Quei contadini di oggi e i mondi rurali in relazione
di Dina Galano
LIBRI. L’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) pubblica "Vite contadine". Intervista a Monica Caggiano che spiega la sua indagine e ciò che ha scoperto su una realtà sociale dell’Italia ancora troppo sconosciuta.
La vecchia ospitalità contadina non è mutata », esordisce Monica Caggiano, autrice del libro Vite contadine e ricercatrice presso l’Inea. Lei le realtà descritte nel volume le ha vissute direttamente, andando a visitare molte delle aziende agricole di cui si racconta, spesso rimanendo ospite nei casali e nelle masserie, seguendo passo per passo ogni attività. Con alcuni agricoltori ha stretto una bella amicizia. Altri, invece, è stato difficile scovarli e poi raggiungerli. Ma la passione per questo mondo le appartiene fin dall’infanzia. È nata a Taurasi, provincia di Avellino, e conosce l’odore del mosto e il sapore del rosso. Oggi si interessa di ecologia sociale e tematiche ambientali, indirizzando le sue ricerche sulle realtà socioeconomiche dei sistemi agricoli e rurali.
Come sono i contadini italiani di oggi, soprattutto per la globalizzazione e la concentrazione di potere dell’industria agroalimentare, per cui l’agricoltore ha perso la propria autonomia?
Innanzitutto bisogna uscire da un equivoco terminologico. Esiste una profonda ed essenziale differenza tra la figura del contadino e quella dell’imprenditore agricolo. Il primo prova a lasciare intatta la produttività della terra, non la sfrutta, non la rapina. In questo modo agisce anche nel proprio interesse, perché è consapevole che dalla fertilità del terreno dipende la propria sopravvivenza. Il mondo dell’agricoltura, sotto questo aspetto, è molto mutato. In parte per colpa dell’eccessiva antropizzazione del territorio, in parte per l’avvento delle macchine e della chimica. I sistemi di produzione ormai sono orientati a logiche di mercato, all’ottimizzazione del fatturato e alla massimizzazione del profitto. Chi rincorre questi obiettivi ha valicato la figura del contadino tradizionale, assomigliando di fatto all’imprenditore che produce una particolare tipologia di beni.
Si può dire che, nonostante la prevalenza di esperienze di mercato, l’essere contadino sia tornato di moda?
Esistono sicuramente esperienze virtuose e di successo. Quelle che raccontiamo nel libro sono esempi vincenti, di gente che ha compiuto consapevolmente la scelta di restare o tornare in campagna. Però, da un punto di vista quantitativo, si tratta di un campione non rappresentativo. L’agricoltura tradizionale in Italia è ancora gestita dalle vecchie generazioni, con tassi di anzianità molto alti, e da un punto di vista statistico è sostanzialmente in via di esaurimento.
Però esiste un ponte significativo tra vecchio e nuovo. Chi sono i cosiddetti neorurali?
I neorurali sono giovani che scelgono di recuperare una tradizione che è stata interrotta o che non hanno mai conosciuto direttamente. Spesso abbandonano un percorso di vita professionale già avviato, sconvolgendolo radicalmente. Hanno certo la difficoltà di ricostruire o inventarsi punti di riferimento nel mondo contadino, ma agiscono con maggiore consapevolezza. Penso a Giuseppe, il ragazzo che dopo una laurea alla Bocconi di Milano e un percorso lavorativo di consulenza è tornato in Salento e oggi produce olio e graminacei. La sua scelta non è stata compresa dai suoi genitori, ma, nonostante le difficoltà, ha riavviato un’azienda che apparteneva alla sua famiglia. La sua esperienza, come molte altre, dimostra di poter sconfessare l’assunto pasoliniano per cui “il mondo contadino è morto”. Questo rivive nell’esperienza di giovani che decidono di imparare e sperimentare. La cultura contadina sopravvive e non coincide più con quell’immaginario fatto di stenti e ignoranza.
Ma come avviene, di fatto, il recupero della tradizione?
