverse e insieme inventare soluzioni per i problemi dell’umanità, ma significa credere che ciò è ancora possibile.Per spiegare cosa significa per me la parola Frontiere vi racconterò dei miei sogni di fanciullo dei miei miti, dei miei modelli. Da sempre sono stato affascinato dalla figura dell’uomo di frontiera, da esploratori come Marco Polo, David Livingstone o Cristoforo Colombo, ma anche dai missionari e dalle gesta eroiche di uomini che hanno scavato pozzi nei deserti o aperto nuove strade o fatto scoperte scientifiche.Il mio eroe era l’uomo di frontiera: quello che cammina sempredavanti agli altri con la propria testa, le proprie gambe e con il proprio cuore, quello che traccia nuove piste, che spiana la strada, quello che parte anche se non sa cosa si troverà di fronte e dove lo porterà il viaggio, quello che valica le frontiere spostando sempre più in là il confine tra le terre note e quelle inesplorate.Sognavo una vita come quella di questi uomini… e invece quotidianamente combatto la mia guerra con i piccoli problemidella vita dell’occidentale medio: il lavoro, il capo ufficio, il proprietario di casa, il cellulare che non prende.Ho fatto troppo poco nella mia vita per considerarmi un uomo di frontiera, ma una cosa l’ho capita: la frontiera più difficile da valicare è quella invisibile che ci portiamo dentro, quella che demarca l’Io dal “Tu”, la più importante da superare se si vuole veramente andare incontro all’altro, se si vuole capire nel profondo chi è l’altro e se si vuole condividerne il cammino per un pezzo di strada, adeguando il ritmo al passo del più lento.È questa la frontiera che cerco di superare quando incontro gli altri.È questa la frontiera che cerco di superare per portare con dignità il nome di Agronomo Senza Frontiere.
Agronomi Senza Frontiere Puglia

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