Che fico d’India! Le spine a difesa della dolcezza.
di Antonio Bruno
Col tramonto su una spalla
Col tramonto su una spalla
e fasce gialle e blu,
alto, come un gelato
di corvi in mano,
chino la testa e passo
sotto l'arco di Carlo V.
E al passaggio si spegne
il lumino dell'anime sante
che tengono la destra
a cinque punte sul petto,
fra le fiamme del Purgatorio.
Questa è la mia città,
le mura le avete viste:
sono grige, grige.
Di lassù cantavano
gli angeli dei Seicento,
tenendo lontana la peste
che infuriava sul Reame.
Ora c'è fichi d'India, un aquilone,
un ragazzo che tende
il suo elastico rosso
contro qualche lucertola
troppo spaurita e minima
per presentarsi a quel sogno
d'inaudite avventure
di cui s'inorgoglisca il cuore umano.
Vittorio Bodini (Poeta della Terra di Lecce)
Me lo sono chiesto insistentemente stamattina e non sono riuscito a darmi una risposta. Come si può far ragionare un frutto come ragiona un uomo? Dice l’uomo: siccome vogliono uccidermi mi metto la corazza, oppure il giubbotto antiproiettile. Ma come si può far dire al Fico d’India, al frutto del Fico d’India, che ha le spine per impedire di essere mangiato dagli animali?
La massima aspirazione di ogni essere vivente è quella di vivere e riprodursi, come può riprodursi uno che non sparge il suo seme? E se i frutti del Fico d’India non li mangiano gli animali che fanno passare inalterati dall’intestino i semi come fa a riprodursi?
E mentre pensavo a questo mi sono venuti in mente tempi antichi quando cominciava il primo ottobre la scuola e i miei genitori non ne volevano proprio sapere di andarsene dalla Campagna in agro di Nardò.
La Masseria si chiama “Pendinello” e da fine maggio ci ospitava sino ai giorni di San Giuseppe di Copertino che si festeggia il 26 settembre quando piogge insistenti e ai limiti del diluvio ci costringevano a far ritorno nella uggiosa autunnale San Cesario di Lecce.
Mio padre che all’epoca faceva il ferroviere (ora è in pensione) più volte raccontava le traversate della gloriosa 6oo color verde acqua che come un mezzo anfibio navigava la cittadina di Copertino che precedeva la Masseria Pendinello.
Mio padre non diceva a nessuno che faceva il Capo Manovra alla Stazione di Lecce, lui è come Nonno Libero della fiction TV “Un medico in famiglia” e si fregiava di essere Ferroviere anche sul campanello di casa dove campeggiava un Bruno Giuseppe Ferroviere che tanto mi ricordava quel San Giuseppe Artigiano.
In quella Masseria Pendinello attendevamo la fine dell’estate e, finito il mese di agosto, ecco giungere i frutti di fine estate che noi ragazzi andavamo a raccogliere direttamente dagli alberi dell’antica masseria.
Tra questi c’era il fico d’india (noi la chiamavamo ficalindia).
Quando vedi il Fico d’India ai margini delle strade sei certo che sia sempre stato li, sei sicuro che i Messapi, i Greci e i Romani si siano dati un gran da fare a mangiare i suoi gustosi e prelibati frutti.
Nell’immaginario collettivo il fico d'India è parte integrante del paesaggio mediterraneo. E invece no! Viene da molto lontano. Alcuni affermano che si tratta di un frutto introdotto in Italia dai Saraceni della dinastia araba degli Agabliti di Kairnan, al tempo dello sbarco di Mazara nella nostra Sicilia nell’anno 827.
Altri sostengono che sia stato importato dalle Americhe in Spagna nel 1500, e che il suo nome ovvero “fico d'India”, sarebbe giustificato dalla circostanza della sua provenienza dalle terre che Colombo credeva fossero le Indie, pare che chi si sia dato un gran da fare a diffondere la coltura nell'Italia meridionale siano stati i Borboni.Comunque sia nell’uno che nell’altro caso i Messapi, i Greci e i Romani non l’hanno assaggiato, e non sanno cosa si sono perso!
Ma comunque di tutto questo io ero all’oscuro quando con Giampiero Geusa, Gianfranco Tarantino e Antonio Ferro in tenuta da mare (eravamo tutti in slip, come i bambini del sud est asiatico e del medio oriente) andavamo a raccogliere le ficalindie.
Ci organizzavamo giornalmente per la raccolta che facevamo a più riprese perché i frutti (le ficalindie) hanno una maturazione che si dice “scalare” (significa che non maturano tutti in una volta ma prima alcuni e poi altri). Eravamo in slip io Giampiero Geusa di Nardò, Gianfranco Tarantino di Bari e mio cugino Antonio Ferro di Lequile e tutti avevamo estrema attenzione per le spine che potevano farci secchi nelle secche giornate d’estate, ecco perché andavamo la mattina presto quando c’era ancora il residuo della brina della notte che impregnava le spine e impediva che le stesse fossero disperse nell’aria per giungere sulle nostre nude carni di ragazzi adolescenti che avrebbero reagito con un dolore diffuso su tutto il corpo che forse avrebbe avuto pace grazie alle cure delle premurose mamme.
Tutti eravamo armati di una canna o un bastone alla cui estremità si metteva un barattolo di rame, andava bene quello dei pelati San Marzano, dentro il quale si introduceva il fico d'India, che, con un semplice movimento rotatorio, veniva distaccato dalla pala. Poi con la mano avvolta in una busta di plastica per difendersi dalle punture, si afferrava lo spinoso frutto e lo si riponeva delicatamente in un’altra busta di plastica che, una volta piena, andava messa sotto il getto dell’acqua della fontana per ammorbidire con l’acqua le spine e per disperderne la maggior parte attraverso il getto violento.
Anche quello rappresentava un giuoco dilettevole che, non concesso mai dai genitori in altre occasioni, diveniva obbligatorio nel caso delle ficalindie. I nostri genitori erano abituati alla penuria d’acqua ne sapevano il valore e consideravano prezioso il liquido trasparente, per questo non gradivano che noi la sprecassimo, non gradivano che noi lo trattassimo come fosse illimitato.
E con la festa dell’acqua e della doccia conseguente finiva la fase che potevamo curare noi ragazzi. Fatto questo ognuno si prendeva la sua brava busta con dentro i fichi d’India lavati e si recava nella sua casa dove ad aspettare c’era la regina del focolare, la casalinga per eccellenza, la mia mamma!
Io non potevo proseguire poiché avrei dovuto usare il coltello, oggetto pericoloso che non era concesso né usare, né tanto meno detenere.
La mamma prendeva la busta e con un normale coltello da cucina mozzava il frutto sia nella parte superiore e sia in quella inferiore, subito dopo, in modo perpendicolare spaccava l’involucro del frutto tanto quanto è lo spessore della buccia, quindi divaricava la spaccatura ed ecco che il frutto mi veniva offerto in tutta la sua magnificenza ad essere mangiato. C’era la ficalindia “Gialla” che è quella che mi piace di più, oppure la "Rossa" o anche la "Bianca. Tutte buone!
Ancora oggi quando sento quel sapore dolce e i semi scivolosi che facilmente si lasciano inghiottire ricordo quei tempi meravigliosi e indimenticabili.
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