La cosa fondamentale è riuscire a stabilire una comunicazione che sappia ricucire i distacchi generazionali. Dietro alla figura di un neorurale c’è sempre quella di un uomo che il lavoro nei campi lo conosce da sempre. Per questo è importante che ci sia la volontà di trasmettere il sapere e la capacità di apprendere, nonostante i linguaggi siano cambiati. A tal proposito, il sociologo Becattini parlava di integrazione versatile. In un’espressione è quello che Giovanni, dall’alto dei suoi ottant’anni e più, ha dichiarato una volta a Costanza, quando, a suo dire «finalmente », ha compreso cosa intendesse per fare agricoltura biologica nella sua proprietà alle porte di Perugia. «Il biologico è come prima della guerra», le ha detto, mettendo fine a una disputa durata anni. Ed ecco stabilita la comunicazione.
A proposito di biologico, sono cambiate anche le modalità di finanziamento dell’attività agricola?
Il successo del biologico è una conseguenza di un cambiamento di approccio, della prevalenza dell’interesse alla qualità del bene. Anche se, a ben vedere, ci si è accorti che dalla sicurezza agroalimentare deriva un vantaggio economico e che il biologico, nonostante abbia una resa minore, costa meno dell’uso della chimica. Ma la filosofia di recupero del genuino è legata anche a precise scelte politiche, specie alle indicazioni della comunità europea. Si è andata affermando la regola della multifunzionalità dell’agricoltura cui si chiede non più di essere produttiva, bensì responsabile. L’agricoltore è premiato se garantisce ospitalità rurale, indennità ambientali, cura del paesaggio. La giustificazione prevalente per ottenere una sovvenzione europea oggi è quella di diventare “presidio del territorio”.
In che senso?
Essere “presidio del territorio” significa preoccuparsi dell’impatto ambientale delle proprie coltivazioni sul microsistema locale, ma anche impegnarsi materialmente per la salvaguardia dell’ambiente circostante. La storia di Mario, detto l’Avvocato, è esemplare perché ha permesso la dismissione di una cava limitrofa, trasformata in discarica. Dopo venticinque anni di proteste, dimostrazioni pubbliche e lettere accorate alle istituzioni, la Massera Sparano è riuscita a sopravvivere alla devastazione del territorio circostante. Spesso si tratta di veri e propri atti di resistenza.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontra chi vuole intraprendere questo mestiere?
L’ostacolo maggiore è rappresentato dall’accesso alla terra. I costi sono molto elevati e costringono molti al fitto. Per l’italiano risparmiatore la proprietà terriera è ancora un bene rifugio. Poi ci sono le difficoltà di accesso al credito e dell’esiguità dei guadagni. La forbice tra prezzi alla produzione e al consumo, infatti, è ancora assai divaricata. Ma un ulteriore rischio viene dall’eccessiva burocratizzazione. Il piccolo agricoltore soggiace, in questo Paese, alle stesse leggi e regimi fiscali del grande. Questo ha effetti negativi anche sulla possibilità di operare scelte intelligenti. La monocoltura, per esempio, è un evidente effetto del perverso sommarsi di questi impedimenti.
Cosa determina il successo di un’esperienza rurale?
Per fare questo mestiere, oggi, serve una grande tenacia e un forte coraggio. Per i piccoli sarebbe fondamentale collaborare anche se lo spirito di cooperazione in molte aree generalmente non appartiene all’etica contadina. Prevalgono esperienze di economia di scala, anche se il corporativismo non appartiene all’etica contadina. L’agricoltore è per sua natura individualista e molti tentativi di consorzio e cooperative sono stati vanificati dalla diffidenza. Di solito l’esigenza di unirsi riguarda soltanto la fase di commercializzazione del prodotto. Ma in alcune zone di Italia, in particolare al Sud, si è rivelata fallimentare. In verità, ciò che determina il successo è la solidarietà e la suddivisione di ruoli e compiti. In Liguria abbiamo raggiunto l’agririfugio Molini, in un luogo isolato e accessibile soltanto a piedi. La cooperativa resiste proprio perché ognuno partecipa all’organizzazione offrendo il proprio contributo. Le esperienze vincenti si confermano quelle dove si riesce a costruire una rete di relazioni.
Fonte
http://www.terranews.it/news/2009/11/%C2%ABquei-contadini-di-oggi-e-i-mondi-rurali-relazione%C2%BB
di Dina Galano
LIBRI. L’Istituto nazionale di economia agraria (Inea) pubblica "Vite contadine". Intervista a Monica Caggiano che spiega la sua indagine e ciò che ha scoperto su una realtà sociale dell’Italia ancora troppo sconosciuta.
La vecchia ospitalità contadina non è mutata », esordisce Monica Caggiano, autrice del libro Vite contadine e ricercatrice presso l’Inea. Lei le realtà descritte nel volume le ha vissute direttamente, andando a visitare molte delle aziende agricole di cui si racconta, spesso rimanendo ospite nei casali e nelle masserie, seguendo passo per passo ogni attività. Con alcuni agricoltori ha stretto una bella amicizia. Altri, invece, è stato difficile scovarli e poi raggiungerli. Ma la passione per questo mondo le appartiene fin dall’infanzia. È nata a Taurasi, provincia di Avellino, e conosce l’odore del mosto e il sapore del rosso. Oggi si interessa di ecologia sociale e tematiche ambientali, indirizzando le sue ricerche sulle realtà socioeconomiche dei sistemi agricoli e rurali.
Come sono i contadini italiani di oggi, soprattutto per la globalizzazione e la concentrazione di potere dell’industria agroalimentare, per cui l’agricoltore ha perso la propria autonomia?
Innanzitutto bisogna uscire da un equivoco terminologico. Esiste una profonda ed essenziale differenza tra la figura del contadino e quella dell’imprenditore agricolo. Il primo prova a lasciare intatta la produttività della terra, non la sfrutta, non la rapina. In questo modo agisce anche nel proprio interesse, perché è consapevole che dalla fertilità del terreno dipende la propria sopravvivenza. Il mondo dell’agricoltura, sotto questo aspetto, è molto mutato. In parte per colpa dell’eccessiva antropizzazione del territorio, in parte per l’avvento delle macchine e della chimica. I sistemi di produzione ormai sono orientati a logiche di mercato, all’ottimizzazione del fatturato e alla massimizzazione del profitto. Chi rincorre questi obiettivi ha valicato la figura del contadino tradizionale, assomigliando di fatto all’imprenditore che produce una particolare tipologia di beni.
Si può dire che, nonostante la prevalenza di esperienze di mercato, l’essere contadino sia tornato di moda?
Esistono sicuramente esperienze virtuose e di successo. Quelle che raccontiamo nel libro sono esempi vincenti, di gente che ha compiuto consapevolmente la scelta di restare o tornare in campagna. Però, da un punto di vista quantitativo, si tratta di un campione non rappresentativo. L’agricoltura tradizionale in Italia è ancora gestita dalle vecchie generazioni, con tassi di anzianità molto alti, e da un punto di vista statistico è sostanzialmente in via di esaurimento.
Però esiste un ponte significativo tra vecchio e nuovo. Chi sono i cosiddetti neorurali?
I neorurali sono giovani che scelgono di recuperare una tradizione che è stata interrotta o che non hanno mai conosciuto direttamente. Spesso abbandonano un percorso di vita professionale già avviato, sconvolgendolo radicalmente. Hanno certo la difficoltà di ricostruire o inventarsi punti di riferimento nel mondo contadino, ma agiscono con maggiore consapevolezza. Penso a Giuseppe, il ragazzo che dopo una laurea alla Bocconi di Milano e un percorso lavorativo di consulenza è tornato in Salento e oggi produce olio e graminacei. La sua scelta non è stata compresa dai suoi genitori, ma, nonostante le difficoltà, ha riavviato un’azienda che apparteneva alla sua famiglia. La sua esperienza, come molte altre, dimostra di poter sconfessare l’assunto pasoliniano per cui “il mondo contadino è morto”. Questo rivive nell’esperienza di giovani che decidono di imparare e sperimentare. La cultura contadina sopravvive e non coincide più con quell’immaginario fatto di stenti e ignoranza.
Ma come avviene, di fatto, il recupero della tradizione?
La cosa fondamentale è riuscire a stabilire una comunicazione che sappia ricucire i distacchi generazionali. Dietro alla figura di un neorurale c’è sempre quella di un uomo che il lavoro nei campi lo conosce da sempre. Per questo è importante che ci sia la volontà di trasmettere il sapere e la capacità di apprendere, nonostante i linguaggi siano cambiati. A tal proposito, il sociologo Becattini parlava di integrazione versatile. In un’espressione è quello che Giovanni, dall’alto dei suoi ottant’anni e più, ha dichiarato una volta a Costanza, quando, a suo dire «finalmente », ha compreso cosa intendesse per fare agricoltura biologica nella sua proprietà alle porte di Perugia. «Il biologico è come prima della guerra», le ha detto, mettendo fine a una disputa durata anni. Ed ecco stabilita la comunicazione.
A proposito di biologico, sono cambiate anche le modalità di finanziamento dell’attività agricola?
Il successo del biologico è una conseguenza di un cambiamento di approccio, della prevalenza dell’interesse alla qualità del bene. Anche se, a ben vedere, ci si è accorti che dalla sicurezza agroalimentare deriva un vantaggio economico e che il biologico, nonostante abbia una resa minore, costa meno dell’uso della chimica. Ma la filosofia di recupero del genuino è legata anche a precise scelte politiche, specie alle indicazioni della comunità europea. Si è andata affermando la regola della multifunzionalità dell’agricoltura cui si chiede non più di essere produttiva, bensì responsabile. L’agricoltore è premiato se garantisce ospitalità rurale, indennità ambientali, cura del paesaggio. La giustificazione prevalente per ottenere una sovvenzione europea oggi è quella di diventare “presidio del territorio”.
In che senso?
Essere “presidio del territorio” significa preoccuparsi dell’impatto ambientale delle proprie coltivazioni sul microsistema locale, ma anche impegnarsi materialmente per la salvaguardia dell’ambiente circostante. La storia di Mario, detto l’Avvocato, è esemplare perché ha permesso la dismissione di una cava limitrofa, trasformata in discarica. Dopo venticinque anni di proteste, dimostrazioni pubbliche e lettere accorate alle istituzioni, la Massera Sparano è riuscita a sopravvivere alla devastazione del territorio circostante. Spesso si tratta di veri e propri atti di resistenza.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontra chi vuole intraprendere questo mestiere?
L’ostacolo maggiore è rappresentato dall’accesso alla terra. I costi sono molto elevati e costringono molti al fitto. Per l’italiano risparmiatore la proprietà terriera è ancora un bene rifugio. Poi ci sono le difficoltà di accesso al credito e dell’esiguità dei guadagni. La forbice tra prezzi alla produzione e al consumo, infatti, è ancora assai divaricata. Ma un ulteriore rischio viene dall’eccessiva burocratizzazione. Il piccolo agricoltore soggiace, in questo Paese, alle stesse leggi e regimi fiscali del grande. Questo ha effetti negativi anche sulla possibilità di operare scelte intelligenti. La monocoltura, per esempio, è un evidente effetto del perverso sommarsi di questi impedimenti.
Cosa determina il successo di un’esperienza rurale?
Per fare questo mestiere, oggi, serve una grande tenacia e un forte coraggio. Per i piccoli sarebbe fondamentale collaborare anche se lo spirito di cooperazione in molte aree generalmente non appartiene all’etica contadina. Prevalgono esperienze di economia di scala, anche se il corporativismo non appartiene all’etica contadina. L’agricoltore è per sua natura individualista e molti tentativi di consorzio e cooperative sono stati vanificati dalla diffidenza. Di solito l’esigenza di unirsi riguarda soltanto la fase di commercializzazione del prodotto. Ma in alcune zone di Italia, in particolare al Sud, si è rivelata fallimentare. In verità, ciò che determina il successo è la solidarietà e la suddivisione di ruoli e compiti. In Liguria abbiamo raggiunto l’agririfugio Molini, in un luogo isolato e accessibile soltanto a piedi. La cooperativa resiste proprio perché ognuno partecipa all’organizzazione offrendo il proprio contributo. Le esperienze vincenti si confermano quelle dove si riesce a costruire una rete di relazioni.
Fonte
http://www.terranews.it/news/2009/11/%C2%ABquei-contadini-di-oggi-e-i-mondi-rurali-relazione%C2%BB
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